Caro padre Ambrogio,
nelle tue traduzioni, il greco elèison è tradotto con “abbi misericordia”. Perché non segui la maggioranza delle versioni correnti, che traducono “abbi pietà”?
La terminologia “abbi pietà” è lo specchio di un uso molto povero e decadente della lingua italiana, nel quale ha non poco peso l’inserimento della mentalità feudale che ha progressivamente estraniato l’Occidente cristiano dall’Ortodossia.
Il latino pietas indica precisamente la devozione (evlavia in greco e in romeno, blagochestie o l’equivalente blagogovenie in slavonico), cioè l’atteggiamento di giusto rapporto con la divinità (ovvero, come ancora oggi si dice in italiano, l'essere “pio”). Tale qualità non ha correlazione con l’esercizio della misericordia (in slavonico e romeno mila: la sua sfera semantica può comprendere: amore, tenerezza, indulgenza, commiserazione, compassione…) se non nel senso lato e popolaresco di “appello alla pietà” di una data persona, di cui si vuole stimolare il senso religioso perché usi compassione. Il fatto di volersi appellare alla pietà (=devozione?) di Dio indica quanto improprio sia l'uso di questa espressione corrente.
In latino – spero non ci sia dubbio tra alcuno studioso – pietas e misericordia non erano affatto sinonimi. Sulpizio Severo, al punto 27/2 della Vita Sancti Martini episcopi et confessoris, scrive di san Martino: numquam in illius ore nisi Christus, numquam in illius corde nisi pietas, nisi pax, nisi misericordia inerat. Se nel cuore di san Martino non c’era altro che pietà e pace e misericordia, pare piuttosto evidente che pietà e misericordia – ameno alle orecchie di un autore cristiano del IV-V secolo come Sulpizio Severo – non siano la stessa cosa, così come nessuna delle due è la stessa cosa della pace.
Prendiamo come altro esempio – soprattutto perché riguarda un appello accorato – una delle colonne del pensiero cristiano ortodosso in (ottima!) lingua latina, i Dialoghi di san Gregorio Magno. Nel primo capitolo del libro III, san Paolino di Nola accompagna una vedova in Africa per ottenere la liberazione del figlio della donna, prigioniero del genero del re dei Vandali. La donna prega il barbaro con le parole: solummodo pietatem in me exhibe, “soltanto mostra pietà nei miei confronti”, ovvero “abbi soltanto pietà di me”. Versione perfetta e antica e ortodossa, MA… riferita al genero di Genserico, NON a Dio onnipotente!
Nessuno, nell’antichità cristiana, avrebbe avuto la sfacciataggine di chiedere la pietas di Dio (…a chi dovrebbe essere devoto, Dio?): si chiedeva piuttosto la sua misericordia (termine latino così come italiano), e questo è quel che fa ogni autore ortodosso in Italia fino al tempo del feudalesimo. Poi, con il moltiplicarsi degli appelli alla pietas per stimolare il potente di turno a essere pius e a non scannarti, la misericordia inizia surrettiziamente a cedere il passo alla “pietà” nel periodo più oscuro dei latinismi liturgici.
Uno dei meriti del Compendio liturgico ortodosso (1990) – per il quale non sarà mai ringraziato abbastanza – è quello di avere messo in discussione nell’ambiente ortodosso italiano la traduzione di èleos con il termine “pietà”. Al suo posto propone il termine “misericordia”, nulla di fantasioso, ma semplicemente la corretta traduzione latina (e italiana) di èleos. In tal senso non si è mosso solo un gruppo di ortodossi: così traducevano già da tempo serie figure del mondo cattolico come padre Giovanni Vannucci, osm (1913-1984) e don Divo Barsotti (1914-2006), buoni letterati e poeti oltre che esperti di lingua liturgica.
Non vedo buone ragioni, in una nuova traduzione della Liturgia, di tornare al linguaggio sacrocuorista delle versioni precedenti. In tale linguaggio non c’è nessun dogma conclamato, senz’altro, ma perché, se ce l’abbiamo teologicamente con i sacri cuori, dobbiamo meschinizzarci linguisticamente a parlare da sacrocuoristi? Forse che i modi con i quali ci esprimiamo non hanno alcun nesso con il modo di vivere la nostra fede? Non riesco a spiegarmi perché gli ortodossi di oggi, talvolta attenti in modo maniacale a cogliere i pensieri dell’Occidente latino (radici di eresie vere o presunte) devono poi bersi supinamente le espressioni linguistiche che vengono dalla stessa fonte, invece di usare i termini altrettanto accettabili dell’antico Occidente ortodosso.
Queste piccole ma importanti considerazioni sono il sine qua non di una sensibilità linguistica alle cose sacre. Se una retta dottrina porta a una retta pratica, una buona semantica non può che aiutare una buona intelligenza della fede.
Vogliamo poi vedere che razza di caos viene a crearsi nelle nostre traduzioni con l’inclusione di questa piccolezza, la “pietà di Dio”, di questo “iota”, di questa innocua espressione che tanto “ormai è entrata nell’italiano corrente”?
1 – Quei punti che meriterebbero davvero la traduzione letterale di “pietà” – per esempio la petizione per quelli che entrano in chiesa “con fede, pietà e timor di Dio” – diventano oscuri. Di solito si mantiene in questi punti il termine “pietà”, e non si riesce più a capire in cosa questa pietà dovrebbe distinguersi da quella riferita a Dio negli altri punti in cui si è tradotto eleos in questo modo.
2 – Quando si traduce eleos con “pietà” non si riesce mai ad andare a fondo nella coerenza. Perché “Abbi pietà di me, o Dio, secondo la tua grande misericordia” e non: “Abbi pietà di me, o Dio, secondo la tua grande pietà”? Si tratta dello stesso termine.
3 – A “misericordioso” cede il passo “pietoso”, oggi piuttosto sinonimo di “oggetto di compassione” (come in: “avere un aspetto pietoso”), e chi non si sente di parlare di un “Dio pietoso” se non in apnea, ritorna spesso e volentieri a usare il termine “misericordioso”, usando deliri di confusione del genere “abbi pietà perché sei un Dio misericordioso”.
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