Uno dei quaderni della collana "Testimonianza ortodossa" merita una speciale attenzione per aver voluto sottolineare l'identità ortodossa (negata) della minoranza arbëreshë (italo-albanese), che in Italia rappresenta forse il più forte legame, ancora non del tutto sopito, con le radici ortodosse del paese. Purtroppo, questo legame è tuttora sfruttato per un'opera di mistificazione storica: la teoria dell'esistenza ininterrotta in Italia di una Chiesa "orientale" unita a Roma. Solo opere come questo libretto possono veramente contribuire a sfatare questa mistificazione e a ripristinare – per chi l'ha dimenticata o vuole continuare a dimenticarla – la verità.
Fin dall'inizio, il libro dichiara onestamente il suo intento: far capire come gli antenati degli attuali italo-albanesi erano ortodossi. Per questo, si premura di informare per mezzo di fonti interne, e tanto più inoppugnabili in quanto provenienti dal seno stesso del cattolicesimo. Emblematica, alla fine del primo capitolo, la risposta del papàs Giuseppe Ferrari, eminente storico e teologo della Eparchia di Lungro, alla domanda se gli emigrati arbëreshë erano cattolici o ortodossi, o cattolici di rito greco: "La risposta non è difficile, se solo si pensa ai luoghi d'origine, da cui provenivano: Albania e Grecia (visto la quarta emigrazione proveniente dal Peloponneso, o come allora comunemente veniva chiamata, dalla Morea). Entrambe queste nazioni vivevano religiosamente nell'ambito del patriarcato di Costantinopoli, anche dopo che la città imperiale era caduta nelle mani dei turchi (…) La risposta, quindi da dare al quesito è, che salvo una piccola minoranza cattolica di rito latino, il resto, la stragrande maggioranza era ortodossa".
Il secondo capitolo si premura di offrire qualche elemento storico sull'Albania e sui suoi legami organici con l'Impero Romano d'Oriente, che seppero proiettare l'Ortodossia nella coscienza nazionale albanese (come nelle coscienze di tutti i popoli balcanici dell'Impero), e il terzo e quarto capitolo ci presentano rispettivamente la figura di Giorgio Castriota (Scanderbeg) e dell'insediamento (tutt'altro che semplice e indolore) degli arbëreshë in Italia. Al quinto capitolo, intitolato "L'incorporazione nella tiara papale", tocca il compito di elencare alcuni esempi di proselitismo latino nel corso di cinque secoli: latinizzazioni, commistioni, calunnie e disprezzo che purtroppo non sono finiti con il revival del "rito orientale". Il quadro è completato nel capitolo sesto da una "carta d'identità degli arbëreshë nel XXI secolo" che testimonia le confusioni ancora presenti oggi. Il capitolo settimo e conclusivo spiega la gravità del retaggio falsato del popolo arbëreshë, e invita a una chiara scelta di coscienza.
Il libro è corredato da un'appendice con i dati di base delle giurisdizioni italo-albanesi, una cronologia (assolutamente indispensabile per capire l'inesistenza di una continuità storica di una Chiesa "di rito orientale" sottomessa a Roma), di una raccolta di citazioni letterarie sul popolo arbëreshë, e di una estesissima bibliografia, che riporta anche l'elenco delle biblioteche più ricche di testi sul fenomeno italo-albanese.
A parte qualche piccola mancanza di omogeneità stilistica (Il nome "Scanderbeg" è offerto nelle prime linee del suo schizzo biografico in quattro grafie diverse, e senza che ne venga fornita un'etimologia) e alcuni errori fattuali (per esempio quando si parla di battesimo per aspersione nel capitolo VI, descrivendo subito dopo la pratica del battesimo per infusione: un dettaglio forse secondario, ma su cui si basa un'accusa precisa, e perciò tanto più importante), questo testo dovrebbe essere un'opera di riferimento per ogni ortodosso in Italia, soprattutto quelli davvero interessati a capire le radici del cristianesimo nel nostro paese.
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