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Il simbolismo della tavola pasquale

Il Tipico chiama ogni pasto di festa "una grande consolazione per i fratelli." La Pasqua, che per importanza si erge al di sopra dei ranghi delle dodici feste principali e viene chiamata la "festa delle feste e la solennità delle solennità", presuppone una trapeza (tavola) particolarmente abbondante e diversificata. Tuttavia, nel consentire questa consolazione, la Chiesa tuttavia non approva particolarmente le raffinatezze che necessitano di molti componenti o i piatti difficili da preparare, considerando che le novità culinarie pretenziose sono parte del peccato di gola. Sulla tavola pasquale dovrebbero stare diversi cibi semplici, poco costosi, ma molto gustosi che portano in loro un profondo significato simbolico.

Fin dalla prima settimana del digiuno, la casalinga responsabile comincia a salvare le bucce di cipolla, che colorano le uova nel miglior colore bruno-rossastro meglio di qualsiasi polvere colorante. Dipingere le uova di Pasqua è una vera e propria arte. Gli artisti miniaturisti sono in grado di raffigurare chiese e monasteri, fantastici mazzi di fiori, luci celesti, il mare, le foreste, le steppe e le montagne, santi e angeli sulla superficie convessa. Solo che tutti questi dipinti vengono dall'influenza dell'Occidente, e le vere uova di Pasqua sono sempre colorate con bucce di cipolla!

La spiegazione data per l'abitudine di dipingere di rosso le uova di Pasqua viene da un apocrifo piuttosto tardo che parla della conversione dell'imperatore romano Tiberio al cristianesimo. Volendo porre fine alla predicazione di Maria Maddalena, dichiarò che avrebbe preferito credere in un uovo bianco che diventava rosso rispetto alla possibilità della risurrezione dei morti. Un uovo divenne rosso, e questo divenne l'ultimo argomento nella polemica che culminò nel battesimo del Cesare romano.

L'usanza di scambiarsi uova colorate entrò nella vita della Chiesa. Il significato simbolico dell'uovo come l'inizio di una nuova vita era noto anche prima. I cristiani videro in questo simbolo la conferma della loro fede nella futura risurrezione generale. Il colore rosso del uovo di Pasqua simboleggiava l'amore divino che tutto conquista, che da solo potrebbe distruggere l'inferno!

Il kulich pasquale assomiglia nella forma all’artos, il pane che viene benedetto nel servizio divino pasquale e distribuito il Sabato della Settimana Luminosa. L’artos pasquale è un simbolo del Signore Gesù Cristo stesso. Rivolgendosi ai discepoli, disse: Io sono il pane della vita ... Questo è il pane disceso dal cielo, affinché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo: se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne, per la vita del mondo (Giovanni 6:48-51). L’artos è sempre preparato con pasta lievitata. Questo non è il pane azzimo ebraico, in cui non c'è nulla di vivente. Questo è il pane in cui lievito è la respirazione, la vita che potrebbe durare per sempre. Lo stato ontologico dell’artos non consente l'aggiunta di alcunché di superfluo. Non contiene prodotti dolciari, né additivi aromatici. L’artos è un simbolo del pane più quotidiano - Cristo Salvatore, che è la Vita!

Tuttavia, il kulich pasquale, questo pane che viene portato al tavolo della festa, al contrario, ha decorazioni, dolcificazioni, uva passa e noci. Un kulich russo adeguatamente preparato non diventa raffermo per settimane, è aromatico, bello, pesante, e può mantenersi buono, senza rovinarsi, per tutti i quaranta giorni di Pasqua. Questa modifica dell’artos ha anche una base simbolica. Il kulich pasquale sul tavolo di festa simboleggia la presenza di Dio nel mondo e nella vita umana. Le decorazioni, i prodotti dolciari e la bellezza del kulich pasquale, in questo modo esprimono la preoccupazione del Signore per tutta l'esistenza umana, la sua compassione, la misericordia, la condiscendenza per le infermità della natura umana, la sua disponibilità ad ascoltare ogni preghiera, di venire in aiuto al più insignificante peccatore.

Il nome "dolcissimo" dato al Signore Gesù in uno dei più antichi inni acatisti aiuta a capire il simbolismo del kulich pasquale.

Ancora un altro elemento indispensabile della tavola pasquale, altrettanto aromatico e bello, è la paskha di formaggio, il cui simbolismo è pure profondamente radicato nella sacra Scrittura. Una terra di fiumi di latte che scorrono attraverso rive di kissel (sciroppo di frutta) è uno degli archetipi più diffusi caratteristici delle culture più diverse. I fiumi di latte che scorrono attraverso rive di kissel erano un eterno sogno dei contadini russi, manifestato in storie e canzoni popolari.

Il Signore, rivolgendosi a Mosè, promette al suo popolo eletto un paese buono e grande, un paese dove scorrono latte e miele (Es 3,8). Questa caratterizzazione della Terra Promessa persiste in tutta la storia della Pasqua, il passaggio degli ebrei dall'Egitto alla Palestina. Si tratta di una prefigurazione del regno celeste, il cui percorso per una persona fedele è più difficile del viaggio di quarant’anni degli ebrei. Il suo "latte e miele" è un'immagine della gioia senza fine, la beatitudine dei santi trovati degni della salvezza e della permanenza eterna davanti al trono di Dio.

Così la paskha di formaggio è un simbolo della gioia pasquale, della dolcezza della vita paradisiaca, della beata eternità, che non è una continuazione infinita di tempo, una ripetizione senza senso della stessa cosa, ma, secondo la profezia dell'Apocalisse, "un nuovo cielo e una nuova terra", e la "collina", la forma in cui è fatta la paskha, è un simbolo della Sion celeste, il fondamento duraturo della Nuova Gerusalemme - la città in cui non vi è alcun tempio, poiché il Signore Dio Onnipotente e l'Agnello sono il suo tempio (Apocalisse 21:22).

 
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"Il grido segreto del Monte Santo": intervista al metropolita Hierotheos sul Monte Athos

Considero una grande benedizione da Dio di aver fatto la conoscenza del Monte Santo quando stavo studiando alla scuola teologica di Tessalonica. Il nostro professore, Panayiotis Christou, a quel tempo stava pubblicando le opere di san Gregorio Palamas, così ha messo insieme due gruppi, assieme a Gheorghios Mantzaridis che era allora un professore assistente; uno dei gruppi è arrivato qui, ai monasteri del lato meridionale del Monte Santo; l'altro gruppo è andato sul lato settentrionale. Abbiamo lavorato nelle biblioteche dei monasteri e abbiamo fatto trascrizioni dei manoscritti. Il professor Christou mi ha assegnato il compito di supervisionare e partecipare all'edizione critica delle opere di san Gregorio. In quale senso? Io ero allora uno studente del secondo e del terzo anno. Così ho fatto l'edizio9ne critica del secondo volume, con le grandi opere di san Gregorio Palamas. Ora, a volte san Gregorio Palamas usava le parole di san Gregorio il Teologo e diceva "Come disse san Gregorio il Teologo...", ma senza fare un riferimento fattuale. Mi sono stati dati tutti i passi di san Gregorio il Teologo che Palamas aveva usato. Li ho imparati a memoria e ho letto tutte le opere del Teologo per localizzare questi passi. Con questo in mente, dopo aver finito di leggere Gregorio il Teologo, ho proceduto a leggere Palamas. È qui che ho visto un santo athonita, un santo che viveva sul Monte Santo e sperimentava la sua vita e le sue tradizioni, e che esprimeva le tradizioni athonite. E quando mi è stata data questa opportunità sono giunto a conoscere molti athoniti. Sono andato ai monasteri, agli eremi e al deserto del Monte Santo, e ho chiesto ai padri a proposito della preghiera, ho chiesto loro di dirmi che cos’è. Perché? Perché la tradizione è viva. Non è una tradizione conservata in musei. Naturalmente, abbiamo musei per la salvaguardia delle icone e di cose simili, ma alla fine nelle icone vediamo la teologia della Chiesa. Se andiamo al Protaton, a Karyes, per esempio, vediamo gli affreschi creati da Panselinos, e lì vediamo il XIV secolo, perché allora c'era un dialogo sulla luce che i tre discepoli avevano visto sul Monte Tabor: era creata o increata? Noi, naturalmente, diciamo che era increata. Barlaam e gli altri che avevano un punto di vista occidentale dicevano che era creata. Così Panselinos prese tutta questa teologia e la traspose nei volti dei santi, rendendoli luminosi, e così via, per mostrare che la luce fuoriesce dai nostri cuori. Non è luce esterna, ed ecco perché non ha messo chiaroscuri; non ci sono ombre. Fuoriesce dall'interno e illumina il corpo, trasfigura il corpo umano. Pertanto, abbiamo una tradizione vivente. Sul Monte Santo ho conosciuto san Paissio, ho fatto la conoscenza con l'anziano Ephraim a Katounakia, l'anziano Ephraim a Filotheou, padre Theoklitos a Dionysiou e molti monaci che non si distinguevano, che non uscivano sotto i riflettori, ma vivevano la semplice vita monastica ed erano persone genuinamente naturali. In altre parole, praticamente non parlavo quando arrivavo, rimanevo in silenzio; ero venuto non a insegnare ma a imparare; ero venuto ad ascoltare il grido segreto del Monte Santo. Ecco perché, quando ero ancora relativamente giovane, ho scritto un libro, 'Una notte nel deserto del Monte Santo', in cui cercavo di descrivere che cosa avevo cercato e che cosa avevo trovato tra gli anziani. Poi padre Ghoerghios Kapsanis, l'ex abate del monastero Grigoriou, oggi defunto, mi ha incitato a pubblicarlo e ne ha scritto il prologo. E mi ha lasciato un'impressione, perché, sapete cosa ha scritto? 'L'autore di questo libro è stato trovato degno di ascoltare il grido segreto del Monte Santo'! Mi ha fatto un'enorme impressione perché, alla fine, è questo che accaduto. Il Monte Santo è un organismo vivente. Naturalmente, dall'esterno sembra una montagna, una penisola, con una bella vegetazione, di grande importanza e significato ecologico: se infatti esamini il suolo vergine del Monte Santo, è affascinante. Ma non è solo questo. Il Monte Santo sono anche i padri che ci vivono e mantengono la tradizione, e che sono anch'essi, in fin dei conti, organismi viventi. Che cos'è, comunque, la tradizione? È il dono di Dio e la grazia di Dio che si dona e si trasferisce di generazione in generazione, da organismi viventi, esattamente come fa la vita. Cos'è la vita biologica, se non qualcosa di trasmesso di generazione in generazione? Le persone devono essere biologicamente mature per contrarre matrimonio, per entrare in una relazione e comunione con un'altra persona, con l'altro sesso, e naturalmente, per avere figli. San Gregorio di Nissa dice che le persone possono trasmettere la vita e la trasmettono, e che, naturalmente, nel farlo trasmettono anche la morte Così abbiamo un trasferimento di vita, vita biologica, di generazione in generazione. E io credo che nello stesso modo in cui è trasmessa la vita biologica, così lo è anche la tradizione spirituale. Come dice san Paolo: 'Potete infatti avere innumerevoli pedagoghi in Cristo, ma non molti padri, poiché io sono divenuto vostro padre in Cristo per mezzo del vangelo'. I pedagoghi sono una cosa, i padri un'altra. Un pedagogo parla teoricamente, ma i padri generano spiritualmente. Ecco perché dice 'sono divenuto vostro padre per mezzo del vangelo'. Così, abbiamo una nascita. C'è una persona che è in grado di generare spiritualmente e quelli che sono generati e che ne discendono, i figli spirituali. E così siamo obbedienti, ma attraverso ciò, non perdiamo la nostra libertà. In ogni caso, perdiamo la nostra libertà e diventiamo schiavi quando facciamo tutto quel che vogliamo, perché la libertà si conquista superando il nostro amor proprio. San Massimo il Confessore dice che l'amor proprio odia le altre persone e Dio. Le persone che amano se stesse – e l'amor proprio è amore irrazionale del corpo – non può realmente amare Dio, né amare le altre persone. Allora come possiamo imparare? Essendo obbedienti a un organismo vivente, che abbia una tradizione che possiamo ricevere. È la stessa cosa con la conoscenza umana. Se vogliamo ricevere qualcosa di perfetto, non cerchiamo forse un insegnante perfetto, che conosce davvero bene la musica, l'arte o qualche tipo di scienza, e non cerchiamo di essergli obbedienti? Faremo di simili insegnanti, in un certo senso, degli anziani. Non per farci schiavizzare da loro, ma per ricevere conoscenze, per imparare e per essere liberati, per divenire liberi. Questo capita anche nelle questioni spirituali. Così, sul Monte Santo, ho trovato organismi viventi, non libri e musei. Ho trovato persone, come ho detto in precedenza, e poi ho fatto la conoscenza di san Porfirio. E rendo gloria a Dio per avermi dato l'incarico di sottomettere la richiesta di canonizzazione per i santi Porfirio e Paissio al Patriarcato Ecumenico. 10 anni fa. Ho ricevuto una lettera dal Patriarca Ecumenico in cui diceva che egli li considerava davvero santi, ma che prima doveva passare un certo tempo. Riteneva una gran benedizione che fossero canonizzati durante il suo mandato, e le canonizzazioni sono state annunciate dieci anni dopo che gli ho inviato la lettera. Ho anche fatto la conoscenza dell'anziano Sofronij, una figura di grande levatura che, mentre era qui al Monte Santo, ha trovato san Silvano. L'anziano, naturalmente, aveva la sua esperienza spirituale, e l'ha confermata con san Silvano. Alcune persone leggono gli scritti di questi Padri moderni dall'esterno. Ci sono alcuni razionalisti intenti a trovare colpe, che hanno messo assieme una loro teoria sulla base della quale interpretano gli insegnamenti e i testi di altre persone, e accusano qualcuno di essere un eretico, altri di avere altre colpe. Ma non è così. Se non hai conosciuto un santo di persona, allora non puoi capire i suoi testi. E se ti limiti a leggerli, farai errori molto grossi, ed è una cosa terribile essere ostile ai santi, che sono noti dai loro frutti. Cristo infatti dice che sarai in grado di riconoscere un albero buono da un albero marcio dai suoi frutti. Quando hanno vissuto degli anziani, che sono organismi viventi, hanno passato questa vita ai loro figli spirituali e hanno raggiunto un'alta statura spirituale, come indicato dai loro splendidi frutti, li attaccherai e dubiterai di loro? Se lo fai, stai combattendo contro i santi. Così, quel che ho imparato sul Monte Santo, e ciò che ora dico in modo fraterno, alle persone che ora stanno ascoltando e osservando, in modo che possano imparare a loro volta, è di cercare di ascoltare il grido segreto del Monte Santo, che è la preghiera del cuore: 'Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi misericordia di me'. 'Signore, a te ho gridato', 'dagli abissi ti invoco'. Li invito anche a cercare organismi viventi in modo da poter ricevere la tradizione e vivere all'interno di essa.

 
Quello che gli antichi greci avrebbero pensato del matrimonio gay

È ironico che i sostenitori dell'omosessualità scelgano così spesso la Grecia antica come loro paradigma a causa del suo alto stato di cultura e della sua accettazione parziale dell'omosessualità o, più precisamente, della pederastia. Anche se alcuni antichi greci hanno davvero scritto peana all'amore omosessuale, nessuno di loro ha pensato di proporre le relazioni omosessuali come base per il matrimonio nelle loro società. L'unica relazione omosessuale che era accettata era tra un maschio adulto e un maschio adolescente. Questa relazione doveva essere temporanea, e ci si aspettava che il giovane si sposasse e mettesse su famiglia, non appena aveva raggiunto la maturità.

L'idea che qualcuno fosse un "omosessuale" per la vita o avesse questa caratteristica come identità permanente li avrebbe colpiti da più di strano. In altre parole, l' "omosessualità", per il quale al momento non esisteva una parola in greco (o in qualsiasi altra lingua fino alla fine del XIX secolo), era un fenomeno puramente transitorio. Sembra che molti di questi rapporti tra mentore e studente nell'antica Grecia fossero casti e che quelli che non lo erano raramente comportassero la sodomia. Le relazioni omosessuali tra maschi adulti non erano accettate. Questo non è certo il paradiso omosessuale idealizzato a cui i propagandisti "gay" contemporanei si appellano nel tentativo di legittimare un comportamento che avrebbe scandalizzato gli antichi greci.

La cosa particolarmente ironica è che il maggiore contributo della Grecia antica alla civiltà occidentale fu la filosofia, che ha scoperto che la mente può conoscere le cose, a differenza di avere solo opinioni sulle cose, che la realtà oggettiva esiste, e che esiste uno scopo implicito nella sua costruzione.

L'idea stessa di natura e legge naturale è sorta come prodotto di questa filosofia, i cui primi e forse più grandi esponenti, Socrate e Platone, erano inequivocabili nella loro condanna degli atti omosessuali come atti contro natura. Nelle Leggi, l'ultimo libro di Platone, l'oratore ateniese afferma: "Penso che sia da considerarsi naturale il piacere che sorge dal rapporto tra uomini e donne, ma che il rapporto di uomini con uomini, o di donne con donne, sia contrario alla natura, e che le sue audaci prove siano state dovute in origine a sfrenata lussuria". (Leggi 636C, vedi anche il Simposio di Senofonte, 8:34 e il Simposio di Platone, 219B-D).

Per Socrate, la vista della bellezza non è da prendere come un bene in sé, ma come un riflesso della bellezza divina e del bene ultimo verso il quale Eros dirige l'anima. È un errore, pertanto, essere deviati a causa del riflesso dalla propria ricerca del bene ultimo, che è la fonte della bellezza. La bellezza suscita e risveglia l'anima, ma è la filosofia che fornisce i mezzi per percepire e venire a conoscere il bene.

Come conseguenza di questo punto di vista metafisico, Socrate vede l'attrazione erotica di un uomo adulto (erastes) per un bel giovane (eromenos o paidika) nella prospettiva della pulsione erotica per la saggezza. Questa unità sarà ostacolata da una vita di auto-indulgenza e può procedere solo con una vita di auto-disciplina. Pertanto, il rapporto tra l'erastes e l'eromenos dovrebbe svolgersi con il più anziano che illumina il più giovane nella formazione filosofica. Ciò significa che qualsiasi contatto fisico tra l'uomo più vecchio e il più giovane deve avvenire considerando quest'ultimo "come un figlio", come dice Socrate, e non oltre.

Ciò che andava oltre, Socrate lo condannava. Lui detestava la sodomia. Secondo Senofonte nei Memorabilia (i 2.29f.), Socrate vide che Crizia stava importunando sessualmente i giovani dei quali era innamorato, "volendo fare con loro le stesse cose di coloro che usano il corpo per un rapporto sessuale". Socrate obiettava che "ciò che chiede non è una cosa buona", e diceva che, "Crizia non era meglio di un maiale se voleva grattarsi contro Eutidemo come i maialini fanno contro le rocce".

Nel Fedro (256 ab), Socrate rende evidente la superiorità morale della relazione amorevole tra uomini che evita di essere sessualizzata: "Se ora gli elementi migliori della mente, che portano a una vita ben ordinata e alla filosofia, prevalgono, vivono una vita di felicità e d'armonia sulla terra, auto-controllati e ordinati, tenendo in soggezione ciò che causa il male nell'anima e dando la libertà a ciò che crea la virtù ... "

Con la loro castità, questi amanti platonici hanno, secondo un'altra traduzione del testo, "schiavizzato" la fonte del male morale in se stessi e "liberato" la forza del bene. Questo era il tipo di rapporto tra mentore e studente, che Socrate e Platone approvavano. D'altra parte, "colui che è costretto a seguire il piacere e non il bene (239c)" perché è schiavo delle sue passioni porterà per forza danno a colui che ama, perché sta cercando di compiacere se stesso, piuttosto che cercare il bene dell'altro.

Nelle Leggi, Platone chiarisce che la virtù morale in relazione al desiderio sessuale non è solo necessaria per il giusto ordine dell'anima, ma è al cuore di una polis ben ordinata. L'oratore ateniese dice:

... Ho avuto un'idea per rafforzare la legge circa l'uso naturale del rapporto sessuale che procrea figli, astenersi dai maschi, non uccidere deliberatamente la progenie umana o 'seminare tra le rocce e le pietre', dove non potrà mai attecchire e crescere, astenendosi anche da tutto il suolo femminile, in cui non si vuole che cresca ciò che si è seminato.

Questa legge, quando è diventata permanente e prevale (se è giustamente diventata dominante in altri casi, proprio come prevale oggi per quanto riguarda il rapporto con i genitori) conferisce innumerevoli vantaggi. In primo luogo, è stata fatta secondo natura; inoltre, porta un'interdizione dalla furia e follia erotica, tutti i tipi di adulterio e tutti gli eccessi di cibo e bevande, e rende gli uomini veramente affezionati alle loro mogli: inoltre ne deriverebbero altre benedizioni, in numero infinito, se si potesse assicurare questa legge. (Le leggi 838-839)

L'intuizione centrale della filosofia greca classica è che l'ordine della città è l'ordine dell'anima scritto a caratteri cubitali. Se c'è disordine nella città, è a causa di disordine nelle anime dei suoi cittadini. Questo è il motivo per cui la virtù nella vita dei cittadini è necessaria per una polis ben ordinata. Questo concetto si riflette nella dichiarazione dell'ateniese relativa ai benefici politici della virtù della castità.

Il rapporto tra la virtù e l'ordine politico è, naturalmente, per eccellenza, il tema delle opere di Aristotele. Era una preoccupazione non solo della filosofia, ma pure del dramma. Basta leggere Le baccanti di Euripide. Euripide e i greci classici sapevano che Eros non è un giocattolo. Ne Le baccanti, come brillantemente spiegato da E. Michael Jones, Euripide ha mostrato esattamente quanto è insicuro il sesso quando è disconnesso dall'ordine morale. Quando Dioniso visita Tebe, convince il re Penteo a vedere di nascosto la danza delle donne nude sul fianco della montagna nei bagordi dionisiaci. Poiché Penteo soccombe al suo desiderio di vedere "le loro selvagge oscenità", l'ordine politico è rovesciato, e la regina madre, Agave, una delle baccanti, finisce con la testa mozzata di suo figlio Penteo in grembo - un presagio inquietante dell'aborto.

La lezione è chiara: una volta che Eros è liberato dai vincoli della famiglia, le passioni dionisiache possono possedere l'anima. Darsi a loro è una forma di pazzia, perché il desiderio erotico non è diretto verso un fine che può soddisfarlo. È insaziabile. "Ciò che provoca il male nell'anima" - categoria in cui Platone comprende i rapporti omosessuali - provocherà in ultima analisi disordine politico.

Per Aristotele, il nucleo irriducibile di una comunità politica è la famiglia. Così, Aristotele inizia La politica non con un singolo individuo, ma con una descrizione di un uomo e una donna insieme in famiglia, senza la quale non può esistere il resto della società. Come egli dice ne La politica, "prima di tutto, ci deve essere necessariamente un'unione o associazione di coloro che non possono esistere l'uno senza l'altro." Più tardi, egli afferma che "marito e moglie sono allo stesso modo parti essenziali della famiglia."

Senza la famiglia, non ci sono villaggi, che sono associazioni di famiglie, e senza villaggi, non vi è alcuna polis. "Ogni stato è [principalmente] composto da famiglie," afferma Aristotele. In altre parole, senza famiglie - il che significa mariti e mogli, che vivono insieme in famiglie - non c'è stato. In questo senso, la famiglia è l'istituzione pre-politica. Lo stato non rende possibile il matrimonio: il matrimonio rende possibile lo stato. Il matrimonio omosessuale avrebbe sconvolto Aristotele come un'assurdità, dal momento che non si poteva fondare un sistema politico sui suoi rapporti necessariamente sterili. Questo è il motivo per cui lo stato ha un legittimo interesse nel matrimonio, perché, senza di esso, non ha futuro.

Se Aristotele ha ragione a dire che la famiglia è l'elemento primario e irriducibile della società - allora la castità diventa il principio politico indispensabile perché è la virtù che regola e rende possibile la famiglia - l'unità fondamentale della polis. Senza la pratica di questa virtù, la famiglia diventa inconcepibile. Senza di essa, la famiglia si disintegra. Una famiglia sana è basata sulla relazione sessuale propria ed esclusiva tra marito e moglie. Solo la famiglia è in grado di fornire la necessaria stabilità per il profondo rapporto che l'unione sessuale simboleggia e cementa e per il benessere dei bambini che ne provengono.

Le violazioni della castità minano non solo la famiglia, ma l'intera società. Questo spiega la condanna pronunciata di Aristotele riguardo all'adulterio, che trova ancor più odioso se commesso mentre la moglie è incinta: "Se il marito o la moglie sono scoperti mentre commettono adulterio - in qualunque momento ciò possa accadere, in qualsiasi forma, durante tutto il periodo del loro essere sposati e chiamati marito e moglie - deve esserne fatta una questione di vergogna. Ma essere scoperti mentre si commette adulterio durante il periodo stesso in cui si portano i bambini al mondo è una cosa da punire con uno stigma di infamia proporzionato a un tale reato. "(La politica, XVI, 18) Aristotele capiva che le leggi erano, o dovevano essere, ordinate alla formazione di un certo tipo di persona - verso la realizzazione di una cittadinanza virtuosa.

Questo è il motivo per cui Aristotele vieta l'adulterio, e vuole renderlo vergognoso in tutte le circostanze, non solo perché sovverte la virtù, ma perché attacca il fondamento politico della società. L'adulterio diventa un problema politico perché viola la castità, che è indispensabile per una polis giustamente ordinata. Non c'è una condanna paragonabile dell'adulterio nel matrimonio omosessuale in Aristotele, perché per lui una tale istituzione sarebbe stata inconcepibile, come lo è stata nel corso della storia fino a tempi recenti. Questo perché si tratta di una contraddizione in termini. Il matrimonio non può essere basato su un atto che è di per sé una violazione della castità, perché non vi può essere il suo contrario. Una famiglia omosessuale non avrebbe senso per Aristotele, dal momento che non può contenere i genitori e tutti i rapporti generazionali che nascono da loro, e che rendono possibile la polis. Ciò che non aveva senso allora, continua a non avere senso ancora adesso, e per le stesse ragioni.

 
VIDEO - La caduta di un impero

Aggiungiamo alla sezione dei Video Il documentario La caduta di un impero: la lezione di Bisanzio (Гибель империи. Византийский урок). L'archimandrita Tikhon (Shevkunov) ci porta attraverso l'Europa a scoprire le lezioni che la nostra civiltà e la Chiesa ortodossa possono ricavare dall'epopea dell'Impero Romano d'Oriente e dalla caduta di Costantinopoli. Il film è girato sotto la supervisione dello stesso padre Tikhon, che ha una formazione professionale come cineasta.

Qui sotto è il link al film originale in russo.

Qui invece è il link al film russo doppiato in inglese.

 

 
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San Simeone di Dajababe

Il nostro venerabile Padre Simeone di Dajbabe, al secolo Sava Popovic, è nato nel 1854 a Cetinje, l’antica capitale del Montenegro. Laureato al Seminario di Kiev, si è interessato a studi di filosofia e di cristianesimo occidentale, che ha compiuto a Parigi e in una scuola protestante in Svizzera. Tonsurato come monaco a Kiev e rientrato in Montenegro, è vissuto al monastero di Ostrog, dove ha lavorato come insegnante alla scuola monastica, e ha pubblicato i suoi primi scritti (insegnamenti spirituali per monaci e preti).

Nel 1895 si è trasferito a Dajbabe, accanto a Podgorica (attuale capitrale del Montenegro), in seguito all’apparizione a un giovane pastore locale del santo Ilarion, primo vescovo di Zeta e Primorje. Le reliquie del Vescovo Ilarion erano scomparse, forse rubate dai turchi, o forse sepolte nei paraggi. Anzi, si sospetta tuttora l’esistenza di un’antica chiesa sotterranea nelle vicinanze, a causa dei libri ecclesiastici che testimoni oculari riferivano di aver visto in mano al pastore nel periodo dell’apparizione.

San Simeone ha ricostruito l’antica grotta monastica di Dajbabe, dove si è ritirato a vita di preghiera e di lavoro. Non avendo altre obbedienze monastiche da compiere, ed essendo egli stesso pittore, ha affrescato le pareti e il soffitto della grotta.

Come poeta e drammaturgo, ha messo alcuni dei suoi insegnamenti spirituali sotto forma di versi, e anche di un’opera teatrale, intitolata Il regno dei demoni e i nostri peccatori.

Un dono di chiaroveggenza lo ha portato a prevedere i frutti della perdita della salute (al suo tempo le donne iniziavano a fumare – cosa prima di allora impensabile nella società patriarcale montenegrina – e dopo molti appelli inascoltati egli diceva “una donna che fuma è come una gallina che canta, e finisce sempre in pentola”); parlava inoltre in temini terribili di guerre fratricide tra i serbi, e pregava di non vedere quei tempi. È stato esaudito: San Simeone si è addormentato nel Signore il 1 aprile del 1941, cinque giorni prima del bombardamento tedesco su Belgrado.

È stato il confessore dell’Archimandrita Iustin Popovic (che diceva di lui: “se volete vedere un santo vivente, andate a Dajbabe”); è stato dietro suo consiglio che Padre Iustin non ha accettato la carica di Vescovo della Cecoslovacchia (sede allora dipendente dalla Chiesa Ortodossa Serba), ma è rimasto in Serbia, ed è divenuto un autore spirituale di grande levatura.

La chiesa serba (assieme a quella russa, romena, bulgara e greca) lo venera come santo a livello informale, dato che la sua canonizzazione ufficiale non ha ancora avuto luogo: dopo alcuni fatti miracolosi avvenuti a Dajbabe (il primo è stato la guarigione di una ragazza sordomuta), la sua canonizzazione è solo questione di tempo, e la si aspetta probabilmente accanto a quella del Padre Iustin Popovic, come i due più grandi santi monaci dell’Ortodossia serba del XX secolo.

Le sue reliquie sono state aperte ed esposte alla venerazione dal Metropolita Amfilohije del Montenegro nel 1996, ma già da prima avvenivano guarigioni sulla sua tomba, che erano attribuite all’icona della Madre di Dio di Gerusalemme tuttora venerata presso le reliquie.

La sua icona è stata dipinta da Mirko Toljic, rettore dell’Accademia delle Arti di Trebinje.

 
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ARTOSUL PASCAL şi PÂINEA NUMITĂ „PAŞTI”

Conform Tipicului mănăstiresc, la Liturghia pascală, în faţa icoanei Mântuitorului, pe o masă se pune o pâine („artos”), care are imprimată pe ea icoana Învierii1. Înainte de Otpustul Liturghiei, această se binecuvântează prin rugăciunea specială din Liturghier (numită: Rugăciune la binecuvântarea pâinii, [care se numeşte în popor „Paşti”]2 în Sfânta Duminică a Paştilor) şi se stropeşte cu agheasmă, apoi toată Săptămâna Luminată este purtată în procesiune la masa fraţilor, iar în Sâmbăta Săptămânii Luminate, artosul se frânge şi se dă fraţilor spre mâncare.3 Purtarea acestei pâini la trapezele mânăstireşti Îl simbolizează pe Hristos cel înviat şi prezent la masa fraţilor pe parcursul întregii Săptămâni Luminate, aşa cum şi „Panaghia” (o prescură închinată Născătoarei de Dumnezeu) o reprezintă pe Maica Domnului care stă la masă cu fraţii în zilele de duminici şi sărbători. Este o dimensiune pierdută chiar şi în mănăstiri, iar în parohii nici n-ar avea de ce să fie instituită sau păstrată formal 4.

În practica liturgică românească însă, „artosul pascal” este de obicei confundat cu pâinea şi vinul ce se binecuvintează în Sâmbăta Mare şi care, în mod eretic (!), sunt numite „Paşti”.

După cum se ştie, Liturghia din Sâmbăta Mare, a Marelui Vasile, se face unită cu Vecernia şi ea trebuie săvârşită în orele de după masă. Tipicul Mănăstirii Sf. Sava prevede ca după Liturghie clericii şi credincioşii să rămână postind în biserică5, pentru a asculta citirile din Faptele Sfinţilor Apostoli, care trebuie lecturate integral până la începutul Utreniei pascale de la miezul nopţii. Pentru întărirea trupească, înainte de Otpustul Liturghiei de Sâmbătă se face binecuvântarea pâinilor şi a vinului prin rugăciunea obişnuită de la Priveghere6 („de la Litie”), omiţând cuvintele "grâu" şi "untdelemn"7. După binecuvântare, această pâine înmuiată în vin se mănâncă chiar în biserică spre întărirea trupului (nu pur simbolic), dar fără a avea ceva comun cu Paştele.

Ea are rolul pâinii şi vinului care se binecuvintează şi se consumă ca întărire trupească, la fiecare Priveghere (când e numită eronat: „litie”8).

Aşa cum ne arată istoria, românii ortodocşi, pe parcursul întregii vieţi, se împărtăşeau foarte rar sau chiar deloc (!), luând doar la Paşti pâine binecuvântată pe care o numeau (şi o mai numesc) "paşti". Iată ce scria mitropolitul Neofit Cretanul despre practica sacramentală românească din prima jumătate a secolului al XVIII-lea (şi nu numai): „Cei mai mulţi din norod nici ar fi ştiind ce este Sfânta Priciaştenie [Împărtăşanie], ci numai la ziua Sfintelor Paşti ar fi mergând la biserică şi nu doar ca să asculte slujba Sfintei Liturghii şi să se împărtăşească cu Sfintele Taine fiind mai înainte spovediţi şi gătiţi pentru această Taină Sfântă, ci numai ca să ia pâine şi vin, paximan9 ce se numeşte de voi Paşti, iar alţii cu ani îndelungaţi nu s-au spovedit, şi alţii iar în toată vremea vieţii lor, după cum am înţeles, Spovedania şi Sfânta Priciaştenie [Împărtăşanie] ce este nu o ştiu, fără decât aleargă în ziua de Paşti pe la bisericile lor de iau atunci acea pâine şi acel vin nesfinţit sau iau agheasmă, numind că este Paşti” 10.

Cutremurătoare este nu numai mărturia istorică, ci şi faptul că acest ierarh, ajungând mitropolit al Ţării Româneşti (1738-1753), i-a ameninţat cu excomunicarea pe credincioşii români, în caz de neîndreptare a acestei „rătăciri” şi „căderi în pierzanie”.

Nici până astăzi lucrurile nu s-au îndreptat, ba chiar au degradat şi mai mult, inclusiv prin girul ierarhiei superioare, care de asemenea numeşte acea pâine stropită cu vin – „Paşti”. Aceasta contrar textului biblic care zice că "Paştele nostru este Hristos" (I Cor 5:7). Deci „Paşti” (în sensul de hrană) poate fi numit doar Trupul şi Sângele lui Hristos şi nimic altceva. În prezent mirenii totuşi se împărtăşeşte mai des, inclusiv la Paşti, dar continuă să numească "paşti" pâinea binecuvântată în ajun sau chiar în ziua de Înviere. 11

În concluzie: rugăciunea „artosului” se va citi doar în mănăstirile care practică această tradiţie veche descrisă mai sus; pâinea şi vinul se vor binecuvânta doar acolo unde se respectă tradiţia privegherii pascale de sâmbătă seara, fără ca această să fie (numită) „Paşti”; în schimb toţi sunt chemaţi să se împărtăşească atât în Sâmbăta, cât şi în Duminica Paştilor, cu Trupul şi Sângele lui Hristos, care este adevăratul Paști.

Note

1 Despre faptul că „artosul” trebuie să aibă icoana imprimată pe ea vorbesc şi cuvintele rugăciunii, în care se face aluzie la sărutarea acestei pâini, de fapt a icoanei Învierii imprimată pe ea.

2 Această paranteză (pătrată) este un adaos recent al Liturghierului românesc.

3 „Sfinţenia” artosului pascal, mai ales acolo unde el este numit „Paşti”, a fost exagerată inclusiv unei cereri din rugăciunea de binecuvântare a acestei pâini, în care se spune: „alungă de la noi, cu puterea Ta, toată boala şi neputinţa, dându-ne la toţi sănătate”. O pâine care îi ajută pe credincioşi în astfel de probleme este, din păcate, mai „atractivă” decât împărtăşirea cu Trupul şi Sângele lui Hristos, care este „spre viaţa de veci”. Se creează impresia că viaţa veşnică nu-i interesează pe „consumatorii şi traficanţii de sfinţenie”, dacă e să-l parafrazăm pe Sf. Grigore Teologul.

4 М. ЖЕЛТОВ & Ю. РУБАН, Артос // ПЭ, vol. 3, pp. 470-472.

5 Deja Canonul 66 Apostolic, apoi şi 55 Trulan precizează că Sâmbăta Paştilor, spre deosebire de celelalte sâmbete de peste an, este zi de post aspru.

6 Despre toate acestea a se vedea monografia magistrală a lui Gabriel BERTONIЀR, The Historical Development of the Easter Vigil and Related Services in the Greek Church, Roma, 1972 (OCA 193), p. 158.

7 Iniţial grâul şi untdelemnul erau binecuvântate o singură dată pe an, ca „pârgă a firii”, odată cu depozitarea lor în hambarul mănăstirii; analogic cu practica binecuvântării strugurilor la Praznicul Schimbării la Faţă (cf. Н. УСПЕНСКИЙ, Чин всенощного бдения, Москва, 2004, pp. 199-200.). În restul anului, aşa cum avem şi în cazul dat, se binecuvânta doar pâinea şi vinul. Considerăm că această practică este mai corectă şi ea trebuie repusă în uz.

8 „Litia” este slujba care se face la mijlocul Vecerniei Mari în pronaosul bisericii în cadrul Privegherii, iar „binecuvântarea pâinilor” este o slujbă distinctă, separată de prima prin Stihoavna Vecerniei, şi constă dintr-o singură rugăciune ce se rosteşte abia la sfârşitul Vecerniei în naos. Faptul că aceste două elemente liturgice se fac de fiecare dată împreună, i-a făcut pe creştinii şi chiar clericii mai simpli să le numească pe ambele „litie”, şi chiar pâinea cu vinul ce se binecuvintează la cea de a doua slujbă au primit acest nume absolut nefiresc.

9 În limba greacă cuvântul „paximadi” înseamnă pesmet.

10 Cf. Ioan Ică jr., Împărtăşirea continuă cu Sfintele Taine, Sibiu 2006, p. 7.

11 În Basarabia se zice „pască” la cozonacul cu brânză care se binecuvântează în ziua de Înviere după Liturghie. Această „pască” este mâncată acasă pe parcursul Săptămânii Luminată, după anafură şi agheasmă, dar înainte de celelalte bucate.

 
Ce spun Sfinţii Părinţi despre exorcisme şi exorcişti

În ultima vreme s-a înmulţit numărul preoţilor „făcători de minuni”, care propun şedinţe publice de exorcizare. Dar nu ştiu de ce, în rezultat, numărul demonizaţilor nu scade, ci creşte tot mai mult. De ce oare? 

Puţini îşi mai amintesc de istorioara vindecării de către Macarie Egipteanul a unei demonizate, căreia sfântul i-a zis: "Niciodată să nu neglijezi a merge la biserica lui Dumnezeu şi a te împărtăşi cu Tainele lui Hristos Domnul! Aceasta [demonizarea] ţi s-a întâmplat pentru că timp de cinci săptămâni nu te‑ai apropiat de Preacuratele Taine". [1] Ideea poate fi uşor observată şi într-o rugăciune înainte de împărtăşire, în care Sfân­tul Ioan Gură de Aur îşi arată teama că, dacă nu se va îm­părtăşi mai des, „va fi prins de lupul cel înţelegător”. [2]

Deci, principala cauză a demonizărilor este lipsa unei vieţi duhovniceşti ancorate în Tainele Bisericii. Un creştin care se spovedeşte şi se împărtăşeşte sistematic, se roagă dimineaţa şi seara, respectă posturile şi împlineşte poruncile lui Dumnezeu, deşi poate avea destule ispite de la diavolul, nu poate fi totuşi stăpânit de acesta. Iar dacă preoţii exorcişti nu-i învaţă şi nu-i ajută pe oameni să ducă o viaţă duhovnicească echilibrată, ci doar se promovează pe ei înşişi ca mari făcători de minuni, diavolul îşi bate şi mai mult joc atât de săracii oameni, cât şi de preoţi.

Este important să înţelegem cine poate citi exorcismele, cui pot fi ele citite şi în ce condiţii. În mod normal, exorcismele se citesc doar oamenilor demonizaţi şi fără prezenţa publicului. La slujbele de exorcizare, care trebuie precedate obligatoriu de spovedanie, pot participa cel mult rudele demonizatului, pentru a se ruga alături de preot şi pentru a-i uşura suferinţa celui posedat. Este de asemenea recomandabil ca exorcismele să se citească în perioadele sau în zilele de post şi în legătură cu Liturghia şi împărtăşirea.

Personalitatea exorcistului este o problemă ceva mai complicată şi, deja în sec. IV, Biserica a rânduit ca această slujire harismatică să se facă doar cu aprobarea episcopului. Prin urmare, orice preot care vrea să citească alte exoricisme decât cele baptismale, trebuie să aibă binecuvântarea ierarhului său (cf. Canonul 26 Laodiceea: „Nu se cuvine ca cei ce nu sunt înaintaţi de către episcopi să exorcizeze, nici în biserici, nici în case”).

Pe lângă această cerinţă canonică, neglijată cu nonşalanţă de cei mai mulţi, Tradiţia Bisericii vorbeşte şi de anumite condiţii duhovniceşti necesare celui care îşi asumă această slujire. În legătură cu aceasta voi reda câteva citate din "Convorbirile duhovniceşti" ale Sf. Ioan Casian:

“Bărbaţii [virtuoşi] nu se socoteau cu nici un merit pentru puterea lor de a face minuni şi mărturiseau că acesta nu este un dar al lor, ci cel al milei Domnului, respingând cu astfel de cuvinte apostolice admiraţia altora faţă de ei: “Bărbaţi fraţi, de ce vă miraţi cu ochii aţintiţi la noi, ca şi cum cu a noastră putere sau cucernicie l-am fi făcut pe acesta să umble” (Fapte 3:12). Ei spuneau că nu trebuie lăudat cineva pentru darurile şi minunile lui Dumnezeu, ci mai degrabă pentru roada virtuţilor, care ies din puterea minţii şi a faptelor. Adesea, cum am mai spus, oamenii stricaţi la minte şi vinovaţi în faţa credinţei în numele Domnului alungă demonii şi săvârşesc mari minuni.[3]

“Însuşi înfăptuitorul tuturor semnelor şi am minunilor, pe când chema pe ucenici să le dăruiască învăţătura Sa, le-a arătat limpede ce trebuiau să înveţe de la El adevăraţii şi prea aleşii lui credincioşi: „Veniţi, a zis El, şi învăţaţi de la Mine […] că sunt blând şi smerit cu inima” (Matei 11:29). Aceasta este cu putinţă tuturor să înveţe şi să săvârşeasă, dar lucrarea semnelor şi a minunilor nici nu este întotdeauna trebuinicioasă şi folositoare tuturor şi nici nu se îngăduie oricui. Umilinţa, aşadar, este învăţătoarea tuturor virtuţilor; ea este temelia cea mai trainică a clădirii cereşti, ea este darul propriu şi măreţ al Mântuitorului. […] Iar cel ce doreşte să poruncească duhurilor necurate sau să dea sănătate celor bolnavi şi să arate mulţimilor vreun semn minunat lăudându-se, oricât ar chema numele lui Hristos, acesta este totuşi străin de Hristos, pentru că mintea trufaşă nu urmează pe Învăţătorul smereniei. […] De aceea mai marii noştri niciodată n-au socotit că sunt monahi cinstiţi şi scutiţi de boala slavei deşarte cei care în auzul poporului spun că scot duhurile rele şi defăimează în mulţimea de admiratori acest har pe care şi l-au pretins ei înşişi. […] Şi de aceea, dacă va face vreun oarecare ceva din acestea, nu va avea laudă din partea noastră pentru semne, ci pentru podoaba vieţii sale curate, şi nu trebuie căutat dacă i se supun demonii, ci dacă are părţile iubirii descrise de Apostol (I Corinteni 13:1-8). [4]

“Este mai mare minune să scoţi din propriul trup îndemnurile la desfrânare, decât să alungi duhurile rele din trupurile altora; este mai măreţ semn să opreşti prin virtutea răbdării pornirile ucigaşe ale mâniei, decât să porunceşti stăpânitorilor văzduhului; şi este de mai mult folos să-ţi fereşti inima de muşcăturile foarte lacome ale deznădejdii, decât să îndepărtezi bolile şi neputinţele trupeşti ale altora. În sfârşit, din multe puncte de vedere este o mai strălucită virtute şi o înaintare mai vrednică de laudă să-ţi vindeci bolile propriului suflet, decât pe cele ale trupului altuia. Cu cât sufletul este mai presus de trup şi mai trebuincioasă sănătatea lui, şi cu cât este mai preţioasă şi mai deosebită fiinţa lui, cu atât este mai rău şi mai primejdios ca el să se prăbuşească. [5]

Un lucru interesant îl spune şi avva Ioan, ucenicul lui avva Varsanufie: 

“În orice patimă nu e mai de folos decât a chema numele lui Dumnezeu. Cât despre împotrivirea în cuvânt (faţă de patimă), ea nu este cu putinţă oricărui om, ci numai celor puternici, cărora dracii li se supun. Căci dacă vreunul din cei neputincioşi vrea să li se împotrivească, dracii râd de el ca de unul ce vrea să li se împotrivească aflându-se sub puterea lor. La fel, certarea lor e cu putinţă numai celor mari, care au putere. Pe care dintre sfinţi îl afli certând pe diavol ca sfântul Mihail (Iuda 9-10)? Iar aceasta pentru că avea putere. Nouă celor slabi nu ne este dat decât să alergăm la numele lui Iisus. Căci patimile, după Scriptură, sunt draci şi aceştia ies în numele lui Iisus (Fapte 8:7, 16:18)”. [6]

Reieşind din toate acestea, ne dăm seama că nu oricine poate citi exorcisme, mai ales că lucrul acesta nici nu este necesar. Şi nu mă refer aici la diferenţierea periculoasă dintre preoţii căsătoriţi şi cei călugăriţi, căci, bineînţeles, nu tunderea monahală face pe cineva vrednic de a citi exorcisme şi nici lungimea bărbii, ci autoritatea canonică şi duhovnicească pe care trebuie să o aibă un preot.

Am auzit de la unii preoţi justificarea că, întrucât textul "molitfelor" atribuite Sfântului Vasile [7] se regăseşte în orice ediţie a Molitfelnicului (iar mai nou este disponibil şi pe internet), înseamnă că „molitfele” pot fi citite de orice preot şi oricărui credincios, pentru a preveni o eventuală demonizare. Totuşi, accesibilitatea acestor rugăciuni nu trebuie să devină o ispită pentru nimeni, căci la fel de accesbile sunt şi rânduielile de tundere în monahism sau cele de hirotonie, dar asta nu înseamnă că ele pot fi săvârşite de oricine şi oricui.

Tocmai de aceea, pentru a înlătura diferitele abuzuri şi sminteli atât de răspândite în practica parohială şi mănăstirească, cred că editorii Molitfelnicului ar trebui să facă nişte precizări mai clare în introducerea acestor rugăciuni, căci la moment chiar nu-i clar cine, cui, când şi cum pot fi ele citite.

P.S. Mai multe detalii despre istoria rugăciunilor de exorcizare veţi putea găsi în cartea mea despre Sfântul Maslu, care va fi trimisă în curând la tipar.

Note

[1] Viaţa Sfântului Macarie Egipteanul, în PSB vol. 16, Bucureşti, 1992, p. 27. Apropo, cinci săptămâni sunt doar 35 de zile, adică mai puţin decât recomandarea unor duhovnici de a primi împărtăşania nu mai des decât o dată la 40 de zile.

[2] Din învăţătura Sfântului Macarie desprindem ideea că împărtăşirea rară favorizează lucrarea diavolului. Este deci explicabil numărul mare de de­monizaţi din zilele noastre. Posedarea demonică poate să nu aibă legătură directă cu împărtăşirea, dar în acelaşi timp poate fi rezultatul unei împărtăşiri cu nevrednicie, cum a fost cazul lui Iuda, precum şi cauza unei împărtăşiri rare, cum învaţă Sfinţii Părinţi.

[3] Ioan Casian, Despre harismele dumnezeieşti, VI, în PSB 57 (1990), p. 572.

[4] Ibidem, VII, pp. 572-573.

[5] Ibidem, VIII, pp. 573-574.

[6] Răspunsul 304, în Filocalia vol. 11, pp. 386-387. (am citat după ediţia electronică)

[7] Unii le numesc şi „cartea Sfântului Vasile”, fără să ştie că Sf. Vasile cel Mare are o mulţime de scrieri şi cărţi, iar aceste rugăciuni de exorcizare care i se atribuie, cel mai probabil nu-i aparţin. Mai sunt şi unii care, atunci când aud de „rugăciunile Sfântului Vasile” nu au nici o reacţie specială, dar imediat cum aud cuvântul slavonesc „molitfă” (sau schimonosit: „moliftă”), imediat au emoţii, intuind ceva „puternic”, chiar dacă „rugăciune” şi „molitfă” înseamnă acelaşi lucru.

 
Recensione: Lo scisma vecchio-calendarista nella storia della Chiesa ortodossa (1924-2008)

L’altro ieri, nelle parole di padre Alexander Lebedeff, abbiamo presentato le ragioni per mantenere il tradizionale calendario della Chiesa Ortodossa; oggi, nelle parole di un altro arciprete della Chiesa ortodossa russa all’estero, il nostro amico padre Andrew Phillips, esaminiamo gli eccessi che hanno portato a numerosi scismi nel mondo ortodosso, con la traduzione italiana della recensione di un libro pubblicato in Russia nel 2009, sul fenomeno del vecchio calendarismo scismatico. Il testo è nella sezione “Confronti” dei documenti.

 
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Santa Matrona di Mosca

Matrona Dimitrievna Nikonova è nata nel 1881 nel villaggio di Sebino, nel governatorato di Tula. I suoi genitori, Dimitri e Natalia, erano contadini poveri, che non si sentivano in grado di mantenere la loro quarta figlia, e avevano pensato di affidarla a un orfanotrofio. Un sogno premonitore li ha avvertiti di tenere la figlia, che è nata cieca. Al momento del suo battesimo, una colonna di fumo profumato è stata vista alzarsi dalle acque del fonte, con lo stupore del prete, che non aveva mai visto prima un simile fenomeno.

Matrona non era solo cieca, ma del tutto priva di occhi: eppure, fin dall’infanzia ha iniziato a rivelare una impressionante vista spirituale, predicendo eventi, narrando avvenimenti distanti, e rivelando episodi tenuti segreti. Dall’età di 7/8 anni ha iniziato a guarire malattie, e pur vivendo come una normale figlia di contadini (spesso derisa per la sua deformità fisica) e frequentando spesso la chiesa del villaggio, riceveva visite dagli ammalati della zona. Verso l’età di 14 anni, ha potuto fare un pellegrinaggio a Kiev, alla Lavra della Trinità e di San Segio, a San Pietroburgo e in altre città russe. San Giovanni di Kronstadt, incontrandola nella sua chiesa, l’ha accolta con parole profetiche, definendola “colonna della Russia”.

All’età di 17 anni ha perso l’uso delle gambe, rimanendo paralizzata per il resto della vita, eppure nemmeno una volta è stata vista lamentarsi per i suoi malanni. Ha vissuto per 50 anni in diverse case, senza altri tesori terreni se non le icone che la circondavano. Anche se era completamente analfabeta, Matrona stupiva spesso chi andava a trovarla con una conoscenza insolitamente dettagliata di luoghi e fatti lontani.

Nel 1925, per timore di repressioni contro i suoi fratelli, Matrona si è recata a vivere a Mosca, una città che ha sempre amato molto, e per tutto il resto della vista è vissuta in casa di amici e benefattori, quasi sempre senza visto di soggiorno, e talvolta evitando miracolosamente l’arresto. La media di persone che venivano a trovarla chiedendo il suo aiuto era di circa 40 al giorno. Talvolta si sono rivolti a lei anche funzionari di stato. I monaci della Lavra della Trinità e di San Sergio la conoscevano e rispettavano il suo operato.

L’aiuto che Matrona dava ai malati non aveva nulla a che fare con metodi occulti o forze sottili della cosiddetta medicina alternativa, ma aveva un carattere esclusivamente cristiano, e consisteva essenzialmente in preghiere, consigli e ammonizioni.

Di solito non parlava molto, e rispondeva brevemente alle domande a lei poste. Di lei ci restano consigli semplici ma pieni di saggezza: di non giudicare il prossimo, di vivere nella preghiera, di proteggerci dal male con il segno della Croce, di comunicarci quanto più frequentemente ai santi Misteri di Cristo, di amare e perdonare gli anziani e i malati, di non dare importanza ai sogni, di non correre dietro ai fenomeni spirituali; in generale, nei suoi consigli tutto è in linea con gli insegnamenti dei santi Padri.

Matrona si è addormentata nel Signore il 2 maggio 1952. Come da suo desiderio, è stata sepolta nel cimitero del Monastero di San Daniele, vicino a una delle poche chiese di Mosca a quel tempo ancora aperte. Conformemente alla sua previsione, per lunghi anni hanno conservato in pochi la sua memoria, ma poi il popolo russo è tornato a chiedere il suo aiuto. Dopo più di 30 anni dalla sua morte, il suo sepolcro si è trasformato in uno dei luoghi santi di Mosca, e decine di migliaia di fedeli ortodossi invocano con fede la sua intercessione.

Alla sera dell’8 marzo 1998 i resti mortali della beata Matrona sono stati solennemente traslati dal Monastero di San Daniele, e dopo l’esame delle reliquie (che ha confermato la veridicità di alcuni episodi narrati dai suoi conoscenti), sono stati deposti il 1 maggio nel convento femminile della Santa Protezione a Mosca.

Il 2 maggio 1999, madre Matrona è stata canonizzata a Mosca con decreto del Patriarca Alessio II, che fissa la sua memoria al giorno della sua nascita al cielo (19 aprile / 2 maggio), e che autorizza la venerazione della sua icona e la diffusione della sua vita per edificazione spirituale dei fedeli.

Santa madre Matrona, intercedi presso Dio per noi!

 
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Ce este “Paştile blajinilor”? Originea şi sensul sărbătorii (actualizat 2013)

Citind şi ascultând diverse ştiri şi comentarii pe internet despre „Paştele blajinilor”, am întâlnit idei mai mult sau mai puţin trăsnite cu privire la această zi; păcat că unele chiar de la clerici ai Bisericii Ortodoxe. Prin mass-media am auzit chiar şi aberaţii precum că această zi (parafrazez): este închinată „spiritelor celor morţi”, care „în această zi se întorc pe pământ” şi se bucură alături de cei veniţi la cimitire să-i cinstească. De aceea cred că este util să amintim puţin istoria şi însemnătatea acestei zile. Ea nu este chiar atât de simplă cum cred unii, dar nici foarte complicată încât să nu fie reţinută chiar de fiecare creştin.  

Învierea lui Lazăr şi a altor persoane de către Mântuitorul, dar mai ales Slăvita Înviere a lui Hristos Însuşi, sunt premiza credinţei în învierea noastră şi a tuturor celor din veac adormiţi. Credinţa în învierea morţilor este fundamentală în creştinism, iar Învierea lui Hristos, aşa cum spune Sf. Ap. Pavel, este şi arvuna învierii noastre şi a tuturor celor din veac adormiţi (I Corinteni, cap. 15). Toţi vom învia, dar nu toţi în aceeaşi stare: unii „spre învierea vieţii, iar alţii spre învierea osândei” (cf. Ioan 5:29). Desigur, bucuria Învierii, dar şi evenimentul Învierii în sine, precum şi serbarea anuală a acesteia, este o mare mângâiere şi bucurie mai ales pentru cei adormiţi, trecuţi la Domnul (nu „în nefiinţă” cum se exprimă unii, care n-au idee de creştinism) şi care aşteaptă învierea de obşte, după cum şi noi o aşteptăm (şi mărturisim acest lucru şi în Crez).

În vechime, mai ales prin părţile noastre, exista obiceiul ca chiar în ziua de Paşti, la întoarcerea de la Biserică, creştinii să treacă pe la cimitir (mai ales că multe cimitire sunt chiar în preajma sfântului locaş) şi îi salutau pe cei adormiţi cu acelaşi salut „Hristos a înviat!”. În legătură cu acest obicei se cunosc şi diferite semne minunate, cum a fost de exemplu în Lavra Peşterilor din Kiev, când un călugăr a intrat în peşterile unde sunt aşezate moaştele cuvioşilor adormiţi, şi la salutul „Hristos a înviat!”, cei adormiţi au răspuns toţi odată: „Cu adevărat a înviat!”. Deci Învierea ne adună pe toţi şi, practic, "distruge zidul" dintre cei vii şi adormiţi. Apare însă întrebarea, de unde acest „Paşte al blajinilor” şi de ce este sărbătorit el anume acum?

În primul rând trebuie să explicăm termenii. «Пасха блаженных», numită la ruşi mai des «Радоница», a dat în româneşte numele de „Paştele blajinilor” care s-ar putea traduce cu „Paştile celor fericiţi” sau mai simplu: „Paştile celor adormiţi”. E acelaşi Paşti, care începe în Biserică, dar se extinde în două locuri: în casele noastre, când masa este pentru cei vii; şi în cimitire, lângă morminte, când masa şi darurile sunt oferite ca milostenie pentru cei adormiţi. Dacă e să abordăm problema doar din punct de vedere spiritual, acest „Paşti al blajinilor” poate fi sărbătorit odată cu Paştele propriu-zis sau imediat după acesta. Dar întrucât creştinii nu doresc doar să servească o masă sau să facă milostenie în cinstea celor adormiţi, ci să facă şi rugăciuni de pomenire pentru ei – ceea ce e mult mai important – a fost nevoie ca „Paştile blajinilor” să fie mutat cu o săptămână mai târziu. Tipicul bisericesc interzice pomenirea morţilor în toată Săptămâna Luminată, inclusiv în Duminica Tomei, prima de după Paşti. De aceea, a fost obligatoriu ca această zi de pomenire a morţilor să fie mutată cel mai devreme posibil – şi această zi este luni, în săptămâna care urmează după Săptămâna Luminată. 

Ruşii, puternic influenţaţi de spiritualitatea monahală, au mutat această zi abia marţi, pentru că mulţi postesc în ziua de luni (pe lângă miercuri şi vineri) şi o pomenire făcută luni, nu ar permite o bucurie deplină din cauza postului; şi bineînţeles ne referim la bucuria comuniunii cu cei adormiţi, nu la mâncare şi băutură! Deci e mai corect ca "blajinii" să fie sărbătoriţi anume luni după Săptămâna Luminată, când deja sunt permise pomenirile celor adormiţi, dar nu-i greşit să fie pomeniţi nici marţi sau chiar duminică. De exemplu, în perioada comunistă, sărătoarea nu se putea ţinea lunea (cum obişnuiesc moldovenii) şi nici marţea (cum obişnuiesc ruşii), de aceea s-a instituit obiceiul de a începe pomenirea morţilor încă de duminică, ceea ce iniţial nu se practica, întrucât în ziua de Duminică, pe toată perioada anului bisericesc, pomenirile morţilor sunt interzise. În Moldova însă, deja s-a generalizat şi această excepţie, care bineînţeles nu atacă învăţătura de credinţă şi nici rânduielile liturgice fundamentale ale Bisericii.

Mai precizăm că acest „Paşte al blajinilor” e ţinut doar în Biserica Rusă (inclusiv Basarabia) şi în puţine regiuni în Moldova din dreapta Prutului sau din Maramureş. Restul ortodocşilor îi pomenesc pe adormiţi în celelalte zile prevăzute în calendar pentru astfel de pomeniri, în special la Rusalii. Deci, putem spune, „Paştele blajinilor” e un obicei local.

Iată în câteva cuvinte originea acestei sărbători: este o sărbătoare de bucurie pentru Hristos cel Înviat; este o afirmare a credinţei şi nădejdii noastre în învierea morţilor; este şi o zi de pomenire a celor adormiţi, dar una plină de optimism şi bucurie, pentru că prin Învierea lui Hristos, moartea nu mai este un sfârşit fatal, ci doar o trecere spre viaţa veşnică alături de Hristos şi de toţi sfinţii şi drepţii care au bine-plăcut Lui.

Păcat că mulţi au înţeles această zi ca un prilej de a mânca şi a bea la mormintele celor adormiţi, lucru care nu uşurează starea duhovnicească a celor trecuţi la Domnul, ci mai mult o îngreuiază. Moldovenii, în loc să meargă să se roage pentru cei adormiţi şi să facă milostenie (pomană) în ascuns, aşa cum învaţă Evanghelia (Matei 6:3-4), ei se duc ca la un concurs de modă şi se întrec în pomeni care, fiind date „de ochii lumii”, nu aduc nici un folos. Dar cel mai grav este că „ortodocşii” noştri merg la morminte şi beau până nu se mai deosebesc de cei morţi, făcând multă sminteală şi dând prilejuri justificate sectarilor de a ne judeca. Astea sunt lucruri foarte grave, iar preoţii ar trebui să refuze pomenirea acolo unde observă astfel de abuzuri. Trebuie să înţelegem că cei morţi nu au nevoie de cănițe, farfurii şi colăcei, căci ei oricum nu mănâncă şi nu beau… Mai bine e să dai câteva sute de lei la un bătrân, la un orfelinat de copii sau la un bolnav care nu are bani de medicamente – şi toate astea în ascuns, ca să fie şi folos – dar dacă vrei numai să te pui la întrecere cu cineva sau să te lauzi cu pomenile tale, mai bine stai acasă, căci o astfel de abordare este una păgână şi nu are nimic comun cu creştinismul. 

Şi, dacă dorim să facem după cum învaţă Hristos, să nu ne temem de ce va zice lumea sau chiar rudele noastre, căci lumea judecă doar aici şi ea însăşi cade în propria judecată, dar în „Ziua cea Mare a Judecăţii” Hristos va fi Judecătorul şi El ne va judeca după poruncile date de El, nu după moda şi mintea oamenilor decăzuţi.

Iată ce ne învaţă Hristos în legătură cu aceasta (Luca 14:12-14):

“Când faci prânz sau cină, nu chema pe prietenii tăi, nici pe fraţii tăi, nici pe rudele tale, nici vecinii bogaţi, ca nu cumva să te cheme şi ei, la rândul lor, pe tine, şi să-ţi fie ca răsplată. Ci, când faci un ospăţ, cheamă pe săraci, pe neputincioşi, pe şchiopi, pe orbi, şi fericit vei fi că nu pot să-ţi răsplătească. Căci ţi se va răsplăti la învierea drepţilor.

 
Il suicidio secondo i santi Canoni e la Tradizione della Chiesa

del protopresbitero padre Lambros Fotopoulos, parroco della chiesa di san Cosma d'Etolia a Maroussi

La millenaria tradizione della Chiesa ci insegna senza alcun dubbio che una persona che si suicida non riceve un funerale, a meno che, naturalmente, non sia impazzita.

Anche quando i cimiteri appartenevano alla Chiesa, a differenza di oggi dove appartengono al governo locale, a chi si era suicidato non solo era vietato ricevere un funerale ecclesiastico, ma era sepolto in silenzio, al di fuori del perimetro del cimitero.

Questa pratica non è seguita solo in base alla tradizione orale della Chiesa che risale a Cristo e agli Apostoli, ma si tratta di un obbligo canonico secondo i sacri Canoni scritti.

Di seguito è riportato il Canone 14 di san Timoteo di Alessandria, che ha status ecumenico dopo la sua ratifica da parte del Canone 2 del Sesto Concilio Ecumenico :

Canone 14 di san Timoteo

domanda:

Se qualcuno che non ha il controllo di se stesso fa violenza a se stesso o si autodistrugge, si deve fare un'offerta per lui oppure no?

risposta:

Il chierico deve discernere in suo favore se egli era in realtà e veramente fuori di sé quando lo ha fatto. Spesso infatti le persone interessate alla vittima e che vogliono che sia fatta un'offerta e una preghiera in suo favore possono deliberatamente mentire e affermare che non aveva il controllo di se stesso. A volte, tuttavia, lo ha fatto a causa dell'influenza esercitata da altri uomini, o in qualche altro modo facendo troppo poca attenzione alle circostanze, e in tal caso nessuna offerta deve essere fatta in suo favore. Spetta, pertanto, in ogni caso al chierico di  esaminare la questione con precisione, in modo da evitare di incorrere nel giudizio.

interpretazione :

A questo divino Padre è stato chiesto se si devono tenere i servizi liturgici e memoriali per un uomo che si è ucciso, lanciandosi da giù da un'altezza, o annegandosi, o impiccandosi, o mettendosi a morte in qualsiasi altro modo, quando non è sano di mente, sia a causa di un demone o di un disturbo di qualche tipo, e il Padre risponde nel presente Canone, sostenendo che se un sacerdote o qualsiasi altro chierico è invitato a festeggiare servizi memoriali per lui, dovrebbe indagare bene e con la dovuta accuratezza se un tale uomo era davvero e in realtà fuori di testa quando si è messo a morte. Infatti spesso accade che i parenti e gli intimi di un tale uomo, che desiderano che gli sia fatta una funzione commemorativa cantata dai sacerdoti, e che si svolga una liturgia per la remissione dei suoi peccati, raccontino bugie e affermino falsamente che era fuori di senno, e che era per questo motivo che si è messo a morte. A volte, però, uno si dà la morte, sia come risultato di qualche infortunio o fastidio che ha ricevuto da altri uomini, o come risultato di pusillanimità e di eccessivo dolore, o qualche altra causa, volontariamente e mentre è in sé, e per un uomo così non si dovrebbero tenere servizi liturgici o memoriali, in quanto si è ucciso deliberatamente. Pertanto, il chierico deve valutare con precisione per non peccare. [1]

Tali sono le sentenze dei sacri Canoni. Come tutti capiscono, non vi è alcuna discussione sul problema se un suicida dovrebbe avere un funerale o meno. Si presume che i suicidi non riceveranno un funerale. Questo Canone ribadisce ciò che è stato accettato dalla Chiesa fino a quel punto, e prende atto che la sola possibile economia che può essere data a un suicida è che possono ricevere un funerale se sono "pazzi", e questo deve essere determinato dopo un esame approfondito di ogni singolo caso.

Come è noto a coloro che hanno una coscienza ecclesiale e non vedono la Chiesa in modo "magico", cioè, solo come una istituzione cerimoniale che fa matrimoni, funerali, battesimi e altri eventi "sociali", i sacri Canoni sono leggi eterne che governano la Chiesa. Queste leggi hanno un amore per l'umanità , che è incomprensibile al giorno d'oggi .

Oggi ci sono tante parole di amore e poco amore reale. La vera pietà è diventata pietismo, e il ruolo del sacerdote è limitato ad accarezzare le passioni umane invece del suo scopo di curare le passioni.

Vietando un funerale religioso i santi Padri, pieni di amore per gli uomini, garantiscono i seguenti aspetti fondamentali:

A. Essi gridano a tutti i cristiani con voce palese che chiunque si uccide bestemmia lo Spirito Santo e non riceve la remissione dei peccati. In questo modo essi sostengono mentalmente chiunque abbia tendenze suicide, in maniera sapiente, chiara e inequivocabile a respingere qualsiasi pensiero del genere, anche in caso di gravi difficoltà umane.

I presunti "filantropi" di oggi hanno mai pensato che stanno giustificando i suicidi con intensi argomenti emotivi, diventando mandanti non intenzionali di molti suicidi futuri?

B. Vi è un'altra ragione, più spirituale, perché ci non dovrebbe essere alcun servizio funebre per un suicida. Il disprezzo sociale per il suicidio è una silenziosa preghiera a Dio di avere misericordia di loro. Ogni umiliazione dell'uomo di fronte a Dio aumenta la misericordia divina. Anche le umiliazioni postume aiutano l'anima nel suo resoconto a Dio. Ciò è mostrato in numerosi casi nella vita della Chiesa. [2]

Leggiamo ne La Scala di san Giovanni Climaco, un libro che ha permeato attraverso i secoli tutta l'Ortodossia , che nel capitolo "sul pentimento" (quinto gradino) i monaci che l'autore conosceva e avevano raggiunto uno stato angelico virtuale, chiedevano umilmente dopo la loro morte "di non ricevere nemmeno una lapide", [3] ma chiedevano che i loro corpi fossero gettati in una fossa senza onori post mortem. Sant'Efrem il Siro chiese di non essere sepolto con tutti gli onori, e che non accendessero candele o incenso per lui, etc, in modo che Dio avesse compassione di lui.

Nell'Eucologio, che utilizza oggi ogni sacerdote, ci sono le preghiere per la separazione dell'anima. Queste sono grida strazianti di santi asceti che pregano che il loro corpo sia disprezzato perché la loro anima trovi misericordia da parte di Dio. Che cosa dicono? "Non lasciate che il mio corpo sia sepolto nella terra, ma lasciatelo insepolto, in modo che i cani possano mangiare il mio cuore". [4] Si chiede che il corpo del peccatore rimanga insepolto perché Dio abbia misericordia di lui. Pertanto, è per filantropia che la Chiesa non dà un funerale ai suicidi.

Un beato anziano athonita, padre Anthimos Agiannanites, quando gli viene chiesto dai parenti di un giovane suicida, se doveva essere commemorato durante la Divina Liturgia (ovviamente un servizio funebre era fuori questione), rispose: "Non lo commemorate durante la Liturgia. È meglio per la sua anima. quando il compassionevole vedrà che noi non lo onoriamo, lo stesso ne avrà compassione, ma quando lo onoriamo, non avrà misericordia di lui". [5]

Questo è come i nostri padri rispondono al falso amore post-mortem di oggi.

* * *

Per una persona morta in questo modo non fare commemorazioni funebri, come abbiamo visto, è la più grande compassione che siamo in grado di offrire. In caso contrario, le preghiere della Chiesa ostacolano la Misericordia Divina, perché sono false, soddisfatte di sé, ipocrite e offensive nei confronti di Dio. Come possiamo permettere che le persone che hanno abbandonato la fede cristiana o la verità ortodossa o negato il dono divino della vita ricevano canti in chiese cristiane con parole come "per il riposo dell'anima del defunto servo di Dio", "Tu, o Cristo, sei la resurrezione... del tuo servo dipartito."

Come possiamo prenderci in giro in nome del defunto all'interno della chiesa, dicendo: " L'anima mia anela con nostalgia infinita i tuoi giudizi in ogni tempo" e "La disperazione ha preso possesso di me a causa dei peccatori che abbandonano la tua legge" se lui stesso ha portato un'apostasia davanti a Dio. Come possiamo dire per conto del defunto: "Le tue mani mi hanno fatto e mi hanno plasmato, dammi la comprensione, e imparerò i tuoi comandamenti". Come può la Chiesa falsamente festeggiare cantando: "Benedetta è la via in cui cammini oggi, perché è preparato per tr un luogo di riposo".

Note:

[1] Προδρόμου Ι. Ακανθόπουλου, Κώδικας Ιερών Κανόνων και Εκκλησιαστικών Νόμων, β έκδοση, Θεσσαλονίκη, ΑΦΟΙ Κυριακίδη, 1995 σελ. 605.

[2] Nel Gerontikon c'è un caratteristico esempio di una coppia in cui il marito fu sepolto umilmente e andò in paradiso, ma la moglie impenitente, nonostante il suo funerale pomposo servito da numerosi vescovi, sacerdoti e laici, andò all'inferno. Γεροντικό, έκδοση ζ , Θεσσαλονίκη, Λυδία, 1989 σελ.166 -172.

[3] Αγίου Ιωάννου Σιναΐτου, Κλίμαξ, μετάφρ. Αρχιμ. Ιγνατίου, έκδοση ε, Ωρωπός Αττικής, εκδ. Ι . Μ . Παρακλήτου, 1991 σελ. 127.

[4] Μικρόν Ευχολόγιον, έκδοσις Αποστολικής Διακονίας της Εκκλησίας της Ελλάδος, έκδοση 11η. 1992 σελ. 223.

[5] Πρεσβυτέρου Θεμιστοκλέους Χριστοδούλου , Τα ιερά Μνημόσυνα, Αθήνα, εκδόσεις Ομολογία, 2002 σελ. 215.

fonte: Αυτοκτονία και Ιερατική συνείδηση ​​(Il suicidio e la coscienza sacerdotale), Atene 2007. Tradotto da John Sanidopoulos.

 
Despre Molitfele Sf. Vasile citite de unii la 1 ianuarie

Întrebare: Preacuvioase părinte, aş dori o lămurire asupra următorului extras din comunicatul Bisericii Ortodoxe Române (în baza hotărârii sinodale din 17 februarie), cu privire la săvarşirea Molitfelor Sf. Vasile cel Mare: ,,citirea Molitfelor Sfântului Vasile cel Mare în noaptea trecerii dintre ani este o practică regională (mai ales în sudul ţării) neaprobată de Sfântul Sinod, inexistentă în alte zone ale ţării şi mai ales în practica altor Biserici Ortodoxe surori.'' Este chiar aşa?

Răspuns: Da, aşa este! Practica citirii Molitfelor Sf. Vasile cel Mare în ziua de 1 ianuarie nu este una generală în Biserica Ortodoxă, ci una locală şi fără nicio justificare istorică, liturgică sau spiritual-ascetică.

Aceste rugăciuni trebuie citite într-un cadru restrâns, doar persoanelor care sunt chinuite în mod clar (evident) de duhurile necurate, şi obligatoriu precedate de Spovedanie. La citirea rugăciunilor ar putea fi admise şi rudele împreună-rugătoare, dar nu şi alţi spectatori ocazionali sau curioşi. Citirea lor pentru comunitatea largă în care, de regulă, nu este nici măcar o singură persoană demonizată de faţă, este o greşeală şi un nonsens. Pentru unii, această practică este şi o afacere…

De aceea consider că hotărârea sinodală este una foarte corectă şi potrivită, iar „argumentul” cu exorcismele citite fiecăruia la Botez, invocat de unii, nu rezistă, pentru că rânduiala şi mai ales scopul celor două tipuri de exorcisme este diferit.  

Mulţi au o percepţie magică viziavi de aceste rugăciuni (molitfe), crezând că dacă le-au fost citite, ei sunt ocrotiţi şi nimic rău nu li se va întâmpla, ceea ce bineînţeles este fals. Adevărata ocrotire de puterea celui rău vine ca urmare a unei vieţi curate, însoţite de spovedanie şi împărtăşire cât mai deasă, iar cei care nu au o relaţie vie cu Dumnezeu, pot să-şi facă zilnic Masluri şi să asiste la astfel de rugăciuni, că nu le va fi mai bine, ba chiar le poate fi mai rău.

 
Un centenario a lungo atteso

Il sito delle comunità moldave della diocesi di Korsun è stato il primo a dare l'annuncio della celebrazione del centenario della cattedrale ortodossa di san Nicola a Nizza. In occasione della festa patronale di san Nicola, il 19 dicembre, la Divina Liturgia è stata celebrata da sei vescovi (il primo celebrante è stato il metropolita Pavel di Ryazan, affiancato dagli arcivescovi Mark di Egor'evsk - che aveva appena celebrato gli 80 anni della parrocchia di san Nicola a Roma -, Innokentij di Vilnius e Lituania e Mikhail di Ginevra ed Europa Occidentale, e i vescovi Amvrosij di Gatchina e Nestor di Korsun); ha asistito anche il vescovo Varnava di Cannes, riconciliato nel 2010 con la Chiesa russa all'estero, e oggi a riposo. Con questa celebrazione si apre sotto molti aspetti un secolo nuovo nella più importante chiesa ortodossa del sud della Francia. Ci fa particolarmente piacere leggere della presenza tra i concelebranti dell'arciprete Nicolas Rehbinder; speriamo che sia il segno di una strada aperta verso una riconciliazione tra giurisdizioni attesa ormai da decenni. Notiamo che la cattedrale di Nizza si è dotata di un nuovo sito bilingue: la sezione francese già pronta e quella russa ancora da preparare sembrano sfatare le voci di egemonia culturale russa che sono circolate negli ultimi anni.

 
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La Grande e Santa Settimana: una recensione

Dopo Il Libro delle Ore e delle Lodi, uscito lo scorso anno, continua l'attività dell'Associazione "Testimonianza Ortodossa" per fornirci libri di buona qualità con una compilazione di molteplici officiature in uso nella Chiesa ortodossa.

Con ottimo tempismo nella Quaresima del 2016, è uscito il volume La Grande e Santa Settimana, raccolta di officiature dal Mattutino della Domenica delle Palme fino alla Liturgia della Pasqua. Finora, alle chiese ortodosse in Italia che desideravano servire queste funzioni in lingua italiana, non restava che servirsi dei testi provenienti dagli uniati, tra i quali i più accessibili e comodi per l’uso erano quelli prodotti dall'eparchia italo-albanese di Lungro (a dire il vero, la stessa eparchia di Lungro ha appena prodotto una nuova edizione in due volumi delle funzioni della Settimana Santa, che non abbiamo ancora potuto esaminare, e che sarà interessante comparare per qualità con il volume prodotto da "Testimonianza Ortodossa").

Ora, finalmente, gli ortodossi in Italia possono vantare un prodotto di assoluta dignità tipografica, reso ancor più durevole rispetto a Il Libro delle Ore e delle Lodi da una copertina in cartone rigido di cui si apprezzerà compiutamente il valore solo con il passaggio di molte Pasque.

La prima cosa che ci ha scaldato il cuore all'apertura di questo libro è l'introduzione del nostro amico Stilianos Bouris: quattordici pagine dedicate a una spiegazione, pulita e compatta, del senso della Settimana Santa. Pur consapevoli che si potrebbe dire molto di più, e che comunque il senso delle celebrazioni non si spiega solo con le parole scritte, riteniamo che sia assolutamente importante che i fedeli e i partecipanti ai riti della Grande Settimana e della Pasqua comprendano il significato delle funzioni a cui partecipano. Noi ci siamo dati da fare per trasmettere una spiegazione di queste funzioni attraverso il nostro sito e sotto forma di opuscoli, e riteniamo ogni sforzo in tal senso di importanza vitale.

Come tutte le opere di compilazione che intendono coprire un determinato periodo, il problema resta sempre dove si vuol far iniziare e dove si vuol far finire tale periodo. Confessiamo di non avere molto chiaro in mente il perché si è voluto iniziare dal Mattutino della Domenica delle Palme (quando questa Domenica, secondo lo stile delle officiature ortodosse, ha inizio con il Vespro, e quando il precedente Sabato di Lazzaro forma con la Domenica delle Palme una festa inscindibile, tant'è che i due giorni condividono un Apolitichio, o Tropario di congedo, comune). Allo stesso modo, non ci è chiaro perché il libro termina con la Liturgia della Pasqua, quando anche il Vespro pasquale (detto nell'uso greco Vespro dell'Agape) sarà celebrato nella stragrande maggioranza delle chiese che si serviranno di questo libro. Tuttavia, dobbiamo ricordare che in quasi tutte le compilazioni della Settimana Santa (inclusi i libretti in italiano prodotti a Lungro negli anni scorsi) non è compreso neppure l'officio della Pasqua, e quindi, invece di arrabbiarci per quello che non è stato incluso, ci rallegriamo di quello che è stato incluso comunque.

Certo, immaginiamo che i compilatori si siano anche trovati di fronte a esigenze dovute ai limiti di impaginazione, e riteniamo che abbiano scelto questi confini (da una domenica mattina a una domenica mattina) per esigenze pratiche.

Rimpiangiamo un poco l'assenza delle Ore pasquali (che comunque sono più diffuse nelle chiese di tradizione russa), e prevediamo che la presenza di sole tre letture profetiche alla Liturgia vesperale del Sabato Santo (invece delle quindici letture riportate sui testi slavonici e romeni) costringerà molti utilizzatori di questo libro a doversi ancora servire di altri testi, ma ammettiamo che il fastidio è davvero di portata minore.

Non ci vogliamo soffermare sulla traduzione in sé, per due ragioni: in primo luogo, siamo dell'idea che dovranno passare ancora lunghi anni prima di arrivare a poter concordare sui termini ideali; in secondo luogo, le traduzioni da diverse lingue con diversi canoni di metrica (e diversi adattamenti canori e musicali) possono richiedere variazioni di termini e dell’ordine stesso delle parole nelle frasi. Se da una parte ci fa piacere che questo testo abbia recepito alcune delle nostre osservazioni in materia di traduzione liturgica, vediamo comunque che il materiale è stato preso da fonti di diversa provenienza, e forse avrà bisogno in futuro di una più attenta armonizzazione (si notino per esempio due versioni diverse dell'Apolitichio pasquale alle pagine 374 e 387/9). Ma per questo, ci saranno ancora molte Pasque di tempo per migliorare.

Oggi, La Grande e Santa Settimana è un testo indispensabile per ogni chiesa ortodossa in Italia, a prescindere dalla lingua in cui si celebrano le funzioni (anche laddove per qualche ragione pastorale non si celebra in italiano, questa sarà la lingua nelle quali i riti ortodossi saranno per lo meno spiegati alle generazioni future). Volete fare un vero piacere alla vostra parrocchia, e facilitare la diffusione dell'Ortodossia in Italia? Compratene TRE copie: una per il coro, una per il santuario, e una per l'aula del catechismo o della scuola parrocchiale. Sarà uno dei migliori investimenti che la chiesa possa fare.

 
San Serafino di Vyritsa

Vasilij Nikolaevic Muraviev (il futuro San Serafino) nacque il 31 marzo 1866 in un villaggio della provincia di Yaroslavl. Figlio di contadini, perse il padre all’età di 10 anni, e fu avviato da un vicino a un lavoro commerciale a San Pietroburgo. Qui manifestò il suo desiderio di diventare monaco all’anziano Barnaba della Lavra di Sant’Alessandro Nevskij. Il consiglio dello starets fu di restare nel mondo, sposare una donna credente, e una volta che i figli fossero cresciuti, di abbracciare assieme alla moglie la vita monastica.

Vasilij accettò con umiltà il consiglio, si sposò nel 1890 con Olga Ivanovna Naidenova (figlia di contadini del villaggio di Kobalyna, nata nel 1872, che aveva avuto da una monaca lo stesso consiglio ricevuto dal marito), ed ebbe due figli, Nicola e Olga. Dopo la morte prematura della figlia, Vasilij e Olga decisero di vivere assieme come fratello e sorella.

Nel mondo, Vasilij Muraviev fu un abile amministratore nel campo del commercio delle pellicce. I suoi affari lo portarono più volte all’estero (si dice che visitò anche il Monte Athos), e divenne presto molto ricco, senza dimenticarsi di aiutare i poveri, e di fare donazioni per la costruzione di chiese e monasteri a San Pietroburgo e dintorni.Il suo ritiro dalle attività commerciali ebbe luogo a seguito della rivoluzione del 1917. il 16/29 ottobre 1920 Vasilij fu tonsurato come monaco con il nome di Barnaba, nella chiesa del Santo Spirito alla Lavra di Sant’Alessandro Nevskij. Nello stesso periodo, anche la moglie fu tonsurata monaca, con il nome di Cristina, in un convento di San Pietroburgo.Presto Padre Barnaba fu ordinato diacono, e gli fu affidata la cura del cimitero della Lavra. Nel 1921, nel giorno della decapitazione di San Giovanni Battista (29 agosto/11 settembre), il Metropolita Veniamin (Kazanskij) lo ordinò prete. Come obbedienza, gli furono assegnati i compiti del rifornimento di candele e della cassa della Lavra, opera in cui diedero grande frutto le sue doti amministrative.

Nel 1927 Padre Barnaba ricevette la tonsura di monaco di Grande Abito con il nome di Serafino (da San Serafino di Sarov, di cui era stato presente, assieme alla moglie, alla festa di canonizzazione nel 1903), e la fraternità della Lavra lo elesse come padre confessore (compito che lo teneva impegnato fino a 8 ore al giorno).

Alla fine degli anni ‘20 tutti i monaci della Lavra furono arrestati e mandati al confino (molti morirono da martiri). Padre Serafino continuò in tutto il tempo della prigionia ad agire come punto di riferimento spirituale; la sua salute si deteriorò a causa delle difficoltà e delle percosse subite nel lager, e al suo rilascio nel 1933 si stabilì a Vyritsa, già luogo di soggiorno climatico nelle foreste presso San Pietroburgo (divenuta Leningrado). Qui si prese cura della chiesa lignea della Madre di Dio di Kazan, costruita nel 1913.

Benché molto malato, riceveva centinaia di visitatori che cercavano il suo aiuto, la sua preghiera e un suo consiglio. Aiutava tutti, e molti guarirono in seguito alle sue preghiere. Notando l’afflusso di persone, i bolscevichi perquisirono spesso la sua casa. Ma il suo amore rabboniva anche i cuori dei cechisti durante le perquisizioni. Una volta lui prese la mano del cechista che perquisiva la casa, la accarezzò, posò la sua mano destra sul capo dell’uomo e disse: "Che i tuoi peccati siano assolti, servo di Dio". Il volto del cechista si illuminò mentre questi parlò a lungo con lui come con un amico.Nel corso della seconda guerra mondiale, i cittadini di Leningrado andavano da Padre Serafino per conoscere il destino dei loro cari al fronte, e spesso le sue predizioni andavano oltre la sorte immediata di queste persone. 

Tra le sue profezie, se ne ricordano alcune che non avevano molto senso né erano credibili a quei tempi: che Leningrado avrebbe ripreso a chiamarsi San Pietroburgo, che si sarebbero riaperte chiese e monasteri in tutta la Russia, che i cattolici avrebbero avuto un papa slavo…Durante l’assedio di Leningrado, Vyritsa fu occupata dai tedeschi, ma non vi furono casi di saccheggio né di violenze, in conformità con le predizioni dello starets. Padre Serafino fu consultato e rispettato anche dai militari dell’esercito tedesco (tra i quali si trovavano dei romeni di fede ortodossa, che raccolsero alcuni dei suoi detti e previsioni).Dopo la guerra la sua salute peggiorò. Pur indebolito e costretto a letto, chiedeva che gli fossero portati tutti i pellegrini giunti da lui. Poco prima della sua morte rimase addormentato per 12 giorni di fila; al risveglio disse di avere visitato in spirito molti paesi, senza trovarne nessuno in cui la fede fosse migliore di quella della Russia, ed esortò a dire a tutti di non allontanarsi mai dalla Fede ortodossa.

Padre Serafino si addormentò nel Signore il 21 marzo/3 aprile 1949, e per una settimana si percepì a Vyritsa un profumo straordinario. Pochi mesi prima era morta anche sua moglie, che aveva preso il Grande Abito monastico con il nome di Serafina, e lo aveva seguito venendo ad abitare presso Vyritsa nei suoi ultimi anni. Le loro tombe sono ora vicine, a fianco della chiesa della Madre di Dio di Kazan.
Padre Serafino è stato canonizzato dalla Chiesa russa nell’agosto dell’anno 2000.

Santo padre Serafino di Vyritsa, intercedi presso Dio per noi!

 
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Come sfatare i miti sulla data della Pasqua

Purtroppo, le definizioni su come si arriva alla data della Pasqua sono per la maggior parte sbagliate. La più tipica definizione sbagliata è questa:

"La domenica di Pasqua è la domenica successiva al primo plenilunio dopo l'equinozio di primavera".

Nei paesi del Sud del mondo ci sono stagioni opposte a quelle dell'emisfero settentrionale. Naturalmente, la Pasqua non si celebra in primavera (ovvero nel mese di settembre) nel Sud del mondo!

Che rapporto hanno i pleniluni con la Pasqua?

Inoltre, quasi tutti danno per scontato che la "luna piena" si riferisce a una singola data di plenilunio astronomico. Un plenilunio astronomico (PA) si verifica in un medesimo istante nel tempo, e si verifica quindi in 2 date in giro per il mondo (in ogni istante è mezzanotte da qualche parte nel mondo, con date diverse per i fusi orari locali su entrambi i "lati" della mezzanotte). Ancora una volta, i paesi non celebrano diverse date di Pasqua basate sulle proprie date del plenilunio!

Le date dei pleniluni astronomici non sono direttamente correlate alle date della Pasqua. La Pasqua è basata sulla data del plenilunio pasquale (PP). Questa "luna piena" di fatto non corrisponde direttamente a un evento astronomico, ma è invece il 14° giorno del mese lunare, determinato dalle tabelle. Essa può differire fino a due giorni dalla data del plenilunio effettivo. La data della Pasqua varia quindi tra il 22 marzo e il 25 aprile per coloro che seguono il calendario giuliano. Il cristianesimo orientale basa i suoi calcoli sul calendario giuliano, il cui 21 marzo corrisponde, nel corso del XXI secolo, al 3 aprile nel calendario gregoriano, nel quale la celebrazione della Pasqua varia quindi tra il 4 aprile e l'8 maggio. L'uso delle tabelle invece delle osservazioni reali della luna piena è utile e necessario in quanto il plenilunio può verificarsi in date diverse a seconda di dove ci si trova nel mondo.

La Pasqua cade da uno a sette giorni dopo il plenilunio pasquale, in modo che se il plenilunio pasquale è di domenica, la Pasqua è la domenica successiva. Così la prima data possibile della Pasqua è 22 marzo/4 aprile, mentre l'ultima data possibile è 25 aprile/8 maggio.

L'equinozio è correlato alla Pasqua?

L'equinozio non è legato alla Pasqua! Il 20 marzo/2 aprile è la data critica per determinare tutte le Pasque: il 20 marzo/2 aprile era la data dell'equinozio nell'anno 325 d.C., quando è stata concordata la definizione di una data della Pasqua.

Particolari con il calendario giuliano

Anche se questo aspetto è stato corretto nel calendario gregoriano, nel calendario giuliano il plenilunio ecclesiastico si allontana dalla vera luna piena per più di tre giorni ogni millennio. Ora è già slittato qualche giorno dopo. Come risultato, le chiese ortodosse celebrano la Pasqua una settimana dopo rispetto alle chiese occidentali circa il 50% delle volte. (La Pasqua ortodossa è spesso quattro o cinque settimane più tardi, perché il 20 marzo giuliano è di 13 giorni in ritardo rispetto alla data gregoriana del 20 marzo negli anni 1900-2099.)

Che cosa ha fatto il Concilio di Nicea nel 325 per regolare la data della Pasqua?

La pretesa da parte della Chiesa cattolica romana nella bolla papale Inter gravissimas del 1582 (che ha promulgato il calendario gregoriano) di avere ripristinato "la celebrazione della Pasqua secondo le regole fissate dal... il grande concilio ecumenico di Nicea" era basata su una falsa affermazione di Dionigi il Piccolo (525), che "noi determiniamo la data del giorno di Pasqua... in conformità con la proposta concordata dai 318 Padri della Chiesa al Concilio di Nicea". Il primo Concilio di Nicea (325) ha dichiarato solo che la Pasqua doveva essere celebrata da tutti i cristiani nella stessa domenica - non ha fissato le regole per determinare quale domenica. In realtà, non vi è alcun canone di questo Concilio che parla della data della Pasqua, ma secondo la tradizione se ne è discusso nel verbale del Concilio, che non ci è pervenuto e non può essere esaminato. Il computo medievale si è basato sul computo alessandrino, che è stato sviluppato dalla Chiesa di Alessandria nel corso del primo decennio del IV secolo utilizzando il calendario alessandrino. L'Impero romano d'Oriente lo accettò subito dopo l'anno 380, dopo la conversione del computo al calendario giuliano. Roma lo accettò in qualche punto tra il sesto e il nono secolo. Le isole britanniche lo accettarono durante il VII secolo, con l'eccezione di alcuni monasteri. La Francia (ovvero tutta l'Europa occidentale, tranne la Scandinavia pagana, le isole britanniche, la penisola iberica e l'Italia meridionale) lo accettò durante l'ultimo quarto del secolo VIII. L'ultimo monastero celtico ad accettarlo, Iona, lo fece nel 716, mentre l'ultimo monastero inglese ad accettarlo lo fece nel 931. Prima di queste date erano stati utilizzati altri metodi che risultavano in date della domenica di Pasqua che a volte differivano tra loro di un massimo di cinque settimane.

Qual è la definizione giusta?

La domenica di Pasqua è la domenica dopo la data del plenilunio pasquale (PP) dell'anno. Nel giugno del 325 d.C. gli astronomi hanno approssimato le date dei pleniluni astronomici per la Chiesa cristiana, chiamandole date dei pleniluni ecclesiastici (PE). Dal 326 d.C. la data del PP è sempre stata la data del PE dopo il 20 marzo/2 aprile (che era la data dell'equinozio nell'anno 325 d.C.).

Per riassumere ...

- La domenica di Pasqua è la domenica dopo la data del plenilunio pasquale (PP).

- il PP è la data del primo plenilunio ecclesiastico (PE) dopo il 20 marzo/2 aprile.

- i PP sono date predefinite.

- i PE sono date astronomiche approssimate di plenilunio, non date astronomiche effettive di plenilunio.

 
L'ideologia del capitalismo

Di sua Eminenza il metropolita Hierotheos

di Nafpaktos e Agiou Vlasiou

Oggi prevalgono due modi di vita umani, che sono stati trasformati rispettivamente in due ideologie, cioè l'individualismo occidentale e il collettivismo orientale. Nell'individualismo occidentale, caratterizzato dal liberalismo, prevale una libertà sfrenata dei singoli, insieme con la concorrenza, che è un fattore negativo per la società in generale. Nel collettivismo orientale prevale il predominio dello Stato, che mina la libertà delle persone. In entrambi i casi, l'uomo è trascurato come persona, così come la società umana non è considerata come una società di persone umane.

Questi due sistemi di vita e modelli ideologici si sono entrambi manifestati nella realtà sociale. Il liberalismo prevale in Occidente e nel suo "quartier generale", gli Stati Uniti d' America, la "mecca" della globalizzazione, mentre il collettivismo è apparso nei paesi dell'ex Unione Sovietica, ma anche nei paesi dell'Estremo Oriente in generale.

In entrambi i casi il capitale ha un posto di rilievo, tranne per il fatto che è differenziato in chi lo possiede e chi lo gestisce. Nel liberalismo, il capitale finisce tra i pochi e si muove, per lo più in modo sfrenato, lungo il principio di auto-regolazione del mercato. Nel collettivismo-comunismo, il capitale è controllato dallo Stato. In entrambi i casi la persona media ne è la vittima, con la differenza che è vittima o dell'oligarchia di un pugno di magnati facoltosi o di uno Stato insaziabile. Il capitalismo ha quindi solo un volto insensibile da mostrare.

È stato espresso il punto di vista che il capitalismo è la creazione dell'individualismo occidentale e soprattutto della morale protestante, come indicato da Max Weber, e che aspira all'accumulazione della ricchezza da parte di pochi, mentre il marxismo, che ha avuto origine dalle idee di Marx, è solo una reazione al capitalismo e si occupa di tutta la società. In profondità, però, entrambi i sistemi sono la progenie della stessa metafisica occidentale: Marx era un ebreo tedesco cresciuto in Occidente, per quanto le sue teorie, nate nella "sfera" occidentale, siano state trasfuse in Oriente, perché questo era il luogo dove esisteva la pratica del cristianesimo ortodosso, con i suoi principi di proprietà comune e di uso comune, e dove le teorie potevano quindi essere implementate.

Ai nostri giorni, siamo diventati testimoni del crollo di entrambi questi due sistemi, ma anche delle loro ideologie. Nel periodo tra il 1989 e il 1991, il collettivismo-comunismo è crollato nei paesi dell'ex Unione Sovietica, dove il potere dello Stato dominava sulla vita sociale ed economica delle persone, mentre ai nostri giorni stiamo assistendo al crollo del liberalismo con la sua mentalità del "libero mercato" e della "auto-regolazione" del mercato, che funziona a scapito della società globale. Naturalmente, si dovrebbe notare che il fallimento del comunismo non può essere considerato come una vittoria del capitalismo, proprio come il crollo del capitalismo non può essere attribuito al comunismo. Si tratta del fallimento dell'ideologia del capitale, totalmente irrispettosa della povertà umana.

In ogni caso, entrambi i sistemi sono contrari alla dottrina ortodossa nella sua forma perfetta, dal momento che né il liberalismo né il marxismo – come ideologie e le teorie del mondo – possono essere accettati dalla Tradizione ortodossa, in cui si fa ampia menzione di evitare la passione dell'avarizia, ma anche della sperimentazione di amore verso gli altri esseri umani, soprattutto quelli che soffrono. Questa combinazione di amore e di libertà risolve del tutto il problema, dato che la libertà dell'individuo/persona senza l'elemento dell'amore porterà al liberalismo sfrenato, e l'amore dell'insieme meno la libertà dell'individuo si tradurrà nel collettivismo sfrenato.

Per anticipare una possibile obiezione a quanto sopra, devo ammettere che, purtroppo, l'ideologia alla base del sistema del capitale, nelle sue due forme – quella individualista e quella del controllo dello Stato – ha influenzato e continua a influenzare in alcuni casi la vita di alcune comunità ortodosse. Questo può essere individuato in diversi monasteri contemporanei, che, invece di essere esempi di vita cenobitica e di rinascita della comunità originaria di Gerusalemme, operano comunque sul modello del sistema capitalistico contemporaneo, nel qual caso potremmo giustamente etichettare questo fenomeno come "capitalismo ortodosso".

Considerando che i monaci proclamano e fondamentalmente aderiscono alla virtù del non-possesso e del possesso comune, tuttavia continuano ad accumulare – nel bene e nel male – terre e fondi per i monasteri e si assumono rischi giocando con quelle proprietà, utilizzando ogni mezzo capitalistico-liberista per incrementarla. In altre parole, i monaci si sforzano di vivere con indigenza all'interno di monasteri ricchi e sviluppano potere sia sociale sia politico.

Questa situazione mi ricorda alcuni paesi dell'Europa Orientale – la Romania per esempio – dove la gente faceva la fame ed era composta di fatto da non-possessori (anche se involontari) e tuttavia i suoi leader accumulavano ricchezza e costruivano maestosi palazzi (per esempio Nicolae Ceauşescu). Tuttavia, questa mentalità non è favorita dalla dottrina della Chiesa e dal monachesimo ortodosso, che chiede il monaco di astenersi da tutti i beni personali e ai monasteri di essere luoghi di filantropia, di amore e di guarigione a tutti i livelli. Nella tradizione ortodossa, i monasteri sono infermerie spirituali.

Noi sacerdoti e monaci abbiamo bisogno di capire che non tutto ciò che legale è necessariamente etico, ma anche che non tutto ciò che è etico – secondo le regole dell'etica sociale – è necessariamente ortodosso, dato che l'etica ortodossa del Vangelo differisce dall'etica laica ed è in realtà ascetica in natura. Non dobbiamo solo condannare l' accumulo di ricchezza materiale da parte di individui specifici; dobbiamo anche condannare l'accumulo di ricchezza materiale da parte di "comunità ecclesiali" per il mero scopo di metterla in vista, nonché stigmatizzare la partecipazione di personaggi e comunità ecclesiali nei giochi del sistema capitalista e del mercato liberale o neo-liberale.

Noi cristiani, specialmente clero e monaci, dobbiamo mostrare in pratica ciò che crediamo e predichiamo, altrimenti saremo disonesti e ipocriti. Dobbiamo respingere la tentazione di essere posseduti da una particolare ideologia di "capitalismo cristiano".

 
Despre împărtăşirea la Liturghia Darurilor Înaintesfinţite şi alte teologumene episcopale

Pe 12 mai 2016, saitul Eparhiei de Ungheni şi Nisporeni ne-a uimit cu două circulare episcopale inedite: prima se numeşte „Ce ar trebui să ştim despre împărtăşirea copiilor”, iar a doua: „Despre gradul de rudenie de la botez și botezul mai multor prunci împreună”. 

Fără îndoială, orice ierarh are nu doar dreptul, ci şi obligaţia de a se preocupa de astfel de probleme şi, la nevoie, să emită circulare pentru preoţii şi credincioşii pe care-i păstoreşte. Din punct de vedere liturgic şi pastoral, ideea de a scrie aceste circulare mi se pare foarte bună şi, cred că ar trebui să fie urmată de nişte hotărâri similare ale Sinodului Mitropolitan, care să aibă autoritate şi aplicabilitate mai generală. 

Pe de altă parte însă, trecând peste limbajul semidoct şi argumentarea defectuoasă a unor idei, textele acestor circulare ridică unele probleme teologice ce nu pot fi neglijate şi nici acceptate fără drept de apel, pe simplul motiv că au fost scrise de un episcop. Deja mai mulţi preoţi din Moldova, cunoscându-mi preocupările liturgice şi canonice, m-au rugat să mă pronunţ asupra următoarelor fraze: 

„Copiii se împărtăşesc numai cu Sfântul Sînge fiindcă ei nu pot înghiţi mîncare tare, de aceea copiii care se alăptează cu piept, nu se împărtăşesc la Liturghia Darurilor mai înainte sfinţite, deoarece la această liturghie în potir se adaugă vin şi apă, dar ele nu se transformă în Sîngele Domnului. În cazul în care le dăm vin din potir la această liturghie, acest lucru nu va fi împărtăşire adevărată. […] Trebuie să se știe că  o astfel de gîndire este greșită și preoții păcătuiesc grav, crezînd că vinul se sfințește doar prin faptul că în el este pus o părticică din sfintele daruri, care au în ele îmbibat Sfîntul Sînge. Deasemenea se  interzice păstrarea Trupului și a Sângelui Mîntuitorului, de la Liturghia Sfîntului Ioan Gură de Aur ori Liturghia Sfîntului Vasile cel Mare în vas pentru a  împărtăși copiii bolnavi. Cel mai potrivit ar fi  ca preoții din timp să lămurească enoriașilor că copiii trebuie să fie împărtășiți numai la Liturghia sfântului Ioan Gură de Aur sau la Liturghia sfântului Vasile cel Mare.”

Formal, episcopul Petru de Ungheni nu a făcut altceva decât să expună „poziţia oficială” a Bisericii Ruse şi Române cu privire la conţinutul potirului euharistic la Liturghia Darurilor Înaintesfinţite (în continuare LDIS). Problema este, de fapt, mult mai complexă şi necesită o abordare pe măsură. În cartea „Liturghia Ortodoxă: istorie şi actualitate (pp. 180-200) am scris o istorie a LDIS (vezi fişierul PDF), în care am abordat detaliat şi acest subiect delicat. Rezumând cele scrise acolo, trebuie să spunem că:

• Tradiţia Bisericii dintotdeauna a crezut că la LDIS în Sfântul Potir avem Sfânt Sânge. Întreg conţinutul Potirului se sfinţeşte şi se preface în Sfânt Sânge prin punerea în el a Sfântului Trup, mai ales că Agneţul are Sfânt Sânge îmbibat în el (deşi, în trecut, atunci când erau pregătite Darurile Înaintesfinţite, înmuierea Agneţului în Sfântul Sânge nu era obligatorie!). Grecii şi astăzi cred că în Potir este Sfânt Sânge şi se împărtăşesc la LDIS ca la celelalte Liturghii, fără a respinge copiii. Prin aceasta ei nu au inventat nimic, ci păstrează vechea Tradiţie a Bisericii.

• Ideea că la LDIS avem doar vin binecuvântat a fost formulată în spaţiul ortodox de către Petru Movilă, mitropolitul Kievului (sec. XVII), prin aplicarea principiilor scolastice asupra teologiei sacramentale, pe care le-a împrumutat de la romano-catolici. Spre sfârşitul sec. XVII aceste idei au fost preluate de Liturghierul slavo-rus, apoi şi de cel românesc, deşi toate Liturghierele de până atunci menţionau foarte clar că împărtăşirea la LDIS se face „ca la Liturghia Sf. Ioan Gură de Aur”. Eu cred că ar trebui în mod urgent să se revină la vechea practică, mai ales că tot mai mulţi teologi ruşi şi români condamnă teoria lui Petru Movilă. 

• Sfântul Simeon Noul-Teolog şi alţi Sfinţi Părinţi spun foarte clar că, împărtăşindu-ne cu o picătură de Sfântul Sânge, acesta preface întreg sângele nostru în Sângele lui Hristos. Deci, dacă o picătură din Sângele lui Hristos poate preface 5 litri de sânge, cu atât mai mult mulţimea de picături de Sfânt Sânge îmbibate în Agneţul euharistic pot să prefacă cele 0,2-0,3 litri de vin şi apă din Potir. Se pare că unii preoţi de la Chişinău au exagerat atât de mult cu această „taină a prefacerii” încât, la Bobotează, zile în şir au dat oamenilor Agheasmă Mare care „se sfinţea” şi „se înmulţea” prin simpla amestecare cu apă obişnuită, care curgea în vasul cu Agheasmă de la un robinet obişnuit. Dar ceea ce-i valabil la Chişinău, nu-i nici pe departe valabil la Ungheni, unde nu doar Agheasma, dar nici Sfântul Sânge nu poate să prefacă un mic potir cu vin, deşi toată Tradiţia Bisericii crede în această prefacere.

Mai jos, aceeași circulară spune:

„Atunci cînd în parohie s-au depistat cazuri de copii cu boli infecțioase și molipsitoare, acești copii trebuie să fie împărtășiți la urmă, după cei sănătoși. Lingurița trebuie să fie ștearsă cu o materie curată după fiecare copil bolnav  care a fost împărtășit. Cu materia respectivă să fie șterse și buzele celor care au fost împărtășiți, iar după Liturghie materia trebuie arsă iar cenușa pusă sub sfîntul prestol.”

În timpul bolilor molipsitoare ar fi bine de oficiat Sfînta Liturghie de cîteva ori pe săptămână și de împărtășit copiii bolnavi, deoarece deasa împărtășanie  cu Sf. Taine a lui Hristos, atît pe maturi dar și pe copii deopotrivă, îi unește în chip viu și lucrător cu Domnul…

Folosul desei împărtășiri a copiilor mai ales cînd sunt într-o boală îl putem înțelege din următoarea faptă minunată. Sf. Andrei Criteanul multă vreme n-a vorbit în copilărie. Cînd însă părinții zdrobiți de durere s-au întors spre rugăciune și spre mijloace­le harice, în momentul împărtășirii, legătura limbii s-a dezlegat și a început a vorbi cu claritate. Pînă și un doctor, creștin prin excelență, potrivit observațiilor sale, a mărturisit că în majo­ritatea cazurilor, copiii bolnăvicioși trebuie împărtășiți cu Sf. Taine, căci astfel parinții nu vor avea decît foarte rar nevoie să se folosească, de mijloace medicale.

Culmea e că aceste speculaţii pseudo-teologice (şi mai degrabă magice) sunt spuse după ce, puţin mai sus, autorul circularei zice că:

„Atunci când împărtășim un copil, zicem formula cuvenită: „Se împărtășește pruncul (numele) cu Cinstitul și Sfîntul Trup și Sînge al Domnului, și Dumnezeului, și Mântuitorului nostru Iisus Hristos spre viața de veci”. (cuvintele – „spre iertarea păcatelor” nu se zic dacă copilul nu a împlinit vârsta de 7 ani). Atunci cînd copilul se împărtășește numai cu Sfîntul Sînge zicem următoarele cuvinte: „Se împărtășește pruncul (numele) cu Cinstitul Sânge al Domnului și Dumnezeului și Mântuitorului nostru Iisus Hristos spre viața de veci”. Unii preoți adaugă cuvintele: „Se împărtășește pruncul (numele) spre sănătatea sufletului și a trupului”, sau „spre sănătatea trupului și mântuirea sufletului”, „spre sfințirea sufletului și a trupului”. Aceste formule sînt greșite și nu trebuie rostite.”

Eu nu ştiu în ce „cărţi vechi” a găsit episcopul Petru toate aceste argumente, dar ar fi bine să mai ştie că: 

• „Formula de împărtăşire” este o invenţie nouă, care rezumă (declarativ) rugăciunile de împărtăşire. Grecii, de exemplu, atunci când împărtăşesc, spun „Trupul şi Sângele lui Hristos”, iar cel care primeşte împărtăşirea spune în gând „Amin” – având deci o mărturisire de credinţă a prezenţei reale a lui Hristos în euharistie. Mai mult decât atât, „formula de împărtăşire”, spre deosebire de cea de la Botez (de exemplu), nu este obligatorie şi, până nu demult, nu era scrisă în nici un Liturghier. Acelaşi Petru Movilă ne-a băgat pe gât ideea (romano-catolică) că orice Taină trebuie să aibă obligatoriu o „formulă” de împărtăşire a harului. Altfel harul „nu ştie ce să facă”…

• În rugăciunile dinainte şi după împărtăşire Îi cerem lui Dumnezeu ca aceasta să ne fie „spre tămăduirea sufletului şi a trupului” – lucru care se referă atât la maturi, cât şi la copii. Nici eu nu sunt de acord cu „formula de împărtăşire” modificată, pentru a nu crea impresia că împărtăşirea este (doar) un medicament pentru trup. Dar tocmai Preasfinţia Sa este cel care susţine împărtăşirea cu scop terapeutic. Şi, în acest caz, în ce constă „greşeala” preoţilor care citează rugăciunile de împărtăşire şi le doresc primitorilor vindecare? 

• Episcopul Petru susţine teoria (pe nimic întemeiată) că copilul până la 7 ani nu are păcate şi la împărtăşirea lui nu se zice „spre iertarea păcatelor”. Dar, în acest caz, care-i sensul cuvintelor Mântuitorului când spune: „Luaţi, mâncaţi, acesta este Trupul Meu, care se frânge pentru voi, spre iertarea păcatelor” şi „Beţi dintru acesta toţi, acesta este Sângele Meu, al Noului Legământ, care pentru voi şi pentru mulţi se varsă, spre iertarea păcatelor”? Sau poate, ştiind că la majoritatea Liturghiilor din afara posturilor se împărtăşesc doar copii sub 7 ani, să modificăm şi cuvintele de instituire ale Liturghiei lăsate de Însuşi Hristos? Sau cum se face că, botezând doar prunci, menţinem în Crez cuvintele: „Mărturisesc un botez spre iertarea păcatelor”?, fiind vorba, în mod evident, de iertarea păcatelor personale (menţionate la plural), nu de aşa-numitul „păcat originar”, a cărui teorie quasi-eretică nici nu era cunoscută de Părinţii de la Sinodul II Ecumenic. Deci au copiii păcate sau nu? Ce se întâmplă în viaţa unui copil în momentul împlinirii a 7 ani, că la 6 ani şi 11 luni era un „îngeraş fără de păcat”, apoi brusc trebuie spovedit înainte de fiecare împărtăşire, ca şi cum ar fi mai păcătos decât episcopii şi preoţii, care nu se spovedesc înainte de fiecare Liturghie? 

* * *

Cea de a doua circulară, referitoare la botez, este mult mai bună, dar mi-au sărit în ochi două fraze:

„Sînt oameni care cred că dacă un băieţel şi o fetiţă se botează într-o apă atunci ei se fac rude duhovniceşti şi în viitor nu vor mai avea dreptul să se căsătorească unul cu altul. Această părere de asemenea este greşită, deoarece rudenie duhovnicească este doar între acela care primește copilul cînd este scos din cristelniță și între copil și părinții copilului. Întru cît la noi în țară este înrădăcinat acest obicei de a se lua un număr mare de cumătri, care contravine cumva normelor canonice, este foarte important să reținem acest moment, că trebuie să pomenim la botez ca și naș al copilului doar acea persoană care îl primește în brațe cînd copilul este scos din cristelniță. Celelalte persoane, sunt ca și cumătri, dar trebuie să-i pomenim separat și nu ca nași, ci ca pe robi a lui Dumnezeu.”

Nu mă leg de exprimările necioplite despre naşi şi cumătri, şi care dintre ei sunt „robi ai lui Dumnezeu” şi care nu. Vreau doar să văd când şi cum va fi înţeleasă şi respectată această prevedere în cuprinsul Eparhiei de Ungheni. Vă spun din start că sunt foarte pesimist…

Fraza cu care episcopul Petru îşi încheie a doua circulară, după părerea mea, dărâmă tot ce a încercat Preasfinţia Sa să construiască:

„În cazul cînd părinţii doresc ca copilul lor să fie botezat aparte, indiferent care ar fi motivul invocat de părinți, ar fi bine de împlinit dorinţa lor, în duhul păcii și dragostei lui Hristos,  ca să nu apară neînţelegeri ori sminteli, ce ar duce la denaturarea climatului duhovnicesc din parohie.”

Eu nu ştiu ce „climat duhovnicesc” există prin parohiile de pe malul stâng al Prutului, din moment ce lumea nu se împărtăşeşte decât în posturi (şi de multe ori după „spovedanii de obşte”), preoţii nu ţin cateheze înainte de botez şi cununie, pentru săvârşirea Tainelor Bisericii se percep taxe (care după aceea se împart cu episcopul) etc. Îmi dau seama că episcopul de Ungheni se teme ca nu cumva, impunând nişte reguli mai stricte, să scape şi restul parohiilor în Mitropolia Basarabiei (unde e un haos mai mare decât în cea a Moldovei). Dar poate că a venit timpul să avem măcar un episcop care să ceară preoţilor să placă doar lui Dumnezeu, şi nu (în primul rând) oamenilor. Căci, dorind să plăcem oamenilor, am ajuns să-i botezăm pe toţi la rând fără să înţeleagă nimic, apoi le dăm voie să împodobească cristelniţa cu flori şi să pună bani în apă („ca să le meargă bine în viaţă”), apoi le turnăm doar puţină apă pe cap („că copilul este un pic răcit şi părinţii n-ar vrea să-l dezbrace”) şi tot aşa… Când o să încetăm de a mai vedea Biserica ca pe o „agenţie de servicii religioase”, care prestează „servicii la comandă” şi „pe placul clientului”?

Sper, din tot sufletul, că în curând Sinodul Mitropolitan va lua tot ce-i bun din aceste circulare şi, argumentându-le mult mai serios, să vină cu nişte hotărâri care să denatureze la maximum actualul climat pseudo-duhovnicesc şi să aducă buna rânduială în Biserică, aşa cum ne-a lăsat Hristos prin Sfinţi Apostoli şi Sfinţii Părinţi, nu aşa cum vor oamenii. Celor care nu ştiu rânduielile bisericeşti, preotul trebuie să i le explice „în duhul păcii și dragostei lui Hristos” – vorba episcopului Petru. Dar cel care le ştie, dar nu vrea să le respecte, acela nu trebuie acceptat la Tainele Bisericii, „indiferent care ar fi motivul invocat”…

 
Suor Vassa Larina: L’Ortodossia non è una religione di paura

Nella sezione "Figure dell'Ortodossia contemporanea" dei documenti, presentiamo la versione russa e la traduzione italiana dell'intervista (apparsa in inglese sul sito ROCOR Studies) dell'intervista di Andrei Psariov a suor Vassa Larina, una monaca rassofora della diocesi mitteleuropea della Chiesa russa all'estero. Avviata agli studi teologici su richiesta dell'arcivescovo Mark di Berlino, e sotto la guida accademica di padre Robert Taft, suor Vassa è divenuta un'attenta studiosa del mondo liturgico ortodosso. In quest'intervista sottolinea l'importanza dello studio delle fonti e della formazione storica della liturgia della Chiesa.

 
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Il santo principe Daniele di Mosca

Il primo Monastero della città di Mosca è quello di San Daniele, così chiamato in onore del suo fondatore, il Santo Principe Daniele (Daniil) di Mosca. Il Principe Daniele era il figlio minore del famoso e santo Principe (celebrato nella storia dello Stato e della Chiesa) Aleksander Nevskij, e di sua moglie, la pia principessa Vassa. San Daniele nacque nel 1261 a Vladimir sul Kljazma, la capitale del grande principato di Vladimir. Suo padre morì quando egli aveva appena due anni. Nel 1272 ereditò il principato di Mosca, che era piuttosto povero a paragone degli altri, governati dai suoi fratelli maggiori. Sotto il severo giogo tartaro-mongolo e le guerre civili, il pacifico, compassionevole e mite Daniil (come scirvono le cronache) creò pace senza spargimenti di sangue. In 30 anni di regno San Daniele partecipò a una sola battaglia. Costantino, principe di Rjazan, decise di catturare le terre di Mosca con l’aiuto di una forza tartaro-mongola. Il Principe Daniele lo sconfisse presso Perejaslavl ma non catturò il principato di Rjazan, come avrebbe potuto. Prese prigioniero Costantino e gli mostrò ospitalità prima di concludere un armistizio. A causa nella sua notevole mitezza, umiltà e pacificità Daniele era molto popolare e rispettato dal popolo russo. Nel 1296 gli fu dato il potere e il titolo di Grande Principe di tutta la Russia. Poco dopo il suo principato includeva vaste terre attorno a Perejaslavl. Il Principe Daniele rimase sul trono per 30 anni, durante i quali il Principato di Mosca divenne uno dei più importanti e potenti della Russia. Egli segnò l’unità della terra russa attorno alla futura capitale e divenne il primo Grande Principe di Mosca e di tutta la Russia. Il Principe Daniele si prese grande cura sia della popolazione che della città di Mosca. Sulla riva destra del fiume Moscova, a una distanza di 5 miglia dal Cremlino fondò non più tardi del 1282 un primo monastero con una chiesa di legno dedicata a San Daniele lo Stilita. Questo monastero, che avrebbe preso parte a molti eventi storici in 700 anni di esistenza, è oggi il Monastero di San Daniele. San Daniele morì all’età di 42 anni, il 17 Marzo (4 marzo del Vecchio Calendario) del 1303. Prima della sua morte divenne monaco e, secondo le sue disposizioni, fu sepolto nel cimitero del Monastero di San Daniele.

Sulla sua tomba sono avvenuti numerosi casi di miracoli e guarigioni, e le sue reliquie miracolose sono state riesumate nel XVII secolo, quando San Daniele è stato canonizzato divenendo uno dei più popolari santi della Russia. Il 17 Marzo e il 12 Settembre (4 Marzo e 30 Agosto nel Vecchio Calendario) sono i giorni di commemorazione del Santo Principe Daniele.

Il Monastero di San Daniele ebbe un ruolo importante nella difesa dei confini meridionali di Mosca: dal XVI al XIX secolo rischiò più volte la distruzione, ma ogni volta tornò a nuova vita con l’aiuto e la protezione del suo Santo fondatore.

Anche se con la rivoluzione bolscevica le sante reliquie di San Daniele sono andate perdute, il monastero è ritornato a vivere nel 1983, come primo monastero restituito alla Chiesa Ortodossa Russa, e ne è oggi il centro spirituale, nonché residenza ufficiale di Sua Santità il Patriarca di Mosca e di tutta la Russia.

Santo principe Daniele di Mosca, intercedi presso Dio per noi!

 
La Fede dei nostri padri: mio nonno non era un ambientalista

Da bambino ridacchiavo quando mio nonno riutilizzava le buste. Quando trovava qualche pezzo di umorismo sagace o qualche connessione ancestrale in un giornale del paese, il nonno ritagliava l'articolo, e lo fissava saldamente con una nota all'interno di una busta di banca riciclata, sigillandola per bene con un pezzo di scotch ingiallito.

Le macchine postali avrebbero senza dubbio odiato mio nonno per il suo metodo inefficiente di conservazione della posta, ma non sono sicuro che il nonno abbia mai incontrato una macchina postale. Andava all'ufficio postale del paese, acquistava i suoi francobolli, e faceva timbrare a mano ogni nuova lettera sul posto. Le macchine potevano non essere sue amiche, ma tutti all'ufficio postale lo conoscevano per nome.

Da contadino, e da figlio di un sostenitore dell'UFO (Unione dei Fattori dell'Ontario – la voce politica delle popolazioni rurali durante la grande depressione), il nonno si sentiva più a suo agio su un trattore che in una macchina, e molto più comodo in un frutteto che davanti alla televisione. Si metteva a ridere all'idea che le persone iniziassero a lavorare alle nove del mattino – il giorno è mezzo andato, diceva. Andava a letto subito dopo il tramonto ogni sera. (Immaginate l'impatto sul consumo di energia se tutte le luci si spegnessero oggi alle 9 di sera).

Si poteva prevedere lontano un miglio la sua routine serale: due luci nel buio della fattoria significavano che era seduto nella sua poltrona in salotto, a leggere qualcosa come L'almanacco del contadino, il giornale locale, o un libro sull'Inghilterra; una sola una luce accesa significava che era nella sua stanza, a recitare le sue preghiere. L'assenza di luci significava che la giornata era finita: inutile chiamarlo, perché spesso non alzava il telefono. Quelli erano affari per il giorno: non aveva senso accendere una luce durante la notte per quelle cose.

Il nonno guidava la stessa vettura per vent'anni di fila. Era sempre pulita e pronta per la chiesa la domenica mattina, in modo da poter arrivare presto a suonare la campana – una campana suonata a mano con una vecchia fune. Quando l'auto diventava troppo vecchia per un uso regolare, la riciclava per uso agricolo, o la passava a qualcuno che ne aveva bisogno.

Per il nonno, sei giorni ogni settimana significavano lavoro. Anche se aveva solo una o due ore al giorno di tempo libero, si teneva al corrente su attualità, politica, e sulle questioni spirituali e religiose, che discuteva ai pasti in famiglia tre volte al giorno. La domenica non lavorava, a meno che non ci fosse qualche emergenza, il che succedeva a ogni morte di papa, non ogni settimana. Le parole "emergenza" e "crisi" in realtà significavano qualcosa per mio nonno.

Il nonno non usava mai la parola riciclo: lo faceva. Per lui "lasciare un'impronta" era qualcosa che facevi con lo stivale nel fango, mentre lavoravi fuori dalla stalla. Il riscaldamento globale era una cosa che avveniva in estate, e che richiedeva pause pomeridiane più lunghe e bicchieri di limonata per gli ospiti. L'inquinamento era qualcosa che un giovane irresponsabile faceva a se stesso con una bottiglia di liquore, e il verde era il colore della sua tuta da lavoro, non la sua politica né la sua spiritualità. Acquistava prodotti locali, non perché il pianeta aveva bisogno che lo facesse, ma perché gli piacevano i suoi vicini, e lui piaceva a loro.

Oggi, mentre leggiamo di fedeli e gerarchi ortodossi che cercano di condividere il "lato" ambientalista del cristianesimo ortodosso, mi viene spesso in mente mio nonno. Anche se non era un cristiano ortodosso, le sue opinioni sull'ambientalismo erano più ortodosse di quelle di molti scrittori contemporanei nella Chiesa. Come i Padri della Chiesa, vedeva la nostra crisi ambientale come logica conseguenza della caduta, non come il meccanismo per l'Apocalisse. Avrebbe detto la gente della città per semplificare la loro vita, di smettere di ascoltare scrittori fantasiosi che fanno tour di conferenze, di vivere tranquillamente, di dire le proprie preghiere e di non attirare l'attenzione su se stessi. Avrebbe scosso la testa di fronte ai leader della Chiesa che saltano sul carro ambientalista.

Mi ricordo di una volta (penso di aver avuto circa nove anni) in cui il nonno scrisse a una società di vendita per corrispondenza che vendeva dolci alla frutta (che poi sono divenuti famosi come rotoli alla frutta, dopo che vi hanno aggiunto un sacco di zucchero). Penso che odiasse l'idea di distribuire ai suoi nipoti montagne di caramelle. Non faceva niente di tutto ciò come dichiarazione politica, o come tentativo di far parte di un movimento sociale: era semplicemente un uomo tradizionale, che rifiutava il ritmo della vita moderna, il consumismo ateo e la mente del mondo moderno.

Mentre sono seduto nella sua sedia a scrivere questi ricordi, mi viene in mente la lezione che ci insegnava con l'esempio: che le cose buone, siano esse i mobili o la fede o il modo in cui si vive, sono tutte ereditate. Non sono fatte, o comprate, o ideate da persone intelligenti in aule di conferenze o sale stampa o agenzie di pubblicità o anche nei cosiddetti monasteri "progressisti". Sono il nostro legame con l'eredità del passato, l'esperienza delle generazioni dei santi passati prima di noi, che hanno vissuto vite fedeli in luoghi invisibili, senza mai sapere di comunicati stampa, o siti web, o di ferie per far passare lo stress, perché la vita anonima non ha bisogno di nessuna di queste cose.

Quando da cristiani ortodossi consideriamo come dobbiamo vivere, è questa eredità, questo esempio nelle piccole cose, che cerchiamo di emulare: l'esempio dei nostri santi progenitori, non un adattamento delle "tendenze" del mondo, al fine di far sì che in qualche modo assomiglino alla Chiesa.

Questa è la fede degli apostoli. Questa è la fede dei padri. Questa è la fede che ha illuminato l'universo.

Festa di san Nicola, 2007

 
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AGAPELE – MESELE FRĂŢEŞTI CE ÎNSOŢEAU EUHARISTIA ÎN PRIMELE VEACURI

Agapele (ἀγάπαι - în Noul Testament anume la plural: Iuda 1:12 - de la ἀγάπη = iubire, dragoste) erau mesele frăţeşti, cu scop filantropic (social), care au însoţit Liturghia primară, fără ca ele însele să aibă vreun rol sacramental. Până pe la jumătatea secolului al II-lea ele erau organizate înainte de Liturghie apoi, din motive disciplinare şi ascetice au fost transferate după slujba euharistică, iar spre sfârşitul secolului al IV-lea au dispărut.
Istoria lor se pare că are rădăcini în tradiţia iudaică (aşa cum menţionează Talmudul, Tipicul comunităţii de la Qumran, Filon din Alexandria ş.a.) şi au fost preluate şi de Sfinţii Apostoli, fiind menţionată în Sfânta Scriptură (Fapte 6; I Corinteni 11; Iuda 1; II Petru 2), apoi în Didahia şi la unii părinţi apostolici: Ignatie Teoforul, Ipolit Romanul şi alţi scriitori ai secolului al III-lea.[1] Mai mult decât atât, Sfânta Scriptură arată povara grea care era pe umerii apostolilor în a organiza aceste mese, şi de aceea Biserica a instituit treapta diaconiei – în primul rând pentru această slujire.
Se ştie că, încă din secolul I, agapele au devenit motivul unor certuri şi neorânduieli, contrare spiritului creştin în general, dar, mai ales, stării duhovniceşti necesare pentru împărtăşirea cu Sfintele Taine. De aceea, pe la jumătatea secolului al II-lea, agapele erau organizate după Liturghie şi doar cu scop caritativ. Tot atunci se generalizează ideea împărtăşirii pe nemâncate, chiar dacă regula a fost fixată oficial abia în anul 393, la Sinodul din Hippone (şi în mod repetat la Cartagina, în anul 419) - ceea ce nu exclude existenţa unor excepţii pentru regula ajunării, chiar şi la vremea aceea.
La începutul secolului al IV-lea Sfinţii Părinţi aveau păreri diferite privind folosul agapelor. Cei mai mulţi – negative. Ca dovadă, Canonul 28 al Sinodului de la Laodiceea (364) le interzice. Se pare însă că ele au mai existat, de vreme ce Sinodul Trulan (691) - Canonul 74 este nevoit să repete (mai categoric) interdicţia de la Laodiceea.
În Apus agapele au existat până prin secolul al VIII-lea, dar au dispărut de la sine, fără să fie interzise în mod expres.
Aşa cum consideră specialiştii, dispariţia definitivă a agapelor are două motive principale:
1. Imposibilitatea de a organiza agapele în zilele de duminici şi sărbători imediat după Liturghie şi pe lângă biserică (mai ales că se înmulţiseră bisericile, iar numărul de clerici era mai mic pentru fiecare din ele).
2. Organizarea unui sistem de ajutorare socială mai organizat şi mai eficient, fără ca acesta să fie legat strâns de Liturghie şi de zilele praznicale.
Trebuie să menţionăm că, mai ales în secolul al XX-lea, a existat (şi încă mai există) pe alocuri tendinţa de a restabili obiceiul agapelor, dar mai mult ca o continuare a comuniunii (κοινωνία) euharistice, şi nu cu scop filantropic - căci aşa a fost înţeles sensul vechilor agape, deci având şi un sens profund spiritual şi chiar mistic. Trebuie însă să menţionăm că, în viziunea Bisericii, comuniunea duhovnicească nu se poate realiza prin astfel de mese, ci exclusiv prin împărtăşirea euharistică din acelaşi potir.[2]
Părerea denaturată de care vorbim porneşte de la ideea că vechile agape erau mai mult decât o manifestare filantropică. Aceasta şi pentru că agapa se termina cu „sărutarea păcii”. Dar adevărul e că „sărutarea păcii” avea loc între agapă şi euharistie, iar în cele din urmă a devenit element al euharistiei (şi anume la începutul părţii ei principale) şi nu al agapei - ceea ce arată înţelesul primar al acestei sărutări frăţeşti.
Trebuie deci să reafirmăm că agapele nu au avut niciodată un rol sacramental, ci unul pur social şi filantropic, legat de necesităţile şi posibilităţile primelor comunităţi creştine.[3]
Note
[1] Cf. М. СКАБАЛАНОВИЧ, Толковый Типикон, Moscova, 1995, pp. 49-54, 76-85. O carte întreagă, deosebit de importantă, despre agape a scris: П. СОКОЛОВ, Агапы или Вечери Любви в древнехристианском мире, Сергиев Посад,
1906, disponibilă şi pe http://www.krotov.info.
[2] Dacă ar fi aşa, atunci toate mesele de după întrunirile şi slujbele ecumenice ar avea sensul restabilirii comuniunii liturgice şi duhovniceşti.
[3] Subcapitolul reprezintă o sinteză a studiului părintelui Mihail JELTOV, Агапа // ПЭ, vol. 1, pp. 214-218.

 
Il santo martire Varo


Il santo martire Varo dell'Egitto in un’icona russa contemporanea

 

Varo era un ufficiale romano in Egitto, ed era segretamente cristiano. Quando sette insegnanti cristiani furono gettati in prigione durante la persecuzione dell’imperatore Massimiano, Varo li visitò, prendendosi con zelo cura di loro. Fu meravigliato dal coraggio di questi martiri, e si lamentò di non potere diventare a sua volta un martire di Cristo, a causa della sua paura. Gli uomini di Dio lo incoraggiarono, e Varo decise che sarebbe andato anche lui a farsi torturare assieme a loro. Uno di questi uomini di Dio morì in prigione, cosicché solo i sei martiri rimasti furono portati al governatore. Quando questi chiese del settimo, Varo gli disse: “Il settimo sono io.” Il governatore adirato fece torturare Varo per primo. Comandò che fosse fustigato, e poi lo fece legare a un albero e tagliare a pezzi, finché il santo rese la sua anima a Dio.

Il suo corpo fu gettato in una discarica di letame. Una donna di Palestina, Cleopatra, vedova di un ufficiale, era presente con il suo figlio Giovanni, ancora bambino. Prese in segreto le reliquie di Varo dalla discarica, le seppellì in casa sua. Quindi chiese al governatore il permesso di portare il corpo del suo defunto marito dall’Egitto alla Palestina. Come moglie di un ufficiale, ebbe subito il permesso, ma non prese con sé il corpo del marito: al suo posto, prese le reliquie del martire Varo. Così, portò le reliquie a Edras (il villaggio in cui era nata) presso il Monte Tabor, e là le seppellì con onore accanto ai suoi padri. In seguito all’arrivo di molti cristiani che venivano a pregare presso la tomba, Cleopatra costruì una chiesa a San Varo, e la fece consacrare dai vescovi della sua regione.

Al tempo in cui si costruiva la chiesa Giovanni, il figlio di Cleopatra, era stato accolto come ufficiale nell’esercito romano; ma la sera stessa dopo la consacrazione della chiesa, il giovane morì all’improvviso per una malattia. Distrutta dal dolore, la donna pregò il martire di far rivivere il figlio, oppure di prendere anche la sua vita. Il martire le apparve in sogno accanto al figlio, entrambi radiosi come il sole, e le disse: “Perché ti lamenti con me, o signora? Immagini che io abbia dimenticato le buone opere che hai compiuto per me in Egitto e sulla via di questo luogo? Pensi che io non abbia sentito niente quando hai rimosso il mio corpo dalle carcasse delle bestie, e lo hai posto in una bara? Non sono sempre accorso alle tue preghiere? Io intercedo per te in ogni tempo di fronte a Dio. Ho pregato prima di tutto per i tuoi parenti, assieme ai quali mi hai sepolto, per la remissione dei loro peccati, e ora ho arruolato tuo figlio nell’esercito del Re dei cieli.”  Anche il figlio rincuorò la madre, chiedendole di non richiamarlo nel mondo pieno di inganno e di iniquità. Quindi San Varo promise a Cleopatra che alla fine della sua vita egli stesso e suo figlio sarebbero venuti ad accompagnarla nel suo transito.

Cleopatra riferì il sogno ai sacerdoti, e insieme seppellirono il figlio accanto al sepolcro di San Varo. Qui Cleopatra, piena di gioia nel Signore, distribuì tutti i suoi averi, rinunciò al mondo e passò il resto della vita servendo Dio con preghiere e digiuno giorno e notte. Ogni domenica, durante la sua preghiera, San Varo le appariva in grande gloria assieme al figlio. Dopo aver vissuto per sette anni in questo modo gradito a Dio, la beata Cleopatra si addormentò nel Signore, e il suo corpo fu posto, accanto a quello del figlio Giovanni e di San Varo, con i quali la sua anima riposa alla presenza di Dio, glorificato nei secoli.

 

San Varo e le preghiere per chi è morto non battezzato e al di fuori della Chiesa

Si sentono spesso i convertiti all’Ortodossia esprimere la loro tristezza quando scoprono che non esiste – comprensibilmente – una funzione ortodossa che un prete possa celebrare in memoria dei loro amati parenti e amici che si sono dipartiti da questa vita al di fuori della Chiesa. Talvolta sentono l’inadeguatezza delle loro preghiere private, e cercano senza molta speranza una guida o un aiuto.

A causa della diffusa apostasia sotto il regime comunista, questa sensazione è ora molto comune tra quelli che sono rimasti fedeli. In risposta a questa urgenza, una tradizione vecchia di secoli e caduta in disuso è stata ravvivata. C’è nei cieli un intercessore le cui preghiere sono molto potenti, e che è pronto e desideroso di aiutare in questi casi: il martire del IV secolo, San Varo (chiamato “Uar” in russo e in romeno.)

La tradizione di pregare San Varo per la salvezza dei propri parenti e amici deceduti, quale che fosse la loro fede, ha avuto inizio con l’esempio della stessa Santa Cleopatra. Oggi in Russia è stato stampato un libretto con la vita e un officio speciale a San Varo, e con una preghiera per il suo aiuto. Le icone di San Varo sono molto richieste.

Ecco la preghiera a San Varo:

O santo, mirabile martire Varo, che infuocato di zelo per il Re dei Cieli, lo hai confessato davanti ai tuoi torturatori e molto hai sofferto per lui! Ora la Chiesa ti venera come uno glorificato con la gloria del cielo da Cristo il Signore, che ti ha dato grazia abbondante per rivolgerti a lui con coraggio. E ora, stando di fronte a lui assieme agli angeli, nella gioia dell’alto, contemplando chiaramente la santissima Trinità, e godendo della luce increata, ricordati delle sofferenze dei nostri parenti che sono morti al di fuori della Fede, e accetta le nostre suppliche, e come hai interceduto per gli antenati non credenti di Cleopatra e li hai liberati dalle eterne sofferenze, ricorda quelli che sono morti non battezzati e sono stati sepolti in modo empio, e prega con zelo che possano essere liberati dall’oscurità eterna, affinché tutti possiamo, con una sola bocca e con un solo cuore, lodare il misericordiosissimo Creatore nei secoli dei secoli. Amen.

San Varo è celebrato il 19 Ottobre/1 Novembre. Per le chiese che celebrano secondo il Vecchio Calendario, il giorno della sua festa coincide con la vigilia del giorno assegnato dalla tradizione occidentale al ricordo dei defunti: un tempo molto appropriato per pregare per i propri cari.

 
Non toccare quel tasto!

Un rispettato scienziato svizzero, Conrad Gessner, potrebbe essere stato il primo a lanciare l'allarme sugli effetti del sovraccarico di informazioni. In un libro che è stato una pietra miliare nel campo, ha descritto come il mondo moderno travolge le persone con flussi di dati, e come questa sovrabbondanza sia "confusa e dannosa" per la mente. I mezzi di comunicazione fanno oggi eco alle sue preoccupazioni con rapporti sui rischi senza precedenti della vita in un ambiente digitale "sempre acceso". Vale la pena notare che Gessner, da parte sua, non ha mai utilizzato una singola e-mail ed era completamente ignorante dei computer. Questo non perché fosse un tecnofobo, ma perché è morto nel 1565. I suoi avvertimenti si riferivano all'apparentemente ingestibile alluvione di informazioni scatenata dalle pagine a stampa.

Le preoccupazioni per il sovraccarico di informazioni sono antiche quanto l'informazione stessa, con ogni generazione che reinventa gli impatti pericolosi della tecnologia sulla mente e sul cervello. Dal punto di vista storico, ciò che colpisce non è tanto l'evoluzione di queste preoccupazioni sociali, ma la loro somiglianza reciproca da un secolo all'altro, al punto che si sostituiscono le une alle altre con poco di cambiato tranne l'etichetta.

Queste preoccupazioni risalgono alla nascita dell'alfabetizzazione stessa. In parallelo con le preoccupazioni moderne circa l'abuso della tecnologia da parte dei bambini, Socrate notoriamente metteva in guardia contro la scrittura perché avrebbe "creato dimenticanza nelle anime dei discenti, perché questi non useranno le loro memorie". Egli suggeriva anche che i bambini non riescono a distinguere la fantasia dalla realtà, così i genitori devono consentire loro di ascoltare solo allegorie sane e non racconti "impropri", per timore che il loro sviluppo andasse fuori strada. L'avvertimento socratico è stato ripetuto molte volte da allora: La vecchia generazione mette in guardia contro una nuova tecnologia e si lamenta che la società stia abbandonando i media "sani" con i quali essa è cresciuta, apparentemente inconsapevole che questa stessa tecnologia è stata considerata dannosa quando è stata introdotta.

Le ansie di Gessner sulla tensione psicologica sorsero quando si accinse al compito di compilare un indice di tutti i libri disponibili nel XVI secolo, poi pubblicato con il nome di Bibliotheca universalis. Analoghe preoccupazioni sono sorte nel XVIII secolo, quando i giornali sono diventati più comuni. Lo statista francese Malesherbes si scaglia contro la moda di ottenere notizie dalla pagina stampata, sostenendo che questa isolava socialmente i lettori e penalizzava dalla pratica comune e spiritualmente edificante di ottenere notizie dal pulpito. Un centinaio di anni più tardi, quando l'alfabetizzazione divenne un requisito essenziale e furono ampiamente introdotte le scuole, le critiche dei musoni si rivolsero contro l'istruzione come qualcosa di innaturale e un rischio per la salute mentale. Un articolo del 1883 sulla rivista medica settimanale the Sanitarian sosteneva che le scuole "esauriscono i cervelli e i sistemi nervosi dei bambini con studi complessi e molteplici, e rovinano i loro corpi con una reclusione prolungata". Nel frattempo, lo studio eccessivi era considerato una delle principali cause della follia da parte della comunità medica.

Quando è arrivata la radio, abbiamo scoperto l'ennesima piaga dei giovani: il telegrafo senza fili è stato accusato di distrarre i bambini dalla lettura e di diminuire le prestazioni a scuola, entrambe attività che erano ormai considerate adeguate e sane. Nel 1936, la rivista musicale the Gramophone riferiva che i bambini hanno "sviluppato l'abitudine di dividere l'attenzione tra la preparazione monotonia dei loro compiti di scuola e l'irresistibile eccitazione dell'altoparlante" e descriveva i programmi radiofonici come disturbi dell'equilibrio delle loro menti eccitabili. La televisione ha causato allo stesso modo una diffusa preoccupazione: la storica dei media Ellen Wartella ha notato come "gli avversari esprimevano preoccupazioni su come la televisione potesse danneggiare la radio, la conversazione, la lettura e i modelli di vita familiare, provocando l'ulteriore volgarizzazione della cultura americana".

Entro la fine del XX secolo, i personal computer sono entrati nelle nostre case, Internet è divenuto un fenomeno globale, e preoccupazioni quasi identiche sono state ampiamente trasmesse attraverso titoli agghiaccianti: la CNN ha riferito che "l'Email fa male al quodiente d0intelligenza più della marijuana", il Telegraph che "Twitter e Facebook potrebbero nuocere ai valori morali" e "la generazione di Facebook e MySpace 'non sa formare relazioni'," e il Daily Mail ha pubblicato un pezzo su "Come usare Facebook potrebbe aumentare il rischio del cancro". Non un solo straccio di prova alla base di queste storie, ma fanno notizia in tutto il mondo, perché riecheggiano le nostre paure ricorrenti sulle nuove tecnologie.

Questi timori sono apparsi anche in articoli di approfondimento su pubblicazioni più serie: l'articolo influente di Nicolas Carr "Google ci sta rendendo stupidi?" su the Atlantic suggerisce che Internet stia minando la nostra attenzione e arrestando la crescita del nostro ragionamento, l'articolo del Times of London "Attenzione: sovraccarico del cervello" , ha detto che la tecnologia digitale sta danneggiando la nostra capacità di provare empatia, e un pezzo sul New York Times intitolato "La seduzione dei dati: crea dipendenza?" solleva la questione se la tecnologia possa causare disturbi da deficit di attenzione. Tutti questi pezzi hanno una cosa in comune: non menzionano uno solo studio su come la tecnologia digitale abbia effetti sulla mente e sul cervello. Raccontano aneddoti su persone che credono di non potersi più concentrare, parlare con gli scienziati che fanno lavori correlati in modo periferico, e questo è tutto. Immaginate se la situazione in Afghanistan fosse discussa in modo simile. Potreste scrivere 4000 parole per un mezzo di comunicazione importante, senza mai citare un singolo fatto rilevante sulla guerra. Invece, potreste basare la vostra tesi sulle opinioni dei vostri amici e del ragazzo in fondo alla strada che lavora nel negozio di kebab, e che in realtà viene dalla Turchia, ma comunque è lo stesso, non è vero?

Vi è, in realtà, una serie di ricerche che affronta direttamente questi problemi. Fino a oggi, gli studi suggeriscono non vi è alcuna prova coerente che Internet provochi problemi mentali. Semmai , i dati mostrano che le persone che utilizzano siti di social networking in realtà tendono ad avere una vita sociale migliore quando sono offline, mentre coloro che giocano ai giochi per computer riescono meglio dei non giocatori ad assorbire e reagire alle informazioni senza perdita di precisione o aumento di impulsività. Al contrario, l'accumulo di molti anni di prove suggerisce che un pesante uso della televisione sembra davvero avere un effetto negativo sulla nostra salute e la nostra capacità di concentrazione. Ma ora non sentiamo quasi più parlare di questo tipo di studi, perché la televisione è roba vecchia, e gli allarmi tecnologici devono essere nuovi, e la prova che qualcosa è sicura non ha presa nell'ordine del giorno dei media shock-horror.

Lo scrittore Douglas Adams ha osservato come la tecnologia che esisteva quando siamo nati sembra normale, tutto ciò che è sviluppato prima che compiamo 35 anni è emozionante, e ciò che è sviluppato in seguito viene trattato con sospetto. Questo non vuol dire che tutte le tecnologie multimediali siano innocue, e c'è un importante dibattito da svolgere su come i nuovi sviluppi influenzano i nostri corpi e le nostre menti. Ma la storia ha dimostrato che raramente consideriamo questi effetti, se non nei termini più superficiali, perché i nostri sospetti hanno la meglio su di noi. Col senno di poi, i dibattiti sul fatto che la scuola offusca il cervello o che i giornali danneggiano il tessuto della società sembrano strani, ma i nostri figli proveranno senza dubbio lo stesso riguardo agli allarmi tecnologici che noi nutriamo ora. Non passerà molto tempo prima che il ciclo abbia inizio di nuovo.

Vaughan Bell è un neuropsicologo clinico alla Universidad de Antioquia, Colombia, e al King's College di Londra.

 
Festa di sant'Ambrogio a Milano

Nel giorno della festa di sant'Ambrogio secondo il vecchio calendario, come da pratica consolidata negli ultimi anni, la basilica milanese di sant'Ambrogio è stata messa a disposizione degli ortodossi per la Divina Liturgia e la venerazione delle reliquie del santo vescovo e dei santi martiri Gervasio e Protasio. La Liturgia è stata celebrata dal vescovo Ilarij, vicario della Metropolia di Kiev, e ha cantato il coro dell'accademia teologica di Kiev. Hanno concelebrato una trentina di sacerdoti e diaconi di diverse parrocchie e monasteri del Patriarcato di Mosca, oltre a confratelli sacerdoti del Patriarcato di Costantinopoli e del Patriarcato di Romania.

 
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Slujba Înmormântării: istorie şi actualitate

Din păcate, în toată liturgica românească nu există nici un studiu istoric despre Slujba Înmormântării. În afară de câteva descrieri şi speculaţii liturgice (anistorice) sumare, toate celelalte studii şi articole româneşti despre înmormântare se opresc la „tradiţii şi obiceiuri”.

Manualul de Liturgică Specială a părintelui prof. Ene Branişte (apărut în 1980), la cinci slujbe importante ale Bisericii – Cununia, Maslul, Agheasma, Tunderea Monahală şi Înmormântarea – nu oferă nici un fel de referinţe istorice privind evoluţia slujbelor şi sensul lor primar. După cum se ştie, majoritatea profesorilor de liturgică din România nu fac altceva decât să plagieze (cu prescurtări) cursul părintelui Ene Branişte, fără a se osteni să completeze golurile rămase. 

Între timp, inclusiv prin contribuiţie personală directă, primele trei slujbe (Cununia, Maslul şi Agheasma) au fost abordate şi din punct de vedere istoric, aşa încât teologul român de astăzi poate să-şi facă o părere mai clară despre evoluţia acestor slujbe şi felul în care ele erau săvârşite şi înţelese în trecutul Bisericii. 

Acum a venit rândul Slujbei Înmormântării. Ca prim studiu istoric în limba română oferim traducerea unui referat al proto­presviterului grec Themistoclis Christodoulou, intitulat „Slujba Înmormântării în tradiţia manuscrisă a Evhologhiului bizantin" (PDF). Acest referat este o sinteză a tezei de doctorat pe care teologul grec a susţinut-o la Roma în 1996, cu titlul L'officio funebre nei manoscritti greci dei secoli X-XII. Bineînţeles, ar fi bine să existe o traducere a întregii lucrări, ca să vedem cum a evoluat fiecare element liturgic în parte de la un manuscris la altul. Pentru început însă, cred că şi această prezentare generală va fi utilă şi edificatoare.

* * *

Consideraţii pastoral-misionare. Răspunsuri la unele întrebări

Dacă nu vom reţine informaţiile liturgice despre manuscrise, codici şi imnografie, cel puţin să ştim că în trecut slujba înmormântării era legată de Liturghie. În viziunea autorului studiului, desprinderea slujbei înmormântării de Liturghie a fost cauzată de necesitatea postului pre-euharistic (cf. Canonul 41 de la Cartagina, 419), dar mai ales de mulțimea deceselor. Dar, după părerea mea, problema nu este atât în numărul mare de înmormântări, ci în faptul că acestea (ca şi toate celelalte Taine) au fost coborâte de la înţelesul eclesial-euharistic la cel particular (familiar). Degradarea vieţii duhovniceşti a mirenilor a determinat Biserica să menţină înmormântarea legată de Liturghie doar în cazul clericilor, monahilor şi a mirenilor mai credincioşi. Acum, când foarte mulţi dintre „ortodocşii” noştri n-au nici o legătură cu Biserica şi uneori mor în păcate grave, nici nu se pune întrebarea dacă să le facem Liturghie la înmormântare (mai ales că nici rudele răposatului nu se avântă la împărtăşire în acea zi), ci dacă să-i îngropăm cu preot sau nu.

Eu cred că noi trebuie să medităm serios la sensul unor slujbe pe care le facem cu prea multă uşurinţă, doar de dragul de a nu supăra pe cineva dintre oameni. Ce zice Dumnezeu despre asta nu ne pasă, ci plini de tupeu şi obrăznicie (numită de noi „nădejde”), Îi poruncim  să dezlege şi să primească în rai oameni care niciodată n-au căutat să ajungă acolo. Cum poţi, de exemplu, să-i cânţi „Cu sfinţii odihneşte, Hristoase, sufletul adormitului robului Tău…” unui om care toată viaţa a înjurat de sfinţi şi în viaţa lui n-a căutat niciodată să le urmeze exemplul? Cum putem cânta „Veşnica pomenire!” unui om care n-a făcut nimic vrednic de pomenire?

Slujba înmormântării niciodată n-a fost percepută de Biserică ca o slujbă de iertare sau dezlegare a păcatelor celui adormit. Vechile Molitfelnice nu aveau nici o rugăciune de dezlegare, iar singurul text în care se cerea iertarea păcatelor celor adormiţi (din şirul celor 7 rugăciuni din Codexul Barberini 336 gr.) este doar rugăciunea „Dumnezeul duhurilor şi a tot trupul…”. În restul se cerea doar „odihnă” şi „sălăşluirea cu sfinţii” „în sânul lui Avraam” şi „în locaşurile drepţilor”. Toate acestea ne duc mai degrabă cu gândul la o slujbă de canonizare a celui adormit, dublată de o cateheză despre moarte adresată celor încă vii, şi nu despre încercarea de a face în locul mortului ceea ce el n-a reuşit sau poate nici n-a vrut să facă în timpul vieţii. Nimeni nu poate fi trimis cu forţa în rai, iar „după moarte pocăinţă nu există”. Mai mult decât atât, Biserica pomeneşte şi înmormântează doar pe „cei ce au adormit în nădejdea învierii şi a vieţii veşnice”, iar, din păcate, nu toţi cei botezaţi cred şi se pregătesc pentru înviere.

Bineînţeles, nu este al nostru să evaluăm starea duhovnicească a unui om şi preotul nu poate refuza înmormântarea cuiva în baza unor evaluări subiective, mai ales atunci când e vorba de o moarte subită. Dar dacă ştim că răposatul era indiferent faţă de credinţă şi Biserică, nu se spovedea şi nu se împărtăşea cu anii sau trăia în păcate grave, pe ce temei să-l înmormântăm în biserică cu preot şi slujbă? Sunt înmormântaţi aşa doar cei care în timpul vieţii au iubit biserica, slujbele şi aveau o legătură cu preotul, dar nu orice om (creştin doar cu numele), care niciodată nu şi-a luat în serios botezul. Noi nu ştim cum îi va primi Dumnezeu, şi nu ne substituim Judecăţii Lui. Dar Biserica, având mărturia clară a necredinţei cuiva, nu-l poate canoniza (adică propune ca model de viaţă creştină) prin slujba înmormântării. Nu putem cânta „Veşnica pomenire” curvarilor, beţivilor, tâlharilor sau ateilor (fie şi nedeclaraţi). Ce învaţă din asta curvarii şi beţivii care sunt în viaţă? Îi va îndemna oare această „atitudine plină de dragoste şi compasiune” la pocăinţă?

De multe ori preoţii se gândesc că un eventual refuz al înmormântării ar provoca o durere şi mai mare familiei îndoliate (şi astfel acceptă să îngroape chiar şi pe sinucigaşi). Dar de ce familia nu s-a preocupat să cheme preotul la casa celui care se afla în gura morţii? De ce se preocupă de împărţirea averilor, de sicrie şi pietre de marmură frumoase, dar nu-i interesează ce va fi cu sufletul celui adormit? Durerea lor nu este din cauza că le-a murit o persoană dragă, ci din cauza că ei nu înţeleg nimic din moarte şi înviere. Adevăraţii creştini primesc cu multă pace moartea cuiva şi îşi pun nădejdea în Dumnezeu, iar păgânii cad în deznădejde (I Tes 4:13) şi nu ştiu unde şi cât să mai plătească, ca să-şi asigure intrarea în rai, fără să trăiască după voia lui Dumnezeu.

La drept vorbind, cei care au transformat Biserica într-o „agenţie de servicii religioase” care doar botează, cunună şi înmormântează sunt chiar preoţii şi episcopii. Şi tot ei trebuie să rupă această etichetă ruşinoasă şi să arate lumii ce este Biserica şi cum trebuie să trăim în ea, ca să avem folos din Botez, Cununie şi Înmormântare. O Biserică care nu mai excomunică pe nimeni, ci doar botează, cunună şi înmormântează pe toţi laolaltă, e ca o universitate foarte slabă, în curs de desfiinţare, care primeşte pe toţi candidaţii indiferent de medii şi nu exmatriculează niciodată pe nimeni, pentru a-şi menţine formal existenţa. Oare asta am ajuns?

Cred că demult a venit timpul să vorbim cine poate fi înmormântat şi cine nu, şi chiar să fim uniţi şi consecvenţi în această atitudine, pentru a nu submina adevărul şi disciplina în Biserică.

E timpul să luptăm şi cu obiceiurile de înmormântare care ne sufocă. Majoritatea acestora sunt reminiscenţe ale păgânismului greco-roman şi dacic (care doar parţial au reuşit să fie încreştinate), iar altele sunt expresii ale unei pioşenii şi imaginaţii quasi-eretice referitoare la moarte şi starea sufletelor în lumea viitoare. Dacă trecem peste textele liturgice ale înmormântării, pe care oricum nimeni nu le ascultă (căci toţi sunt preocupaţi cu altceva), privind dintr-o parte, înmormântarea seamănă mai degrabă cu o petrecere păgână decât cu o slujbă ortodoxă. Consider că interzicerea unor obiceiuri (bocitoarele năimite, găina peste groapă, podurile/punţile puse pe la răscruci de drumuri, plata vămilor, anumite pomeni etc.) ar fi mai simplă dacă am uni slujba înmormântării cu Liturghia şi deplasarea accentului de pe ceea ce facem noi pentru mort, pe ceea ce face Hristos prin Jertfa Sa (dacă şi răposatul a crezut şi s-a împărtăşit în timpul vieţii din roadele Jertfei Sale). În plus, oamenii trebuie să înţeleagă că singura formă de comuniune cu cei adormiţi este euharistia şi rugăciunea, iar cei care sunt gata să dea orice pomeni numai să nu se roage, îşi amăgesc conştiinţa cu „simţul datoriei împlinite”, dar nu după criteriile Bisericii, ci după cele ale lumii. În general, la înmormântări, autoritatea supremă într-o comunitate nu este Biserica şi preotul, ci babele şi tradiţia locului.

Cred că mai ales la sate, dar şi la bisericile din cimitirele urbane, este posibil de a sluji Liturghia în ziua înmormântării, pentru a aduce jertfa euharistică de sufletul celui adormit şi pentru a se împărtăşi rudele celor adormiţi. În acest caz slujba nu trebuie lungită foarte mult, iar dacă sunt mai mulţi răposaţi în aceeaşi zi, Liturghia şi Prohodul se vor săvârşi pentru toţi odată.

Astfel, în loc de bocete şi poveşti despre călătoriile sufletului pe nu ştiu unde, vom putea explica şi trăi cuvintele Mântuitorului Hristos (Ioan 6:53-57): 

„Adevărat, adevărat zic vouă, dacă nu veţi mânca trupul Fiului Omului şi nu veţi bea sângele Lui, nu veţi avea viaţă în voi. Cel ce mănâncă trupul Meu şi bea sângele Meu are viaţă veşnică, şi Eu îl voi învia în ziua cea de apoi. Trupul este adevărată mâncare şi sângele Meu, adevărată băutură. Cel ce mănâncă trupul Meu şi bea sângele Meu rămâne întru Mine şi Eu întru el. Precum M-a trimis pe Mine Tatăl cel viu şi Eu viez pentru Tatăl, şi cel ce Mă mănâncă pe Mine va trăi prin Mine”.

Iar în legătură cu milostenia şi masa de pomenire făcute pentru cei adormiţi, vom pune în faţă cuvintele Mântuitorului (Luca 14:12-14):

„Când faci prânz sau cină, nu chema pe prietenii tăi, nici pe fraţii tăi, nici pe rudele tale, nici vecinii bogaţi, ca nu cumva să te cheme şi ei, la rândul lor, pe tine, şi să-ţi fie ca răsplată. Ci, când faci un ospăţ, cheamă pe săraci, pe neputincioşi, pe şchiopi, pe orbi, şi fericit vei fi că nu pot să-ţi răsplătească. Căci ţi se va răsplăti la învierea drepţilor.” 

Prin urmare, milostenia şi pomenile care se dau pentru cei adormiţi nu trebuie oferite rudelor şi prietenilor, ci oamenilor străini şi cu adevărat nevoiaşi, şi nu în văzul şi auzul tuturor, ci înainte sau după înmormântare, aşa încât să nu fie văzut de nimeni (cf. Matei 6:2-4).

 
Vita della nostra Santa Madre Genoveffa di Parigi

Tutti i martirologi latini contengono una voce per Santa Genoveffa (Genevieva) al 3 di gennaio. Il Martirologio di Usuardo, monaco di Parigi (del IX secolo), ha la voce: "Nella città di Parigi, festa della santa vergine Genoveffa, che fu consacrata a Cristo dal beato Germano, vescovo di Auxerre. Per i suoi straordinari miracoli ella fu ovunque famosa." La vita di questa anziana o madre spirituale della Gallia fu scritta per la prima volta ai tempi di Re Childeberto da un uomo pio e molto erudito, il cui nome è andato perduto alla storia. La sua vita ebbe luogo nel quinto secolo, concludendosi intorno all'anno 500.

 San Germano profetizza di lei

La beata Genoveffa nacque nella parrocchia di Nemetodorensis, a circa sette miglia dalla città di Parigi. Suo padre si chiamava Severo, sua madre Geronzia. In quei giorni, avvenne che i venerabili uomini di Dio, i vescovi Germano e Lupo, si trovassero a passare da lì sulla strada per la Britannia, dove erano diretti a contrastare l'eresia pelagiana, che là aveva sollevato la testa, seminando zizzania nel grano dei fedeli della Chiesa. Questo errore negava l'assoluta necessità della grazia di Dio e del Santo Battesimo per la salvezza degli uomini, mentre le Scritture dicono: "Se uno non nasce di nuovo dall'acqua e dallo Spirito Santo, non può entrare nel regno di Dio" (Gv 3,5). Ora, mentre essi passavano per quel luogo e una vasta folla si affrettò a uscire dalla chiesa per ottenere la loro benedizione al loro passaggio, San Germano vide in spirito, in mezzo alla moltitudine, che Genoveffa sarebbe divenuta una grande santa. Chiedendo che le venisse portata innanzi, la baciò sul capo e chiese alla folla il suo nome, e di chi fosse figlia. Il suo nome fu annunciato, e i suoi genitori chiamati a presentarsi. San Germano chiese loro: "Questa giovane è vostra figlia?" Essi dissero: "È nostra figlia, Domine." San Germano disse loro: "Siete benedetti a essere i genitori di una discendenza così venerabile. Sappiate che alla sua nascita un mistero di grande gioia ed esultanza è stato celebrato dagli angeli. Ella sarà grande di fronte al Signore, e molti, vedendo la sua santa vita e vocazione, abbandoneranno il male, e le cose stolte e svergognate, e ricondurranno la loro vita al Signore, e riceveranno da Cristo la remissione dei loro peccati e la ricompensa della vita." Quindi disse a Genoveffa: "Figlia mia Genoveffa," ed ella rispose "La tua ancella ti ascolta, santo padre: dimmi ciò che mi comandi." San Germano le disse: "Non vorrei che tu esitassi a dirmi se desideri mantenere il tuo corpo immacolato e intatto per Cristo come sua sposa, facendoti consacrare come monaca." Genoveffa gli rispose: "Benedetto sei tu, padre mio, che ti sei compiaciuto di chiedermi se desidero fare ciò che è proprio la mia speranza. Io lo desidero, santo padre," disse, "e prego che il Signore si compiaccia di portare la mia devozione a compimento." San Germano le disse: "Abbi fiducia, figlia, agisci con coraggio, e possa tu essere sincera nelle tue azioni, in quanto credi nel tuo cuore, e in quanto pronunci con la tua bocca."

Ora, arrivati in chiesa, mentre stavano celebrando il ciclo spirituale [degli offici], la nona e la dodicesima ora, San Germano le tenne continuamente la mano sul capo. Dopo avere preso cibo e detto una preghiera, egli ordinò a Severo di portare a casa sua figlia, e di ritornare con lei alle prime luci del giorno, prima che riprendesse il suo lungo viaggio. Mentre la pallida luce dell'alba iniziava a diffondersi sulla terra, ella fu condotta dal padre, e San Germano le disse, "Ave, Genoveffa, figlia mia. Ti ricordi quanto mi hai promesso ieri riguardo alla verginità del tuo corpo?" Genoveffa gli rispose: "Ricordo quanto ho promesso a Dio e a te, santo padre: desidero mantenere incontaminata la castità della mente e del corpo, con l'aiuto di Dio, fino alla fine." San Germano, colpito dal dono di Dio e dalla fede perfetta della fanciulla, tenne gli occhi a terra mentre ella parlava. Ora accadde che vi fosse una moneta che giaceva vicino ai suoi piedi, e aveva sopra stampigliata una croce: egli la prese, ordinandole di portarla sempre al collo. La esortò anche a mantenersi libera da ornamenti d'oro, d'argento e di perle. "Se infatti la bellezza fugace di questo mondo ti conquisterà la mente, ti troverai priva di quegli ornamenti che sono celesti ed eterni." Prendendo commiato da lei, chiedendole di ricordarlo nelle sue preghiere, e raccomandandola a suo padre Severo, completò con l'aiuto di Dio il viaggio che aveva iniziato.

 

Sua madre è punita da Dio

Avvenne, dopo diversi giorni, che quando sua madre era sul punto di andare in chiesa in un giorno di festa solenne, e aveva ordinato a Genoveffa di rimanere a casa, che non si riuscisse a lenire i suoi pianti e le sue lacrime. La fanciulla diceva infatti: "La fedeltà che ho promesso al santo Germano, la manterrò, e Cristo mi consolerà, e frequenterò la soglia della chiesa, per essere trovata degna di essere sposa di Cristo, come il beatissimo confessore mi ha promesso a sua volta." Sua madre, colma d'ira, colpì la figlia, e immediatamente i suoi occhi furono privati dell'abilità di vedere. Per un anno e nove mesi, per volontà della maestà di Dio, fu afflitta da questa cecità per manifestare la grazia che Genoveffa aveva. Giunse un giorno in cui, ricordando ciò che il grande ierarca aveva detto di sua figlia, la chiamò a sé e le chiese, "Ti prego, figlia mia, prendi un secchio e vai al pozzo, e portami dell'acqua." E quando fu giunta in tutta fretta al pozzo, pianse sull'orlo del pozzo poiché la madre aveva perso la vista, e quando smise di piangere, riempì il recipiente e portò l'acqua alla madre. Soffiando su di esso, Genoveffa lo sigillò con la potenza della Croce, e lo diede a sua madre. La madre, stendendo le mani al cielo con fede e venerazione per l'acqua, ne bevve. Poco dopo, iniziò a tornarle la vista. Ripetendo questo gesto per due o tre volte, la vista che aveva perso le fu completamente resa.

 

La rivelazione del vescovo Iulico

Accadde che, con due fanciulle molto più anziane di lei, Genoveffa andò dal vescovo Iulico per ricevere la consacrazione. Quando gli furono portate le fanciulle in ordine di età, quel santo ierarca fu informato divinamente che Genoveffa era molto più elevata in rettitudine delle altre, e disse: "La fanciulla che viene per ultima è di maggior statura, dato che ha già ricevuto la santificazione dall'alto." E così esse ricevettero la benedizione del vescovo e partirono.

 

La sua afflizione e la visione sublime

Col tempo, dopo la morte dei suoi genitori, la beata Genoveffa andò a vivere a Parigi. E perché il potere del Signore potesse essere provato nella sua infermità, e perché la grazia di Cristo che era su di lei brillasse con maggiore radianza, il suo corpo fu preso da una paralisi, tale da farle perdere l'uso dei suoi arti. Afflitta da questa infermità, per tre giorni apparve priva di vita, e solo le sue ginocchia avevano un poco di colore. Quando alla fine ricuperò la salute del corpo, dichiarò di essere stata condotta in spirito da un angelo al luogo di riposo dei giusti, e di avere contemplato là le ricompense preparate per coloro che amano Dio, che sono considerate incredibili dai privi di fede.

 

Intuito nei cuori degli uomini

Molte volte ella rivelò con chiarezza ciò che era nelle coscienze di quanti vivevano in questo mondo. O tutti voi che la invidiate! Sarebbe meglio che rimaneste in silenzio, poiché i mali della vostra coscienza si rivelano nel vostro risentimento verso i giusti.

 

Seconda visita di San Germano

Quando San Germano ritornò a Parigi, in partenza per un ulteriore viaggio per la Britannia, tutta la città venne a incontrarlo sulla strada. Ed egli, preoccupato per Genoveffa, chiese cosa stesse facendo. Un uomo volgare prese la parola, dicendo che ella non era all'altezza dell'opinione che il vescovo aveva di lei. Per mostrare la completa vanità delle parole di quell'uomo, il santo ierarca entrò in città e si diresse alla dimora di Genoveffa. E la salutò con un'umiltà tanto grande, che tutti ne rimasero stupefatti. Dopo aver pregato, mostrò a coloro che la disprezzavano il suolo della camera nascosta della sua dimora, che era stato inondato dalle sue lacrime di preghiera. Sedutosi, parlò degli inizi della sua vita con le stesse parole che aveva apertamente usato a Nemetodorensis. E quindi, dopo averla raccomandata al popolo, partì nuovamente.

 

Attila l'Unno

In seguito, corse voce per tutta la Gallia che Attila, re degli Unni, stava arrivando a mettere selvaggiamente il paese a ferro e fuoco. Terrificati, i cittadini di Parigi decisero di accumulare i loro averi in qualche città più sicura. Ma Genoveffa chiamò a raccolta le donne, persuadendole a stare in digiuni, preghiere e vigilie, in modo che potessero scampare al disastro come Giuditta ed Ester. Acconsentendo alle richieste di Genoveffa, passarono diversi giorni nel battistero, sforzandosi di tenere vigilie, digiuni e preghiere. E agli uomini ella diede l'avviso di non spostare i loro beni da Parigi, dicendo che le città considerate più sicure dalla gente sarebbero state saccheggiate, ma Parigi sarebbe rimasta intatta per grazia di Cristo. Tuttavia, un'orda di parigini si sollevò contro di lei, chiamandola pseudo-profetessa a causa del suo consiglio di non spostare i propri averi. Essi decisero di punirla uccidendola per lapidazione o per annegamento. Nel frattempo, arrivò un arcidiacono da Auxerre, uno di quelli che avevano udito San Germano dare la sua magnifica testimonianza riguardo a Genoveffa. Trovando i cittadini radunati in diversi luoghi, e apprendendo del loro desiderio di metterla a morte, disse loro: "O cittadini! Non permettete un crimine così atroce. Colei che state ora complottando per uccidere, abbiamo udito nelle parole del santo Germano, nostro vescovo, che è stata scelta da Dio fin dal grembo di sua madre. E guardate, io le sto portando questo pane benedetto che le è stato inviato dal santo Germano." I parigini, ricordandosi della testimonianza di San Germano, e vedendo il pane benedetto portato dall'arcidiacono, intimoriti da Dio e meravigliandosi delle cose che l'arcidiacono aveva detto, abbandonarono i loro progetti depravati.

 

Pari ai Santi Martino e Aniano

In quel giorno si compì il detto dell'Apostolo, "Non di tutti infatti è la fede. Ma il Signore è fedele; egli vi confermerà e vi custodirà dal maligno" (2 Ts 3,3). I nobili vescovi Martino e Aniano sono altamente lodati, e gli uomini si meravigliano delle loro virtù, dato che il primo decise di andare all'indomani disarmato sul campo di battaglia, e ottenne in questo modo che si stabilisse la pace tra due campi rivali; l'altro invece riuscì con la forza delle sue preghiere a custodire la città di Arles dall'esercito degli unni da cui era circondata. Ma Genoveffa non è degna di essere onorata, dato che con le sue preghiere mandò immediatamente via il suddetto esercito, che non fu neppure capace di accerchiare Parigi?

 

Il suo grande ascetismo

Dal quindicesimo al cinquantesimo anno della sua vita, Genoveffa non rilassò mai il suo digiuno dalla domenica fino al giovedì, e ancora dal giovedì fino alla domenica. Prendendo un poco di cibo in questi due giorni consacrati, la domenica e il giovedì, passava il resto della settimana in astinenza dal cibo. E il suo cibo erano pane d'orzo e fagioli, vecchi di due o tre settimane, che faceva cuocere assieme in una pentola. Ma per tutta la vita non bevve vino né bevande inebrianti. Dopo il suo cinquantesimo anno di vita, iniziò a prendere pesce e latte assieme al suo pane d'orzo, su richiesta dei vescovi. Infatti considerava sacrilego contraddirli, temendo il detto del Signore: "Colui che ascolta voi, ascolta me, e colui che disprezza voi, disprezza me" (Lc 10,16).

 

Come il Protomartire Stefano

Tutte le volte che guardava verso il cielo piangeva, poiché era pura di cuore. Come l'evangelista Luca descrive il beatissimo Stefano, così anch'ella, si credeva, vedeva i cieli aperti, e il nostro Signore Gesù Cristo in piedi alla destra del Padre, poiché la promessa enunciata dal Signore rimane intatta: "Beati i puri di cuore, poiché vedranno Dio" (Mt 5,8)

 

Le sue "compagne"

Vi sono dodici "vergini" che Erma, detto il Pastore, citava nel suo libro come sue compagne: Fede, Astinenza, Pazienza, Magnanimità, Semplicità, Innocenza, Armonia, Carità, Disciplina, Castità, Verità e Prudenza. Queste erano inseparabili da Genoveffa.

 

Genoveffa fa costruire la Basilica di San Dionigi

Non penso che dovrei rimanere in silenzio riguardo alla venerazione e alla dedizione con cui ella amava il villaggio di Catholiacensis, in cui San Dionigi, assieme ai suoi compagni Rustico ed Eleuterio, soffrì il martirio e fu sepolto. La devozione della beata Genoveffa verso di lui era infatti fervida, ed ella desiderava erigervi una basilica in onore del santo ieromartire. Ma era priva di mezzi. Un giorno, mentre i preti della città le passavano accanto, si rivolse a loro così: "Miei venerabili santi padri e anziani in Cristo, vi prego di istituire una raccolta di fondi, in modo che si possa costruire una basilica in onore di San Dionigi. Nessun uomo infatti dubita che il suo tempio incuta timore e tremore." Ed essi le risposero: forse mancherà alla nostra umiltà l'abilità di costruire, poiché mancano i mezzi per cuocere la calce." Ella ricolma di Spirito Santo, con un volto radioso, disse loro, profetizzando nella sua mente ancor più radiosa: "Andate, ve ne supplico, e camminate sul ponte della città, e riportatemi parola delle cose che udrete."

Quando essi furono per strada, rimasero in attesa di udire qualcosa che avesse attinenza con i desideri della vergine consacrata. Ed ecco, due mandriani di porci, non lontani da loro, si dicevano l'un l'altro: "mentre seguivo le tracce di un animale che si era allontanato, ho trovato un forno da calce di enormi dimensioni." E l'altro mandriano rispondeva, "Anch'io ho trovato nella foresta un albero sradicato abbattuto dal vento, e sotto le sue radici un simile forno da calce, dal quale credo non manchi nulla." All'udire queste cose, i presbiteri guardarono in alto e fissarono i loro occhi ai cieli per la gioia, e benedissero Dio, che si era compiaciuto di offrire una tale grazia attraverso la sua ancella Genoveffa. Trovando i luoghi dove erano i forni da calce, i presbiteri tornarono a raccontarle tutto ciò che avevano appreso dai mandriani dei porci. Da parte sua, ella inondò il suo grembo di lacrime di gioia, e quando i presbiteri ebbero lasciato la sua casa, si mise con le ginocchia fisse a terra e passò l'intera notte in preghiere e lacrime, supplicando Dio di concederle il suo aiuto, perché fosse in grado di costruire la basilica di San Dionigi.

Dopo il termine della sua veglia, alle prime luci dell'alba, si recò dal presbitero Genesio, e lo implorò di costruire la basilica in onore del santo martire. Lo informò pure delle provviste di calce che Dio aveva fornito. Ed egli pieno di timore cadde a terra, venerando Genoveffa con una prosternazione, e promise che avrebbe lavorato notte e giorno per completare ciò che ella gli aveva comandato. Alle suppliche di Genoveffa, tutti i cittadini diedero il loro aiuto, e in onore di San Dionigi fu costruita una basilica di grande altezza.

 

Un miracolo per i lavoratori

È anche degno di nota ricordare quali miracoli il Signore abbia operato attraverso di lei. Quando i carpentieri furono radunati, e avevano bisogno di legname, alcuni andarono verso le foreste a monte a raccogliere il legname, mentre altri lo trasportavano su carri, e mentre così facevano la loro scorta di bevande si esaurì. E Genoveffa non sapeva di questa mancanza di bevande. Genesio il presbitero le rese nota questa necessità, ed ella chiese il recipiente in cui le bevande dei lavoratori erano raccolte. Quando questo le fu portato, ella chiese a tutti di ritirarsi. E fissando le ginocchia a terra, effondendo lacrime, una volta che percepì che la sua preghiera era stata ascoltata, terminò la preghiera, si alzò, e fece il segno della croce sul recipiente. Mirabile a dirsi, immediatamente la vasca fu piena di bevanda fino all'orlo, e fintanto che la basilica fu in costruzione, i lavoratori ne bevvero in abbondanza, rendendo grazie a Dio.

 

Le candele si accendono al mero tocco della sua mano

Genoveffa aveva la devozione di tenersi desta in vigilia ogni sabato notte fino all'alba del primo giorno della settimana, secondo la tradizione del Signore, come una serva che attende il suo padrone quando questi ritorna dal banchetto nuziale. Una volta, dopo una notte tempestosa, quando il canto del gallo annunciò che era il nuovo giorno - il giorno del Signore - ella uscì dalla sua dimora, per recarsi con le altre vergini alla basilica di San Dionigi. E avvenne che la candela che era di fronte a loro si spense. Le vergini che erano con lei erano sconvolte dalla paura del buio e della tempesta, ma la santa Genoveffa chiese che le fosse portata la candela che si era spenta. Quando la prese in mano, essa si accese immediatamente, ed ella la portò nella basilica. Questo prodigio ebbe luogo altre due volte; un giorno infatti era entrata in chiesa e si era prosternata a lungo da sola, e al termine della preghiera si rialzò dal suolo, e una candela che mai aveva toccato fuoco si accese al tocco della sua mano per comando di Dio. Dicono anche che nella sua cella una candela si sia accesa al mero tocco della sua mano, e attraverso quella candela molti malati che, motivati dalla fede, la stingevano nelle mani anche per un breve istante, furono riportati in salute.

 

La ladra accecata

Una certa donna rubò furtivamente le scarpe della vergine, e appena arrivò a casa perse all'improvviso la vista. Comprendendo che l'offesa fatta a Genoveffa veniva puntia dal cielo, ella fu portata con l'aiuto di altri da Genoveffa, tenendo le scarpe nelle mani. E cadendo ai suoi piedi, implorò il suo perdono e il ritorno della sua vista. Genoveffa, con molta bontà, le diede la mano, la sollevò dal suolo, e facendole il segno della Croce sugli occhi, le ridiede la sua facoltà di vedere.

 

La ragazza paralitica

Nella città di Lione si possono raccontare molti miracoli operati dal Signore attraverso di lei. Mentre Genoveffa si avvicinava alla città, ma ne era ancora distante, gran parte degli abitanti uscì a incontrarla, inclusi i genitori di una certa ragazza che era afflitta da nove anni da una paralisi che non le lasciava muovere le membra. Alle suppliche dei genitori della ragazza e degli anziani del popolo, Genoveffa si recò alla casa della ragazza. Dopo aver pregato, toccò gli arti inerti, e le ordinò di vestirsi e di mettersi le scarpe con le proprie mani. E alzandosi dal letto, la ragazza ormai interamente guarita la accompagnò in chiesa assieme con l'altra gente.

Quando le folle ebbero visto questo miracolo, benedissero il nostro Signore Gesù Cristo, che aveva concesso una grazia tanto grande a quanti lo amano. E quando Genoveffa lasciò quella città, la gente la accompagnò per la strada cantando ed esultando.

 

Mirabile liberazione dei condannati

Non so come descrivere la venerazione con cui la considerava Childerico, re dei Franchi. Era tanto grande che un giorno, in cui egli aveva stabilito di mettere a morte alcuni prigionieri, li condusse fuori della città di Parigi, perché Genoveffa non cercasse di condurli dalle catene alla salvezza, e comandò che venissero chiusi i cancelli. Ma quando qualcuno avvisò Genoveffa delle deliberazioni del re, costei uscì subito a liberare quelle anime. Fu uno spettacolo non da poco di fronte all'inimorita popolazione della città quando, al tocco delle sue mani, il grande cancello della città si spalancò senza l'uso delle chiavi. E così, raggiunto il re, ella chiese e ottenne che i prigionieri non venissero decapitati.

 

San Simeone lo Stilita chiede le sue preghiere

Vi era un certo santo nei paesi dell'Oriente, un grande disprezzatore del mondo, di nome Simeone, che dimorò per circa quarant'anni su una colonna in Cilicia, a poca distanza da Antiochia. Dicono che seppe di lei in spirito, e fu sempre sollecito nel chiedere ai mercanti, che viaggiavano verso la Gallia e tornavano in Siria, di portargli notizie di Genoveffa. Di fatto, le mandava saluti con profondissima venerazione, e la supplicava con urgenza di ricordarlo nelle sue preghiere.

 

La liberazione di Cilinia

Una certa fanciulla che era giovane e già promessa sposa, di nome Cilinia, quando scoprì la grazia di Cristo che abbondava in Genoveffa, chiese di poter prendere l'abito [monastico]. Quando il giovane a cui era stata promessa lo seppe, fu ricolmo di indignazione, e giunse alla città di Meaux, dove Cilinia dimorava con Genoveffa. Appena le due giovani seppero che l'uomo era arrivato, andarono in chiesa in tutta fretta. L'evento fu un miracolo, poiché quando esse fuggirono nel battistero, che era all'interno della chiesa, questo si chiuse a chiave da solo. E così la suddetta fanciulla, liberata dal naufragio e dalla contaminazione di questo mondo, perseverò sino alla fine in temperanza e castità.

 

Guarigione della serva di Cilinia

Circa allo stesso tempo, Cilinia portò da Genoveffa un'ancella che l'aveva servita, e che era ammalata da quasi due anni, tanto che aveva perso l'uso dei piedi. Quando Genoveffa la toccò con le sue mani, ella ritrovò immediatamente la salute.

 

Genoveffa libera molti dai demoni

Accadde che a Parigi, la sua città, le portarono dodici anime, di uomini e donne, che erano gravemente ossesse da demoni. Subito, Genoveffa invocò Cristo chiedendogli di venirle in aiuto, e si mise in preghiera. A quel punto i posseduti furono sospesi in aria, in tal modo che le loro mani non toccavano il soffitto, né i loro piedi toccavano il suolo. E quando ella si rialzò dalla preghiera, comandò loro di andare alla basilica del santo martire Dionigi. Ma i posseduti gridarono che non avrebbero potuto camminare in alcun modo, se prima ella non li avesse liberati. E così Genoveffa li segnò con la Croce, e con le braccia conserte dietro la schiena e le lingue ammutolite, essi si misero in cammino verso la basilica del Martire, E seguendoli per circa due ore, anch'ella arrivò alla fine alla basilica. Là, quando ella iniziò a pregare, com'era sua abitudine, gettandosi sul pavimento e rimanendo là tra le lacrime, i posseduti fecero un terribile rumore con grida insopportabili, dicendo che erano ora arrivati coloro a cui Genoveffa si rivolgeva per avere consolazione - forse gli angeli, o i martiri, o certi santi che le venivano in aiuto. Quindi si presentò il Signore stesso, che "è vicino... a tutti quanti lo cercano con cuore sincero" (Ps 144,19), poiché "appaga il desiderio di quanti lo temono" (ibid., 20), e "ascolta il grido dei giusti e li salva" (ibid., 20). E Genoveffa, rialzatasi dalla preghiera e segnandoli uno per uno, liberò tutti coloro che erano stati posseduti da spiriti immondi. E allo stesso tempo, tutti i presenti sentirono un orribile fetore, che ebbe luogo perché tutti potessero credere che le anime erano state davvero purificate e guarite dalla vessazione dei demoni. E per un miracolo tanto prodigioso, tutta l'assemblea magnificò il Signore.

 

Le sono trasparenti i peccati degli uomini

Un giorno giunse da lei in viaggio dalla città di Bourges fino a Parigi, una certa fanciulla che dopo la consacrazione del suo corpo (infatti era stata fatta monaca) aveva violato i voti, ma che gli uomini ritenevano senza macchia. Genoveffa le chiese se fosse stata consacrata vergine, oppure vedova. Ed ella rispose che era stata consacrata come monaca, e che offriva degno servizio a Cristo con un corpo inviolato. Al contrario Genoveffa rivelò il luogo, il tempo e l'uomo stesso da cui il suo corpo era stato violato. E colei che si era professata invano sposa di Cristo, pentendosi in coscienza, si gettò subito ai piedi di Genoveffa.

Potrei raccontare molte cose simili riguardo a varie persone, ma a causa del tempo che questo prenderebbe, preferisco mantenere il silenzio.

 

Il bambino Cellomero

Dopo non molto tempo una donna che Genoveffa aveva liberata da un fastidioso demone era con lei. Ora, suo figlio aveva quattro anni, ed era caduto per disgrazia in un pozzo, e dopo essere stato immerso per quasi tre ore, fu tirato fuori da sua madre, che con gemiti e lamenti e con un aspetto distrutto lo depose morto ai piedi di Genoveffa. Costei lo prese e lo coprì con il suo velo, quindi si prosternò in preghiera, non cessando di pregare finché lo stato di morte non lasciò il bambino. Era il tempo della Quaresima, e il bambino, fatto catecumeno, fu istruito nella fede cattolica e battezzato alla vigilia di Pasqua. Fu chiamato Cellomero, poiché fu nella cella di Genoveffa che riebbe indietro la vita che aveva perduto.

 

L'uomo dalla mano inaridita

Nella città di Meaux corse a incontrarla un uomo con una mano inaridita, supplicandola di ridargli la salute. E così, prendendo la sua mano disseccata, e rafforzando la struttura delle sue dita e il suo braccio menomato con il segno della Croce, Genoveffa gli restituì l'uso della mano nello spazio di mezz'ora.

 

La visitatrice curiosa

Dal giorno santo dell'Epifania fino al giorno chiamato Natività del Calice, o della Cena del Signore [Giovedì Santo], era abitudine della beata Genoveffa di rimanere rinchiusa e sola nella sua piccola cella, per poter servire più liberamente Iddio solo, con preghiere e vigilie. Un giorno venne da lei una certa dona motivata più dalla curiosità che dalla fede, che voleva sapere e poter raccontare ciò che Genoveffa faceva nella sua cella. Appena quella donna si accostò al suo uscio, perse la vista. Non so la ragione per cui le capitò questa punizione, ma alla conclusione della Quaresima Genoveffa uscì dalla sua cella, e con preghiere e con il segno della Croce le restituì la vista.

 

L'albero abitato dai demoni

Giunse il tempo in cui Parigi, per un periodo di dieci anni, fu sottoposta a blocco da parte dei Franchi. E sulla città cadde una tale fame che non poche persone morirono di stenti. E avvenne che Genoveffa fosse alla città di Arciacum, dove era giunta per comprare riserve di grano.

Quando giunse vicino al punto sulle rive della Senna dove si trovava un albero che aveva causato dei naufragi, chiese ai marinai di avvicinarsi alla riva e di abbattere l'albero. Con i colpi dei marinai, e Genoveffa che pregava, l'albero fu divelto alle radici. E subito ne uscirono due mostri di diversi colori, e per quasi due ore i marinai furono tormentati dall'orribile odore che ne promanava. Ma da quel momento, in quel punto non vi furono più naufragi.

 

La donna paralizzata

Quando Genoveffa entrò nella città di Arciacum, le venne incontro un certo tribuno di nome Passivo, che la supplicò di ridare la salute a sua moglie, che per un certo tempo era bloccata da una paralisi debilitante. E di questo la supplicarono anche gli anziani della città. Entrata nella sua casa, ella andò al letto della donna ammalata, e immediatamente, com'era sua costante abitudine, si mise a pregare. Al termine della preghiera, e dopo avere rafforzato la donna con il segno della Croce, le disse di alzarsi dal letto. Senza indugio la donna che, stando a quanto attestano, era stata immobilizzata dalla sua malattia per quasi quattro anni, e che era incapace anche di camminare da sola, si alzò dal letto completamente guarita al comando di Genoveffa. A causa di questo miracolo pubblico, tutti magnificarono il Signore, "che è mirabile nei suoi santi" (Ps 67:35).

 

Una moltitudine di ammalati; una ragazza cieca

Quando giunse alla città di Troyes, le venne incontro una moltitudine di persone che portavano i loro malati. Genoveffa, segnadoli e benedicendoli, li rese integri e sani. In quella stessa città le fu portato un uomo che aveva lavorato nel giorno del Signore, e che di coseguenza era stato accecato per retribuzione divina, e anche una ragazza, pure lei cieca, di circa dodici anni d'età. Dopo avere tracciato il segno della Croce sui loro occhi, e dopo avere invocato l'indivisa Trinità, Genoveffa restituì loro la vista.

 

Il figlio del suddiacono

Un certo suddiacono, vedendo i grandi miracoli da lei operati, le portò suo figlio, che era stato gravemente afflitto per dieci mesi da brividi di febbre. Genoveffa si fece portare dell'acqua, che prese e segnò con l'emblema della Croce, dopo aver chiamato il nome del Signore, quindi glie la diede da bere. E per la grazia del Signore Gesù Cristo egli fu immediatamente guarito.

 

I fili dei suoi abiti procurano guarigioni

In quei tempi molti che erano pieni di fede, portando con loro fili dei suoi indumenti, furono guariti da una varietà di malattie. E molti che erano posseduti da demoni furono da lei purificati.

 

Una tempesta sedata

E così, quando rientrò da Arciacum, dove era stata per un certo numero di giorni, la moglie del tribuno che aveva riavuto la salute grazie a lei l'accompagnò finché si imbarcò sulla nave. E a coloro che stavano rientrando con la nave accadde quanto segue. Il vento stava spingendo pericolosamente la nave verso scogli e alberi, i contenitori del cibo furono rovesciati, e la nave prese a imbarcare acqua. Allora Genoveffa chiese aiuto a Cristo con le mani levare al cielo, e le navi tornarono sulla loro rotta. Così il nostro Dio e Signore, attraverso di lei, salvò undici navi cariche di cibo. Quando il presbitero Besso (che era rimasto tanto spaventato che 'il calore abbandonò le sue ossa') vide tutto ciò, fu colmo di gioia, e cantò a chiara voce, dicendo che "Il Signore è divenuto per noi aiuto e protezione per la salvezza" (Cf. Es 15,2) E tutti quanti erano con lui elevarono le loro voci al cielo, cantando il cantico dell'Esodo (Es 15), e magnificarono Dio che li aveva salvati.

 

Come Genoveffa diede sollievo agli affamati

Rientrata dunque nella città di Parigi, Genoveffa distribuì le scorte di grano a tutti secondo le loro necessità. E diede preferenza ad alcuni che erano privi di forze a causa del loro bisogno, così che sepesso le fanciulle al suo servizio correvano al forno e non vi trovavano parte del pane che vi avevano depositato, poiché la maggior parte era già stato distribuito ai poveri. Ed esse scoprirono presto la causa dei pani mancanti, quando videro i bisognosi della città portare pani appena usciti dal forno, e insieme benedire a gran voce il nome di Genoveffa. Ella infatti non riponeva la sua speranza nelle cose visibili, ma in quelle invisibili. In lei si compiva la parola del profeta: "Chi fa la carità a un povero fa un prestito al Signore" (Prov 19,17). Per rivelazione dello Spirito Santo, ella aveva visto quella terra dove coloro che donano ai poveri cercano il proprio tesoro, e ogni volta che riteneva di essere stata visitata nel corpo dal Signore, sotto forma di uno straniero da lei aiutato, piangeva in continuazione.

 

Fruminio di Meaux

Un certo ufficiale della città di Meaux, di nome Fruminio, aveva sofferto da quattro anni di un blocco dei canali delle sue orecchie, quando cercò Genoveffa a Parigi, e la supplicò di ridargli l'udito con un tocco della sua mano. E appena ella lo ebbe segnato, toccando le sue orecchie con la mano, egli riebbe istantaneamente l'udito, e benedì il nostro Signore Gesù Cristo.

 

La fanciulla Claudia

I miracoli da lei compiuti nella città di Arles non dovrebbero mancare dalla nostra cronaca. Una donna di nome Fraterna, madre di una fanciulla di nome Claudia, era disperata per la vita della figlia, che era prossima alla morte. Si affettò da Genoveffa per farle una richiesta per la figlia, e la trovò in preghiera nella basilica del santo vescovo Aniano. Caduta ai suoi piedi, e lamentandosi, disse solo queste parole: "O Signora Genoveffa, fammi riavere mia figlia." Si dice che Genoveffa, quando vide la sua fede, abbia risposto: "Cessa di importunarmi; tua figlia è tornata in perfetta salute." Con gioia, Fraterna si rialzò e assieme a Genoveffa tornò alla sua dimora. Per mirabile potenza di Dio, Claudia fu guarita, e richiamata dalle porte dell'inferno così all'improvviso che si mise a servire Genoveffa a casa propria, in perfetta salute. E tutta una folla magnificò il Signore per la salute improvvisa data a Claudia attraverso la rettitudine di Genoveffa.

 

Il padrone ostinato

Avvenne che nella stessa città ella supplicò un certo uomo di perdonare un suo servo che aveva commesso una colpa. Ma egli, indurito dall'orgoglio e dall'ostinazione, non volle perdonarlo affatto." Ella gli disse queste parole: "Anche se tu mi hai disprezzato quando ti supplicavo, il mio Signore Gesù Cristo non mi disprezza, poiché è compassionevole e misericordioso nel perdono." E quando quell'uomo ritornò a casa, fu preso da una tale febbre che non poté riposare per tutta la notte, ansimando e bruciando. Il giorno dopo, al mattino presto, gli si aprì la bocca che prese a schiumare. Gettandosi ai piedi di Genoveffa, chiese per sé il perdono che il giorno prima aveva negato al suo servo. La santa Genoveffa lo segnò, e la febbre e la malattia lo lasciarono: così il padrone fu rafforzato nell'anima e nel corpo, e il servo fu perdonato. Senza dubbio fu un Angelo del Signore ad affliggerlo, nello stesso modo di cui si legge a proposito dell'ebreo Aniciano, un uomo molto ostinato, alla cui porta si era presentato San Martino, supplicandolo a favore di certi uomini in catene. I libri dicono che gli fu inflitto un castigo da un Angelo del Signore, che lo fece correre fuori della sua casa e da San Martino, accordandogli ogni sua richiesta.

 

I posseduti di Tours

Viaggiando verso Tours, Genoveffa patì molte tribolazioni sul fiume Loira. Ci sono circa seicento stadi da Arles a Tours, che è chiamata la terza Lione. E quando ella giunse al porto della città di Tours, una folla di posseduti le corse incontro dalla basilica di San Martino, mentre gli spiriti più malvagi gridavano che tra i santi Martino e Genoveffa erano arsi come tra le fiamme. Inoltre confessarono che le molte prove a lei capitate sulla Loira erano stati loro a inviarle per invidia. Intanto Genoveffa, entrata nella basilica di San Martino, purificò molti dei posseduti dai demoni attraverso la preghiera e il segno della Croce. Coloro dai quali se ne erano andati i demoni dicevano che nell'ora del loro tormento erano stati bruciati dalle dita delle mani di Genoveffa, come se fossero state candele accese a un fuoco dal cielo che brucia tutto intorno, ed era per questo che avevano urlato così terribilmente e fatto gesti così selvaggi.

 

Casalinghe importunate dai demoni

Giunsero da lei tre uomini, le cui mogli erano evidentemente importunate da demoni nelle loro case, e la pregarono di liberarle dagli spiriti malvagi facendo loro visita. Genoveffa, con la sua abituale cortesia, li seguì, entrò in ogni casa, pregando e ungendole con olio benedetto. E purificò le donne dai demoni.

 

Il cantore posseduto

Tre giorni dopo, mentre Genoveffa stava in vigilia nella basilica di San Martino, pregando in un angolo, e benediceva e lodava il Signore, restando in mezzo alla congregazione per non essere riconosciuta, le si avvicinò dall'abside uno dei cantori, posseduto da un demone, che si torceva i propri arti, pensando nella sua insanità che appartenessero ad altri. E quando Genoveffa ordinò allo spirito impuro di uscire dal corpo dell'uomo, e lo spirito minacciò che sarebbe uscito dall'occhio, a un comando di Genoveffa fu trasportato con un flusso dalle sue viscere, lasciando una traccia repellente. E senza indugio, apena il demone fu scacciato, l'uomo liberato fu lavato e ripulito. Allora tutti la riverirono con grandi onori ogni volta che entrava o usciva.

 

Il diavolo può correre, ma non può nascondersi

Più o meno allo stesso tempo, stando alla porta di casa sua, vide una certa giovane che passava con una giara in mano. Chiedendole di avvicinarsi, Genoveffa le chiese cosa stesse portando. Ed ella disse: una giara per liquidi, che mi hanno appena venduto alcuni mercanti." Ma Genoveffa, veduto il nemico del genere umano seduto sulla bocca della giara, lo minacciò, soffiò nella giara, e subito una parte della bocca della giara si spezzò e cadde. Quindi, segnando la giara, disse alla ragazza di proseguire. Vedendo ciò, la gente si stupiva, poiché il diavolo non riusciva mai a nascondersi da lei. 

 

Il bambino Maroveo

Un bambino piccolo, di nome Maroveo, fu portato dai suoi genitori a Genoveffa, cieco, sordomuto e paralitico. Ungendolo con olio benedetto, ella lo fortificò anche con il segno della Croce. E in questo modo la sua infermità fu sanata, ed egli fu in grado di camminare come un bambino sano, e ricuperò interamente la vista, l'udito e la parola.

 

Un raccolto in pericolo

Un'altra volta, nella regione della città di Meaux, dove erano riuniti quelli che lavoravano al raccolto, e anche Genoveffa stava occupandosi del proprio raccolto, i raccoglitori furono seriamente turbati dall'imminente vicinanza di una tempesta. Subito Genoveffa, secondo la sua consueta abitudine, entrò nella sua tenda e si stese al suolo iniziando a pregare con lacrime. Cristo mostrò il suo mirabile potere a tutti quanti erano lì a osservare, perché la pioggia inzuppò tutti i campi dell'area, ma non una goccia cadde sul campo di Genoveffa, e su quanti vi lavoravano al raccolto.

 

Il clima tempestoso calmato

Avvenne quindi che, mentre una barca navigava sulla Senna, il clima, come spesso accade, cambiasse all'improvviso. Anche se era stato sereno, iniziò a svilupparsi una tempesta, e la piccola nave fu tanto sbattuta dal vento da essere quasi coperta dalle onde. Ma Genoveffa guardò al cielo, estese le mani e invocò l'aiuto del Signore. La tempesta si calmò in modo tanto istantaneo che tutti credettero che Cristo stesso fosse giunto a comandare ai venti e alle onde.

 

Riempimento miracoloso dell'olio

Genoveffa guariva sempre i malati ungendoli con olio benedetto. Un giorno desiderava ungere un uomo tormentato da un demone, ma l'ampolla dove teneva il suo olio benedetto le fu portata vuota. Allora la santa ancella di Dio Genoveffa fu terribilmente turbata, ed esitò, non sapendo che cosa fare, dato che il vescovo che benediceva per lei l'olio era assente. Così si prosternò a terra pregando che le fosse portato un aiuto dal cielo per liberare il sofferente. All'istante in cui si alzò dalla preghiera, l'ampolla nelle sue mani si colmò di olio. E così nella stessa ora due miracoli furono compiuti per opera di Cristo: l'olio che a lei mancava fu ricolmato mentre teneva l'ampolla vuota nelle mani, e il posseduto, unto con questo olio, fu liberato dal tormento del demone.

Diciotto anni dopo il suo riposo, quando vidi io stesso in quell'ampolla l'olio che si era moltiplicato con la sua preghiera, mi decisi a mettere per iscritto la sua vita.

 

Il suo riposo nel Signore

Per quanto riguarda il resto della sua vita, e la gloria del suo funerale, ho deciso di mantenere il silenzio per brevità. Genoveffa si addormentò nel Signore a età matura e avanzata, colma di virtù e di miracoli, e dopo avere dimorato per oltre otto decenni nel corpo in questo mondo, si dipartì verso il Signore, e fu sepolta in pace il terzo giorno delle none di gennaio.

 

L'uomo con un calcolo

Un certo uomo di nome Prudente ricevette aiuto e consolazione sulla tomba di Genoveffa, e penso che non sia sbagliato parlarne ai fedeli, per venerazione alla soglia del suo riposo. Egli era così ammalato per un calcolo renale che la sua famiglia disperava della sua vita; ma alla tomba di Genoveffa implorarono la guarigione della sua malattia con lamenti e pianti. In quello stesso giorno la pietra generata dalla sua infermità fu espulsa, ed egli non fu mai più colpito da un male simile.

 

La correzione di un goto che aveva fatto lavori manuali alla Domenica

Le mani di un certo goto che aveva lavorato nel giorno del Signore si erano inaridite. Ma una volta che egli ebbe pregato per la guarigione stando tutta la notte presso la tomba di Genoveffa, toccò l'edicola di legno che era stata eretta sulla sua tomba, ed avendo riavuto le mani integre, se ne andò in perfetta salute.

 

La sua basilica, terminata da Santa Clotilde

Anche Re Clodoveo di gloriosa memoria - che era davvero terribile in battaglia - a causa del suo amore per la santa vergine, perdonò più volte quanti aveva gettato in prigione. E a causa delle suppliche di Genoveffa, rilasciò anche dei colpevoli ben noti per i loro crimini. Inoltre, iniziò a costruire una basilica con la quale glorificarla: questa fu completata dopo la sua morte prematura dalla sua regina, Santa Clotilde, una donna davvero meravigliosa. Ha un triplo portico, oltre a uno per i Patriarchi e i Profeti e uno per i Martiri e i Confessori, con dipinti.

 

Invito

Così tutti noi che adoriamo il Padre, il Figlio e il Santo Spirito nell'essenza della natura divina, e che confessiamo l'unità nella Trinità, supplichiamo senza posa la fedelissima ancella di Dio, Genoveffa, di chiedere a Dio il perdono del male da noi fatto, cosicché una volta riconciliati con Dio possiamo dare vera gloria al nostro Signore Gesù Cristo, a cui si addice ogni gloria, onore e dominio e potenza, nei secoli dei secoli. Amen.

Qui termina la cronaca dell'uomo pio che fu contemporaneo della santa anziana Genoveffa. Ma se duemila anni di cristianesimo ci hanno insegnato qualcosa, ci hanno insegnato che il Santi di Dio e i fedeli cristiani, quando le loro anime sono portate via dal mondo, di fatto non sono morti, ma riposano nelle tombe in attesa della risurrezione. Le loro anime sono vive con Dio in cielo, rivestite di grazia, e non abbandonano l'attività spirituale solo perché il corpo è stato messo da parte. Le seguenti narrazioni di miracoli operati da Dio attraverso le preghiere della santa anziana Genoveffa dopo la sua dipartita sono state raccontate da un monaco di Parigi, che per desiderio di umiltà non mise il proprio nome per iscritto.

 

Miracoli compiuti da Santa Genoveffa dopo il suo riposo

Dopo il riposo nel Signore della beatissima vergine Genoveffa, fu accesa al suo sepolcro una lampada da vigilia, che traboccava di ruscelli d'olio come una fontana. E quando la lampada veniva accesa, una moltitudine di ammalati si allietava ritrovando la propria salute. Inoltre, il fuoco bruciava nella lampada anche dopo che l'olio si era consumato, tanto che la lampada fu cambiata in una fontana, e l'olio in una medicina. Di fatto guariva i corpi, ma ancora di più alleviava le anime, "una buona misura, pigiata, scossa e traboccante" di doni celesti (Lc 6,38)

 

L'uomo muto e cieco

Un uomo privo dell'abilità di usare la propria lingua e di vedere con i propri occhi fu condotto davanti al sepolcro della santa vergine per chiedere il dono dei suoi sensi. E all'ora della Santa Comunione, quando il clero cantava nell'officio: "Fa' splendere il tuo volto sui tuoi servi" egli vide e parlò. Così ella gli diede sia la voce che la vista, perché non accadesse che - con la sola voce - si lamentasse della privazione della vista, né - mancando di voce - fosse incapace di dire parole di ringraziamento per il ritorno della vista.

 

Il caso di Fulconio

A un certo Fulconio, muto dalla nascita, fu detto per rivelazione di partire dal paese di Pinciasensis e andare alla presenza della beata vergine Genoveffa, dove avrebbe avuto la parola che la natura gli aveva negato. In una domenica, pieno di fede, entrò nella basilica, e capitò nel momento in cui veniva letto il Vangelo della Messa, dove si diceva: "Ha fatto bene ogni cosa; fa udire i sordi e fa parlare i muti" (Mc 7,37). L'uomo udì queste parole e credette, e all'istante la sua lingua si sciolse ed egli parlò, dando gloria a Dio.

 

Il ragazzo cieco

Allo stesso tempo una donna fu ammonita in una visione di portare suo figlio, che era cieco dalla nascita, alla casa della santa vergine. Nel giorno in cui arrivò, mentre si leggeva il Vangelo del miracolo del nostro Signore Gesù Cristo che apre gli occhi del cieco nato, gli occhi del figlio si aprirono all'istante. E in mezzo a tutti, egli fissò lo sguardo su un oggetto dopo l'altro, finché giunse a raccogliere la candela che sua madre aveva portato là e acceso per ringraziamento, com'è abitudine. Molto spesso una rivelazione divina precedeva i miracoli della santa, per far crescere la fede e la fiducia di coloro che credevano. Infatti "tutto è possibile per chi crede" (Mc 9,22).

 

Un'offerta di catene

Uno dei parigini, tormentato da un diavolo, fu portato per essere guarito da molti santi, ma non fu curato. Disperando della sua salvezza, lo legarono in catene e lo misero sotto guardia. Ma una notte il sonno prese i suoi guardiani, e l'indemoniato fuggì. E il Signore diresse i suoi passi sulla soglia della basilica di Santa Genoveffa. Ma poiché un essere maligno non poteva stare in sua presenza, il diavolo lo lasciò all'istante, soffrendo per il potere della santa. Il maligno infatti, che non era mai riuscito a prevalere su di lei durante la sua vita, non aveva successo neppure dopo la sua morte. Dopo un breve intervallo, le porte della chiesa si aprirono per l'officio della notte. Dopo avere esultato al sepolcro della vergine e dopo avere offerto là le catene con cui era stato legato, egli ritornò a casa sua e raccontò quali grandi cose il Signore aveva fatto per lui.

 

Miracolo sul tetto

Mentre alcuni operai si affaccendavano sul tetto del monastero, uno di loro, cadendo dalla cima della chiesa attraverso un'apertura, strinse le dita attorno a un perno di legno nascosto nel soffitto a pannelli, mentre il resto del suo corpo pendeva dall'alto. I fratelli, pregando per lui, si arrampicarono fino al luogo da dove pendeva, e prendendolo per le braccia lo portarono al sicuro. Una volta che fu tratto fuori pericolo, confessò che mentre era in bilico non aveva provato alcuna paura, ma aveva riposato tranquillo come in un sogno. E quindi il perno di legno, che non era certamente sufficiente a reggere il peso di un corpo umano, cadde a terra senza che nessuno lo toccasse, e si frantumò in pezzi, a testimonianza del miracolo.

 

La donna che lavorò in un giorno di festa

Accadde anche che nel giorno della Natività della beata Vergine Maria una certa donna della periferia di Parigi stesse filando la lana in disprezzo di una festa così grande. Rimproverata da una vicina perché mostrava una tale irriverenza, aggiunse iniquità a iniquità, dicendo: Forse Maria non era una donna, e non faceva anch'ella lavori manuali? Poiché aveva concluso il suo gesto malvagio con una parola malvagia, i pettini della lana si attaccarono indissolubilmente alle sue mani indegne, cosicché fino al riposo della santa vergine Genoveffa fu condannata a portare questo costante fardello, e gli strumenti con cui aveva perpetrato il suo peccato si tramutarono per lei in una punizione. Nella notte della suddetta festa solenne, questa povera donna giunse alla chiesa della santa vergine Genoveffa, e ai primi canti dell'officio del mattino il fardello le cadde dalle mani. Dovremmo perciò credere ai servitori che l'hanno accompagnata, e chiedere umilmente che i nostri fardelli umani siano alleggeriti, e di essere liberati dalle nostre colpe e dai peccati quotidiani, per la rettitudine e le preghiere di colei che ha dissolto il fardello della donna che si era rivolta a lei. Non solo gli uomini parlano di questo miracolo, ma perfino i pettini, appesi là sulla soglia, portano una silenziosa testimonianza.

 

L'inondazione della Senna

In una stagione invernale il fiume Senna era così gonfio di piogge incessanti e di tanta neve disciolta, che passò ben al di là dei propri argini, e inondò l'intera città di Parigi, scacciando la popolazione e il clero fuori dalle proprie case e dalle chiese. Il distinto vescovo della città, Ricaldo, temendo che il pericolo insorgesse a causa dei peccati della città, esortò il popolo a chiedere misericordia a Dio con digiuni, e ordinò ai presbiteri e agli altri ministri della chiesa di fare dei giri in barca con i libri sacri e i paramenti in ciascuna delle basiliche, nel caso che una di queste fosse risultata adatta a celebrarvi gli offici divini. Uno di questi uomini, di nome Riccardo, giunse in barca al monastero delle vergini dedicato a San Giovanni Battista, e costruito sulla proprietà, e attraverso i fondi, della beata Genoveffa. Fino a quel momento era stato custodito in quel monastero il letto sul quale la vergine stessa si era addormentata nel Signore. Ora sembrava che il letto fosse circondato dalle acque crescenti ma che non fosse bagnato, anche se le acque erano salite al livello delle finestre. Colui che lo vide ne portò notizia al vescovo, e i membri del clero e un gran numero di persone si recarono a vedere, rendendo grazie a Dio e alla sua vergine. E da quel momento la Senna rigonfia fu forzata a rientrare nei suoi argini, in sé un miracolo di Genoveffa. Nei tempi antichi Mosè divise il Mar Rosso quando Israele vi stava per passare, e dopo il suo passaggio il mare tornò al suo posto. La santa vergine Genoveffa non privò della virtù della sua presenza il letto sul quale si trasferì alla vita eterna, e questo fu visto contenere le acque. E fu cosa degna che dopo la morte il letto della vergine fosse preservato dalle acque, poiché su di esso ella "crocifisse la sua carne, con i suoi vizi e le sue concupiscenze" (Gal 5,24) e per molte notti cercò Colui per il quale la sua anima "era assetata come una terra senz'acqua" (Ps 124,6), finché bevve dalla fonte dalla quale "se qualcuno berrà, non avrà più sete" (cf. Gv 4,13)

 

Il criminale fuggito

Circa allo stesso tempo, era rinchiuso in prigione un certo ladro, insieme con altri che attendevano la loro punizione. E una sera egli ingannò le guardie della prigione ed escogitò un piano per scappare, rifugiandosi nella chiesa della beata Genoveffa. Ma dato che il cancello del monastero dalla parte della città era chiuso, egli andò attorno al cenobio finché raggiunse l'altro cancello, dove si trova la chiesa di San Michele, mentre il capo della guardia cittadina lo inseguiva. Uno dei soldati del capo, di nome Ratomus, disprezzò il potere della vergine con più audacia degli altri, e senza alcuna riverenza per il luogo santo, si gettò sul ladro. Mentre entrambe le comunità monastiche si avvicinavano, il ladro supplicò la santa madre Genoveffa, e il soldato (che stava per morire) schernì il ladro come se già lo avesse preso. E quando bestemmiò il nome della santa vergine accusandola di debolezza, e dicendo che non avrebbe potuto fare niente per il ladro, né liberarlo dalla sua presa, immediatamente sentì il potere della vergine, e cadde morto. Così gli altri ebbero riverenza e onore per Dio e per la sua ancella Genoveffa, e portarono il morto al di fuori della città, seppellendolo senza onore. Quanto è terribile questo luogo! Ella infatti punì il soldato blasfemo e soccorse il ladro che chiedeva il suo aiuto.

 

La sezione che segue è stata molto abbreviata prima dell'inclusione in questo testo.

 

I viaggi delle sue reliquie

Molti miracoli furono compiuti al tempo delle invasioni normanne. Il cenobio di santa Genoveffa fu bruciato, e il suo santo corpo fu portato al villaggio di Ategias. Una candela, che si era accesa miracolosamente, fu portata in processione davanti a monaci e fedeli. Ora, l'altare dove avrebbe dovuto essere composta, che era sormontato da un certo numero di reliquie e di croci, iniziò a tremare mentre la processione con il suo corpo si avvicinava. Ma quando entrò il corpo della santa, tutto ciò che tremava si calmò. Degna di riverenza e di acclamazione è questa vergine, alla quale anche gli oggetti insensati rendevano omaggio, e di fronte alla quale gli uomini stavano con timore e tremore. Quando il corpo della santa vergine fu quindi trasportato lungo la Senna a Draverna, molti dei malati a cui passava accanto ritrovarono improvvisamente la salute.

 

L'abate Erberto

Uscì quindi a incontrare il santo corpo l'abate Erberto, della nostra congregazione, per venerare la sua presenza e sentirsi più sicuro della sua protezione. Con una coscienza appesantita in diversi dettagli, osò prendere per sé, dal corpo della santa, un dente, con zelo di pietà, ma non secondo la conoscenza. Terrificato da varie visioni, e portato in punto di morte da vari gravosi mali, egli confessò di avere peccato, senza esserne cosciente. E come parte della sua penitenza incastonò quel dente in un grande cristallo, lo abbellì con una corona d'oro, e lo restituì al cenobio della santa vergine.

 

Le sue sacre reliquie ritornano

Una volta che i Normanni furono tornati al loro paese, riportammo la nostra signora al suo luogo santo, esultanti, mentre folle di persone viaggiavano assieme a noi. Sulla strada, la candela che ci precedeva si spense, ma mentre tutti i fratelli pregavano si riaccese da sola. E non la ponemmo nella cripta, dove era stata prima, ma sopra l'altare degli Apostoli, in un luogo preparato appositamente.

 

Guarigione e riafflizione

Che cosa mi resta da raccontare? Una donna adultera perse la parola, ma stando una settimana a fianco del sepolcro della beata, vomitò sangue mentre le campane del giorno del Signore iniziavano a suonare, e riebbe la voce. La domenica successiva questa donna se ne andò senza partecipare alla Messa e senza ricevere una benedizione, ma prima di essere giunta molto lontana, fu presa all'improvviso da dolori e le si irrigidirono le gambe. Riportata indietro al luogo santo, ricevette consigli spirituali da uomini buoni, e così alla fine fu riportata sia alla salute fisica che alla salvezza.

 

Olio dalla lampada

L'olio della lampada che ardeva sulla tomba della beata Genoveffa guarì due ciechi. Con questo olio fu guarita anche una donna cieca.

 

Seconda invasione normanna; l'uomo che lavorò di domenica

Durante la seconda invasione dei Normanni, avvennero molti miracoli, e ve ne racconterò pochi perché sono tanto numerosi, e indubbiamente molti altri di più avranno luogo in futuro. Un uomo di Rebarensis ebbe la presunzione di macinare frumento alla vigilia del giorno del Signore, e fu accecato. Prese quindi a percuotersi con i pugni e a sputare sangue. Per un anno intero cercò sollievo nei santuari dei santi, e giunse infine al luogo dove ancora accadono i miracoli di Genoveffa. Stando là in preghiera, assieme ai fratelli, fu guarito, ed elevò le mani al cielo in segno di ringraziamento, e tutto il luogo risuonò delle voci di quanti glorificavano Dio.

 

Vari miracoli

Una donna di nome Fulcora era paralizzata e prossima alla morte. Fu portata dalla santa vergine e, in modo non dissimile a una vera risurrezione, riebbe la sua forza, e ritornò sui propri piedi a casa sua, dando gloria a Dio e alla sua vergine. Una donna da Marisiacum era afflitta da lungo tempo da un demone, e fu condotta con le mani incatenate al santissimo corpo di Genoveffa. Per un certo tempo schiumò per il tormento del demone, ma dopo avere sputato sangue fu riportata in salute dal suo stato di possessione. Febbri e lebbre furono curate dall'olio della lampada della beata, e una fanciulla che aveva perso un occhio andò dalla santa vergine chiedendone la restituzione. Quando andò ad accendere una candela, come gli altri supplicanti, al momento stesso in cui l'accese riebbe la sua vista piena per opera del Padre delle luci, a cui offrì grandi ringraziamenti. Molti altri indemoniati furono liberati, i sordi riebbero l'udito, i ciechi la vista, i malati la salute, i paralitici la mobilità, e non racconterò le storie di tutti.

 

Guarigione incompleta

Una fanciulla che aveva perso l'uso di tutte le membra tranne le mani fu riportata in salute solo parzialmente. E il perché ricevette una guarigione incompleta lo lasciamo al giudizio di Colui che per mezzo delle infermità opera la nostra più completa salvezza, nascondendola in esse.

 

La gratitudine della donna paralizzata

Per cinque anni portammo in giro il corpo della beatissima Genoveffa, a causa delle incursioni dei Normanni, e molte volte vedemmo le meraviglie che Dio operava attraverso di lei. Un giorno giunsero al santuario della santa due giovani che portavano una donna paralizzata, i cui piedi da lungo tempo non riuscivano a essere separati dalle sue natiche. Distesa davanti al santo corpo della vergine da coloro che la portavano, ella fu riportata in breve tempo in piena salute, e camminando oltre le reliquie, chiese e ottenne questo compito dai fratelli: di poter spazzare con una scopa di saggina la casa della santa vergine.

 

Secondo ritorno delle sue sacre reliquie

Quando alla fine ritornammo sulla Senna al tempio della Santa Vergine, venne ad accoglierci una gran folla di clero, e di monaci, e di fedeli, con grande esultanza. E la moltitudine di monaci, con inni e cantici, ricevette la beata vergine nella propria casa, rallegrandosi del suo ritorno. E diedero gloria e onore al nostro Signore Gesù Cristo, il Figlio unigenito di Dio, che con il Padre e il Santissimo Spirito vive e regna per tutti i secoli dei secoli. Amen.

 
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Linguriţa liturgică (pentru împărtăşire)

LINGURIŢA (λαβίς – cleşte; лжица) este confecţionată, ca şi toate Sfintele Vase, din material preţios. Este asemănătoare cu o linguriţă simplă, numai că la capătul mânerului are o cruciuliţă. Se întrebuinţează la împărtăşirea mirenilor cu Sfântul Trup şi Sânge (deodată). Ea simbolizează cleştele cu cărbunele de foc prin care a fost curăţit prorocul Isaia (6: 6-8). După alţi tâlcuitori, linguriţa mai simbolizează pe Sfântul Duh prin Care primim pe Fiul, sau Mâna lui Dumnezeu care creează / recreează lumea.

Avem mărturii istorico-liturgice şi arheologice clare care arată că în primele veacuri creştine linguriţa nu era întrebuinţată în cult, căci împărtăşirea mirenilor se făcea într-un mod asemănător cu al clericilor: preotul dădea Sfântul Trup în mâna fiecărui credincios şi acesta se împărtăşea singur, iar diaconul ţinea Sfântul Potir şi fiecare se apropia şi sorbea din Potir, cum fac şi astăzi clericii 1. În alte părţi, Sfântul Trup deja îmbibat în Sfântul Sânge se dădea credincioşilor direct în gură şi mai rar în palmă, încât Potirul nu mai era oferit laicilor, aşa cum se procedează şi astăzi la armeni. Nu se ştie însă cât a durat această practică, căci informaţiile sunt confuze şi uneori controversate.

Faptul că linguriţa este întrebuinţată cu acelaşi scop şi în unele rituri necalcedoniene – la copţi, etiopieni şi siro-iacoviţi, care s-au rupt de Biserica Ortodoxă după anul 451 – i-a făcut pe unii să creadă că aceasta a fost introdusă prin secolul al IV-lea în Siria, iar Sfântul Ioan Gură de Aur a introdus-o la Constantinopol 2, de unde s-ar fi generalizat peste tot, în secolul al V-lea. Acest argument nu este însă unanim acceptat, fiind în contradicţie chiar cu mărturiile date de Sfântul Ioan Gură de Aur şi de alţi părinţi în scrierile lor 3.

În primul rând trebuie să menţionăm că cele mai conservatoare rituri necalcedoniene: armenii, nestorienii şi maroniţii nu folosesc nici astăzi linguriţa. Nu-i exclus ca prima grupă de rituri necalcedoniene să fi împrumutat linguriţa chiar şi după 451, cum s-a întâmplat şi în alte privinţe.

Prima mărturie indirectă, dar deloc clară, privind folosirea linguriţei o avem abia în secolul al VII-lea, la Sfântul Sofronie al Ierusalimului († 638). Acesta, în Descrierea minunilor Sfinţilor Kir şi Ioan, vorbeşte despre Sfântul Trup înmuiat în Sfântul Sânge, ceea ce presupune că acestea ar fi trebuit să fie împărtăşite cu linguriţa. La fel, şi în Viaţa Sfintei Maria Egipteanca se dă de înţeles că preotul Zosima a mers să o împărtăşească pe cuvioasă cu Sfintele Taine amestecate, iar iconografia arată şi linguriţa, lucru care nu poate fi însă confirmat istoric, deşi mulţi ar fi vrut să vadă la Sfântul Sofronie o mărturie pentru folosirea linguriţei. Atragem atenţia asupra faptului că simplele mărturii despre înmuierea Sfântului Trup în Sfântul Sânge nu înseamnă şi folosirea linguriţei. De multe ori Sfântul Trup se înmuia foarte puţin în Potir şi era pus de preot direct pe limba primitorului.

O dovadă clară că în secolul al VII-lea nu era folosită încă linguriţa o reprezintă textul Canonului 101 al Sinodului Trulan (690-691), care spune următoarele: ...dacă ar vrea cineva să se împărtăşească cu Preacuratul Trup..., [atunci,] făcându-şi mâinile în forma crucii, aşa să se apropie şi să primească împărtăşirea harului. Căci pe cei ce, în loc de mână, pregătesc oarecare vase din aur sau din alte materii pentru primirea dumnezeiescului Dar, şi prin aceasta se socotesc vrednici preacuratei împărtăşiri, cu nici un gând nu-i aprobăm, ca unii care cinstesc mai mult materia cea neînsufleţită şi supusă mâinii omului decât chipul lui Dumnezeu...4 Desigur, acest Canon nu face referire la linguriţă, ci la nişte vase speciale cu care obişnuiau să ia împărtăşania unii oameni, şi în special cei bogaţi. Totuşi Canonul condamnă pe cei ce strică vechiul obicei de a primi împărtăşania direct în mâini. Acelaşi lucru îl observăm ceva mai târziu şi la Sfântul Ioan Damaschin (†749)5, care, de asemenea, vorbeşte despre primirea Sfântului Trup direct în mână, arătând totodată obiceiul uzual în Siria şi Palestina în secolul al VIII-lea.

Se pare totuşi că în secolul al VIII-lea, prin zona Antiohiei, s-a considerat de cuviinţă a se introduce linguriţa, pentru a evita o posibilă profanare a Sfintelor Taine, care putea să se întâmple atât din neglijenţa mirenilor, cât şi a slujitorilor. Erau cazuri când unii dintre credincioşii mireni duceau pe ascuns Sfântul Trup prietenilor sau rudeniilor lor opriţi de la Sfânta Împărtăşanie sau, ceea ce era şi mai grav, foloseau Sfântul Trup în scopuri meschine. Folosirea acestui obiect liturgic, aşa cum se pare, nu s-a generalizat destul de repede în tot Răsăritul, şi chiar dacă Sinodul local Proto-Deftera (I-II) din Constantinopol (anul 861) enumără pentru prima dată linguriţa între vasele liturgice, asta nu înseamnă că linguriţa se folosea anume pentru împărtăşirea mirenilor. Existau şi alte întrebuinţări ale linguriţelor liturgice precum: luarea gunoaielor şi insectelor din vin (aşa cum se întâmpla adesea în vechime, după descrierile istorice pe care le avem), turnarea mirului dintr-un vas în altul etc.6

O primă mărturie clară despre folosirea linguriţei pentru împărtăşirea mirenilor a avem de la Anastasie Sinaitul († după anul 700), dar aceasta reprezintă o tradiţie locală care nu se ştie în ce măsură era generalizată, aşa cum putem observa şi din cele expuse mai sus. O altă mărturie o avem din comentariul liturgic al lui Pseudo-Sofronie al Ierusalimului (secolele al XI-lea–al XII-lea)7. Dacă admitem însă că această scriere aparţine Sfântului Sofronie însuşi (secolul al VII-lea), aceasta ar însemna să neglijăm prevederile Canonului 101 Trulan, precum şi mărturia Sfântului Ioan Damaschin, care era din aceeaşi regiune cu Sfântul Sofronie, dar la o diferenţă de peste 100 de ani.

În concluzie putem spune că linguriţa a apărut în secolele al VIII-lea–al IX-lea, mai întâi în Antiohia şi Ierusalim, iar mai apoi s-a generalizat, în secolele al XI-lea–al XII-lea, în tot Răsăritul Ortodox, fiind împrumutată chiar şi de unele rituri necalcedoniene.

Chiar şi în anul 1053 cardinalul Humbert îi învinuia pe bizantini de introducerea linguriţei (ca pe o inovaţie) şi aducea ca mărturie, la vremea aceea (mijlocul secolului al XI-lea), faptul că nu toţi ortodocşii o foloseau. Abia din secolul al XII-lea şi mai târziu toate izvoarele vorbesc despre folosirea linguriţei pentru împărtăşirea mirenilor şi a clerului inferior. Singura excepţie în Răsărit o reprezentau împăraţii/domnitorii/ţarii/regii (unşi), care nu se împărtăşeau cu linguriţa, ci ca şi clericii, luând Sfântul Trup în mână şi sorbind din Potir.

În Apus, în ciuda unor ipoteze, linguriţa nu a fost folosită niciodată pentru împărtăşirea mirenilor, mai ales că romano-catolicii deja de mult timp nu împărtăşesc mirenii cu Sfântul Sânge, ci numai cu Sfântul Trup sub formă de azimă.

Mai nou, în unele locuri se simte tendinţa de a introduce la împărtăşirea mirenilor folosirea linguriţelor sterilizate, din pricina refuzului unora de a se împărtăşi cu linguriţa comună, fapt nicidecum justificat, care vorbeşte negreşit despre împuţinarea şi răcirea credinţei. Niciodată în istoria Bisericii nu se cunoaşte vreun caz de îmbolnăvire prin împărtăşirea cu aceeaşi linguriţă.

Note

1 A se vedea Constituţiile Apostolice VIII, 13; Sfântul Chiril al Ierusalimului, Cateheza XXIII; Sfântul Vasile cel Mare, Epistola 93 ş.a. (Liturgica Generală, p. 595).

2 NICHIFOR CALIST, Istoria bisericească, cartea XIII, 7. Vom vedea că informaţia nu poate fi credibilă.

3 A se vedea Cateheza II către candidaţii la Botez, 2, apud E. BRANIŞTE, Liturgica Generală, p. 596. Faptul că Sfântul Ioan vorbeşte de labis nu înseamnă că este vorba de linguriţă, ci, cel mai probabil, este vorba de degetele preotului, care se fac ca nişte cleşti atunci când acesta ia Sfântul Trup pentru a-l pune în mâna celui care se împărtăşeşte.

4 CBO, p. 160.

5 Dogmatica, cartea IV, 13, trad. D. Fecioru, Editura Scripta, Bucureşti, 1993, p. 167.

6 Robert TAFT, S.J., Byzantine Communion Spoons: A Review of the Evidence, // DOP 50 (1996), 209-238, în RTCAR, vol. 1, pp. 31-85.

7 R. BORNET şi alţi cercetători neagă paternitatea sofroniană a acestui comentariu şi consideră că această scriere anonimă prelucrează Protheoria lui Nicolae al Andidei, prelucrată şi de Teodor al Andidei – ambele din sec. XI (cf. Les commentaires byzantins de la Divine Liturgie du VIIe au XVe siecle, Paris, 1966, p. 266).

 
Una santa dimenticata dell'Italia ortodossa

Ieri abbiamo benedetto in chiesa l'icona di santa Teodolinda (VI-VII sec.), regina d'Italia nel Regno dei Longobardi, una sovrana che pur venerata come santa in Italia (in particolare a Monza, dove le sue reliquie riposano nella cattedrale) non è mai stata ufficialmente inclusa nei Martirologi occidentali. Eppure ne avrebbe avuto ogni ragione, in particolare come evangelizzatrice: fu sotto il suo regno che il popolo longobardo, fino a quel tempo ariano, ebbe ilpiù grande sostegno alla conversione alla fede ortodossa. Presentiamo la vita della regina Teodolinda nella sezione "Santi" dei nostri documenti.

 
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L'intolleranza della tolleranza

Probabilmente nessun concetto nella nostra cultura politicamente corretta ha maggior circolazione rispetto alla nozione di tolleranza. Purtroppo, una delle virtù più nobili dell'America è stata tanto distorta da diventare un vizio.

C'è un mito moderno, che sostiene che la vera tolleranza consiste nella neutralità. Si tratta di uno dei presupposti più radicati di una società impegnata nel relativismo.

La persona tollerante occupa un terreno neutro, un luogo di assoluta imparzialità dove ogni persona è autorizzata a decidere per se stessa. Nessun giudizio è ammesso. Nessuna "forzatura" di opinioni personali. Ognuno prende una posizione neutrale nei confronti delle convinzioni di un altro.

Questo approccio è molto popolare tra i post-modernisti, quel genere di scettici radicali, le cui idee incutono un ingiustificato rispetto nell'ambiente universitario di oggi. Il loro grido di battaglia: "Non esiste la verità", è spesso seguito da un appello alla tolleranza.

Con tutta la loro furia fiduciosa, l'appello dei relativisti effettivamente afferma due verità, una razionale e una morale. La prima è la "verità" che non c'è verità. La seconda è la verità morale che si devono tollerare i punti di vista altrui. La loro posizione, contraddittoria almeno sotto due aspetti, serve come avvertimento che la nozione moderna di tolleranza è gravemente fuorviante.

Tre elementi della tolleranza

Molte persone sono confuse su ciò che è la tolleranza. Secondo il Webster's New World Dictionary, 2nd College Ed., la parola tollerare significa consentire o permettere, riconoscere e rispettare le credenze e le pratiche altrui senza condividerle, sopportare qualcuno o qualcosa che non piace necessariamente.

La tolleranza, quindi, implica tre elementi: (1) consentire o permettere (2) una condotta o punto di vista con cui non si è d'accordo (3) rispettando nel frattempo la persona.

Si noti che noi non possiamo tollerare qualcuno a meno di non essere in disaccordo con lui. Questo è un punto critico. Noi non "tolleriamo" le persone che condividono le nostre opinioni. Sono dalla nostra parte. Non c'è niente da sopportare. La tolleranza è riservata a quelli che secondo noi sono nell'errore.

Questo elemento essenziale di tolleranza - il dissenso - è stato completamente perso nella distorsione moderna del concetto. Oggi, se pensate che qualcuno si stia sbagliando, siete chiamati intolleranti.

Questo presenta un problema curioso. Uno deve prima pensare che un altro si sbagli, per poter esercitare tolleranza verso di lui, eppure così facendo porta su di sé l'accusa di intolleranza. Si tratta di un "Comma 22". Secondo questo approccio, la vera tolleranza è impossibile.

Tre volti della tolleranza

La confusione è aumentata dal fatto che la tolleranza si può applicare a cose diverse - persone, comportamenti o idee - e le regole sono diverse per ciascuno.

La tolleranza delle persone, quella che potrebbe essere chiamata "civiltà", può essere equiparata con la parola "rispetto". Questa è la definizione classica di tolleranza: la libertà di esprimere le proprie idee senza timore di rappresaglie.

Noi rispettiamo coloro che detengono convinzioni diverse dalle nostre trattandoli con cortesia e permettendo ai loro punti di vista un posto nel dibattito pubblico. Possiamo essere in forte disaccordo con le loro idee e lottare vigorosamente contro di loro nel dibattito pubblico, ma dobbiamo ancora mostrare rispetto per le persone nonostante le differenze.

Si noti che il rispetto qui è accordato alla persona. Se il suo comportamento debba essere tollerato è una questione completamente diversa. Questo è il secondo senso della tolleranza, la libertà di agire, chiamata tolleranza dei comportamenti. Le nostre leggi dimostrano che un uomo può credere a ciò che gli piace - e di solito ha la libertà di esprimere tali convinzioni - ma non può comportarsi come gli piace. Alcuni comportamenti sono immorale o sono minacce per il bene comune. Invece di essere tollerati, sono limitati dalla legge. Nelle parole di Lincoln: Non esiste alcun diritto di fare il male.

La tolleranza delle persone deve essere distinta dalla tolleranza delle idee. La tolleranza delle persone richiede che le idee di ogni persona siano ascoltate in modo cortese, ma non che tutte le opinioni abbiano pari valore, merito, o verità. Il punto di vista che nessuna idea di una persona sia migliore o più vera di un'altra è irrazionale e assurdo. Sostenere che alcuni punti di vista sono falsi, immorali o semplicemente stupidi non viola alcun parametro significativo della tolleranza.

Queste tre categorie sono spesso confuse da pensatori confusi. Se uno rifiuta le idee o i comportamenti di un altro, è automaticamente accusato di rifiuto della persona e di essere irrispettoso. Dire che sono intollerante di una persona perché non sono d'accordo con le sue idee è confuso. In base a questa visione della tolleranza, non ci si può opporre ad alcuna idea o comportamento, indipendentemente da quanto gentilmente lo si fa, senza essere accusati di inciviltà.

Storicamente, la nostra cultura ha enfatizzato la tolleranza di tutte le persone, ma mai la tolleranza di tutti i comportamenti. Questa è una distinzione fondamentale perché, nell'attuale retorica del relativismo, ci si appella più frequentemente al concetto di tolleranza per i comportamenti: il sesso prematrimoniale, l'aborto, l'omosessualità, l'uso della pornografia, ecc. La gente dovrebbe essere in grado di comportarsi come vuole all'interno di ampi limiti morali, dice questa linea di pensiero.

Ironia della sorte, però, c'è poca tolleranza per l'espressione di idee contrarie sui temi della morale e della religione. Se uno sostiene una visione diversa, è sonoramente censurato. La questione della tolleranza si ribalta quindi da capo a piedi: tollerate la maggior parte dei comportamenti, ma non tollerate opinioni opposte relative a tali comportamenti. Le opinioni morali contrarie sono etichettate come "imporre il proprio punto di vista sugli altri. "

Invece di sentirsi dire, "rispetto il tuo punto di vista", quelli che differiscono in modi politicamente scorretti sono chiamati bigotti, chiusi e intolleranti.

Un esempio calzante è stato un attacco fatto sul giornale della mia comunità ai cristiani che si sentono a disagio con la pressione sociale per l'approvazione dell'omosessualità. Ho scritto la seguente lettera al direttore per mostrare come la nozione moderna di tolleranza è stata contorta in un vizio invece che in una virtù:

Caro direttore:

Sono sempre stupito di vedere come sono intolleranti i residenti di South Bay ai punti di vista morali diversi dal proprio. Le lettere della settimana scorsa sull'omosessualità sono state emblematiche. Uno ha perfino scritto suggerendo al giornale di censurare le opinioni alternative!

Questo atteggiamento di ristrettezza mentale sull'etica sessuale è ipocrita. Si contesta ciò che si considera come odio (un tempo si chiamava moralità ) con attacchi caustici e al vetriolo. Si condanna la censura con una richiesta di censura (c'è una differenza). Si accusano gli altri di intolleranza e fanatismo, quindi si rimproverano quelle stesse persone perché hanno un punto di vista contrario al proprio.

Perché una persona deve essere attaccata con tanta forzata semplicemente perché afferma le linee guida morali sul sesso che sono state considerate valide per migliaia di anni ?

E non solo questo: le obiezioni stesse sono autolesioniste. Gli scrittori implicano che a ognuno dovrebbe essere consentito di fare e credere ciò che vuole e che a nessuno dovrebbe essere consentito di imporre il proprio punto di vista sugli altri. Ma questo è il loro punto di vista, che cercano immediatamente di imporre sui suoi lettori in modo abusivo. Chi ha convinzioni opposte è definito sulla stampa come bigotto, privo di coraggio, irrispettoso, ignorante, abominevole, timoroso, indecente, alla pari con il Ku Klux Klan, e – può crederci? – intollerante.

Perché non abbandoniamo tutte queste sciocchezze sulla tolleranza e sull'apertura mentale ? Sono fuorvianti, perché ogni parte ha un punto di vista che ritiene corretto. Il vero problema è quale tipo di moralità la nostra società dovrebbe incoraggiare e se questa moralità è basata su fatti e ragionamenti sani o su vuota retorica.

Vigliaccheria intellettuale

La maggior parte di ciò che passa per tolleranza oggi non è affatto tolleranza, ma piuttosto vigliaccheria intellettuale. Quelli che si nascondono dietro il mito della neutralità hanno spesso paura di un confronto intelligente. Non volendo essere sfidati da punti di vista alternativi, non si confrontano con le opinioni contrarie o non le considerano neppure. È più facile lanciare un insulto: "tu, bigotto intollerante", che non affrontare un'idea e o confutarla o lasciarsi cambiare da essa. La "tolleranza" è diventata intolleranza.

La regola classica della tolleranza è questa: tollerate le persone in tutte le circostanze, dando loro rispetto e cortesia, anche quando le loro idee sono false o sciocche. Tollerate (cioè consentite), i comportamenti che sono morali e coerenti con il bene comune. Infine, tollerate (vale a dire, abbracciate e fate vostre) le idee giuste. Questa è ancora una buona linea guida.

 
Vita del Padre nostro tra i Santi Nicola Arcivescovo di Mira in Licia il Taumaturgo (operatore di miracoli)

Il nostro Padre tra i Santi e Taumaturgo Nicola (il nome greco "Nikolaos" significa "vincitore di popoli") nacque a Patara di Licia, nel paese dell'Anatolia. La data esatta della sua nascita non ci è nota. I suoi genitori, Teofane e Nonna, erano virtuosi cristiani, né poveri né ricchi, ma dotati di quanto bastava per sostenersi e anche per aiutare i poveri. La loro virtù era manifesta nella vita che vivevano, poiché come dice il Signore nel Santo Evangelo, "l'albero si riconosce dai suoi frutti" (Mt 12,33). Così, dopo la nascita del loro primo e unico figlio, essi vissero in perfetta continenza come fratello e sorella e dedicarono le loro vite unicamente alla coltivazione della virtù.

Il santo dimostrò fin dalla sua prima infanzia il desiderio di essere gradito a Dio; infatti come gli altri bambini succhiava il latte tutti i giorni della settimana, ma il mercoledì e il venerdì si nutriva solo una volta al giorno, dopo il tramonto, con stupore dei genitori, che si chiedevano che genere di asceta sarebbe diventato: avrebbe mantenuto questa abitudine per tutta la vita.

Quando fu abbastanza grande, i suoi genitori lo mandarono a scuola, dove imparò bene le sue lezioni. Ma sentiva una vera avversione per la compagnia degli altri bambini a causa della loro condotta scorretta e delle loro conversazioni sconvenienti. Amava solo andare in chiesa tutti i giorni e stare in compagnia di persone più anziane e più sagge, dalle quali ricevette proficui consigli spirituali. E così passava la maggior parte del tempo. Per questo tutti lo stimavano.

Quando raggiunse l'età opportuna, suo zio, il Vescovo Nicola, lo ritenne degno del sacerdozio a causa della sua prudenza. Il vescovo in seguito riferì che, mentre celebrava l'ordinazione, fu illuminato dallo Spirito santo riguardo al desiderio del nuovo prete di consolare gli afflitti e di condurre molte anime al Regno dei Cieli. In seguito fu dimostrata la verità di questa rivelazione.

Dal tempo in cui il santo fu ordinato prete, continuò a crescere in virtù e bontà attraverso veglie, digiuni, astinenza e preghiera per il popolo. Suo zio il Vescovo Nicola osservava tutto questo e si meravigliava dei grandi progressi da lui fatti nella virtù.

Il padre e la madre del santo morirono, lasciandogli una considerevole ricchezza che egli usò per nutrire gli affamati, vestire gli ignudi e prendersi cura di orfani e vedove. Non usò alcuna parte di quella ricchezza per sé, ricordando quanto dice il Profeta Davide: "Se le ricchezze abbondano, non vi attaccate il cuore" (Salmo 61:11). Il santo agì in questo modo e non si curò delle ricchezze periture, ma spese il proprio denaro per ottenere benefici imperituri ed eterni elargendo a molti in carità.

A quel tempo vi era in città un ricco che aveva tre figlie nubili molto belle. Essendosi molto impoverito, l'uomo decise per disperazione di far prostituire le sue figlie per avere abbastanza denaro da permettere a tutti e quattro di sopravvivere. Ma Iddio molto misericordioso, che conosce i segreti del cuore, volle liberare queste tre anime dal degrado, e allo stesso tempo mostrare la virtù nascosta del santo. Il giorno stesso in cui il padre stava per rivelare la sua intenzione alle figlie, anche San Nicola lo venne a sapere, e si apprestò all'istante a salvare le loro anime. Avvolte trecento monete d'oro in un fazzoletto, andò in segreto in quella stessa notte a gettarle attraverso una piccola finestra nella casa di quella famiglia impoverita. Se ne andò subito per non essere riconosciuto da nessuno, poiché temeva la lode degli uomini e desiderava compiacere Dio solo. In tal modo obbediva al Santo Evangelo, che dice: "Quando fai l'elemosina, che la tua mano sinistra non sappia ciò che fa la tua mano destra" (Mt 6:3). Ovvero, quando fai atti di carità, non permettere a nessuno di venirlo a sapere.

Il padre delle ragazze, alzatosi il mattino seguente, vide il fazzoletto. Lo svolse e vide le monete. Iniziò quindi a sfregarsi gli occhi per lo stupore, non riuscendo a credere a ciò che era accaduto. Quindi, contando le monete, si accorse che erano esattamente trecento. Esultò al pensiero del bene che gli era stato fatto e ringraziò Iddio, ma volle anche sapere chi era che lo aveva compiuto.

In quello stesso giorno, la sua figlia maggiore andò in sposa a un uomo ricco della città, ed egli sperò che il Signore, che aveva provveduto alla dote della prima figlia, avesse cura anche della dote delle altre due. Il santo, vendendo che il denaro aveva avuto un buon effetto e che le cose erano andate secondo la volontà di Dio, avvolse immediatamente altre trecento monete in un fazzoletto e le gettò attraverso la stessa finestra nella notte. Il padre, alzatosi al mattino, vide il secondo fazzoletto con altre trecento monete. Si meravigliò di questo evento e si chiese chi fosse a compiere questo generoso atto di carità. Perciò, chiese con sincerità a Dio di rivelargli il benefattore che aveva miracolosamente liberato lui e le sue figlie dalla mano del diavolo. Quindi procedette a far sposare anche la seconda figlia, confidando in Dio affinché colui che aveva provveduto alle prime due figlie provvedesse anche alla terza. E da quel momento pregò con la speranza di apprendere l'identità del suo benefattore.

San Nicola, vedendo che anche la seconda figlia si era sposata, volle completare l'opera buona che aveva iniziato. Avvolse dunque altre trecento monete in un fazzoletto e lo gettò per la stessa finestra nella notte. Ma il padre delle ragazze era sveglio, e udendo il rumore delle monete, aprì subito la porta e si affrettò incontro al santo, che corse via. Anche se entrambi si muovevano velocemente, l'uomo riuscì a raggiungere San Nicola e lo riconobbe, poiché era noto a tutti per la sua virtù e quella della sua famiglia. Cadde dunque ai piedi del santo e disse in lacrime: "Ti ringrazio, o servo di Dio, per avermi aiutato nella mia disgrazia, e per avere avuto misericordia di uno vile come me. Per favore, avvicinati, perché io possa venerarti, sia con l'anima che con il corpo". Il santo, vedendo che la sua virtù era stata scoperta, gli disse: "Non voglio che tu dica ad alcuno del bene che ti ho fatto, finché avrò vita. Di questo ti riterrò responsabile davanti a Dio."

Il giorno dopo il padre diede la terza figlia in sposa a un buon marito, e passò il resto della sua vita in pace, lodando Dio.

Dopo un po' di tempo, il Vescovo Nicola volle andare in pellegrinaggio a Gerusalemme, e lasciò il giovane Nicola a supplire ai doveri del suo episcopato, inclusa la supervisione del monastero che il vescovo aveva costruito, e che aveva chiamato Nuova Sion. E così il santo governò la diocesi e il monastero come se egli stesso fosse stato il vescovo.

Con il tempo, il santo stesso desiderò andare a Gerusalemme per venerare il Santo Sepolcro, e per trovare un luogo quieto dove poter vivere da monaco. Trovò una nave egiziana e vi si imbarcò assieme ad alcuni altri cristiani. Ma appena il diavolo, il nemico della verità, vide che tutti erano addormentati, tagliò le corde dell'albero maestro. Quando San Nicola si risvegliò al mattino, disse ai marinai: "Oggi incontreremo una terribile tempesta: ho visto in sogno che dovremo soffrire. Ma non abbiate paura. Confidate in Dio, ed Egli ci salverà dalla morte."

Mentre il santo stava dicendo queste stesse parole, un'ampia nube oscura apparve all'improvviso con un forte vento e il mare prese ad agitarsi. Il vento era così forte che tutti pensarono di essere sul punto di morire. Tutti pregarono in lacrime il santo di intercedere presso Dio per far fermare il vento. Appena il santo si mise a pregare, il vento si acquietò all'improvviso, il mare si calmò, e quanti erano sulla nave furono risparmiati. Tuttavia, durante la tempesta un marinaio era salito sull'albero maestro per riparare le corde della vela. Spaventato dalla forza della tempesta, si gettò giù, ma fu scagliato sul ponte della nave e fu ucciso. Il santo, vedendo che a bordo tutti gli altri erano stati risparmiati, ebbe compassione della morte del marinaio. Pregò il Signore, e il marinaio si risvegliò come da un sonno.

Quando la nave attraccò alla terraferma, i miracoli del santo furono raccontati in giro. Allora, persone afflitte da varie malattie andarono da lui in gran numero e furono guarite.

Entrato a Gerusalemme, egli visitò tutti i luoghi santi, incluso il Santo Sepolcro del nostro Signore, il Golgota e il luogo dove fu trovata la Santa Croce. Anche se desiderava rimanere là in solitudine e in silenzio, un Angelo di Dio venne da lui una notte e gli disse di ritornare nel proprio paese, cosa che si preparò a fare.

Andò al porto e chiese di una nave con cui salpare. I marinai di una nave gli dissero: "Andremo dovunque ci paghino per andare." Il santo disse: "Posso darvi il compenso per portarmi a Patara in Licia." Così il capitano e i marinai si prepararono rapidamente alla partenza. Vedendo che avevano il vento favorevole, issarono le vele e salparono. Tuttavia, i marinai disonesti si accinsero a tornare al proprio paese, e così invertirono la rotta. Ma questa non era la volontà di Dio, che creò una terribile tempesta, che spezzò il timone, e riempì i marinai di paura della morte. Con le sue preghiere, il santo fece calmare le turbolenze del mare. E quando il capitano e i marinai videro che si stavano avvicinando a Patara, caddero ai piedi del santo e implorarono il suo perdono. Il santo li ammonì di non fare mai più una cosa simile. Quindi li benedisse perché facessero un buon viaggio e tornassero salvi alle loro case.

In questo modo il santo tornò nella sua patria. Le parole non possono raccontare la grande gioia provata dai suoi compaesani nel vederlo di nuovo. Giovani e vecchi, uomini e donne, e persino i monaci del monastero che lo zio del Santo gli aveva affidato, uscirono tutti a incontrarlo. Egli li ricevette con la Parola di Dio, parlando loro del desiderio di salvezza dell'anima cristiana. Quando parlava al popolo in questo modo, tutti lo amavano, e vedendo la sua virtù, molti lo imitavano. Traendo beneficio dal suo insegnamento, si allontanavano dalle cose periture e desideravano il cielo.

Tanto grandi erano la virtù del santo e il suo legame con Dio, che egli non poteva nasconderli agli uomini, anche se fuggiva dalle lodi. Dio stesso lo rivelava per il beneficio di molte anime.

Vicino a Patara c'era una città chiamata Mira, dove il santo andò a vivere per un certo periodo, dietro ispirazione divina, e senza avere un luogo su cui posare il capo: non si recava in altri luoghi se non nella casa del Signore. Il vescovo Giovanni di Mira, che era arcivescovo di tutte le sedi episcopali della Licia, morì, e i cittadini cercavano qualcuno degno di essere eletto come suo successore. Quando i vescovi e gli altri membri del clero di Mira si riunirono per scegliere un nuovo vescovo, molti e differenti candidati furono presi in considerazione ed esaminati. Quindi uno dei vescovi si alzò e disse: "O membri del sacro e santo sinodo, ascoltatemi. Quanti abbiamo proposto per la carica di vescovo li consideriamo tutti buoni, ma preghiamo il Signore e chiediamogli di mostrarci colui che Egli stesso sceglierà." I vescovi, udendo queste parole, resero grazie e passarono quella notte in preghiera, chiedendo a Dio di mostrare loro chi era degno. Quindi un angelo del Signore apparve all'improvviso al presidente dei vescovi e disse: "Perché vi date tanti problemi? Il degno vescovo che cercate è molto vicino a voi. Alzati, vai alla chiesa, e là vedrai un saggio prete di nome Nicola. Farete vescovo lui, poiché è degno di governare il popolo secondo la volontà di Dio."

Dopo che il vescovo ebbe avuto questa visione, la riferì al resto dei vescovi, che resero grazie a Dio. Quindi entrò in chiesa e attese di vedere la persona di cui aveva parlato l'angelo. Mentre attendeva, vide San Nicola che veniva in chiesa a pregare. Comprendendo chi era, il vescovo chiese: "Figlio mio, qual'è il tuo nome?" E il santo replicò dolcemente: "Nicola, santo presule." Appena lo udì, il vescovo gli disse: "Seguimi." Prendendolo per mano, lo condusse presso gli altri vescovi e membri del clero. Quando lo videro, resero grazie a Dio per aver dato loro un tale pastore. In seguito, al momento della sua consacrazione, il vescovo disse al popolo: "Fratelli, ricevete il degno vescovo che vi è stato inviato da Dio." E così egli fu consacrato vescovo. Ma continuò a lavorare e sforzarsi, a tenere veglie e digiuni, a fare la carità e a faticare per il bene di tutti.

Il diavolo, invidioso di tutto ciò che è buono, non poteva sopportare di vedere i cristiani crescere in pietà e aumentare di numero. Perciò incitò gli Imperatori Diocleziano e Massimiano contro i cristiani. Questi due inviarono magistrati feroci e disumani che ovunque proclamarono che se i cristiani avessero rinnegato Cristo sarebbero stati tenuti in grande onore dagli imperatori, ma se avessero insistito a rimanere cristiani e si fossero rifiutati di adorare gli idoli, sarebbero stati puniti severamente e torturati. Così molti cristiani confessarono apertamente Cristo e morirono dopo terribili sofferenze, ma altri, ahimè, rinnegarono Cristo per paura, e sacrificarono agli idoli. Ma quanti avevano paura e non volevano rinnegare Cristo o sacrificare agli idoli, fuggirono sulle montagne e si nascosero nelle caverne.

Gli editti imperiali si estesero anche a Mira, alla diocesi di San Nicola. I magistrati arrestarono il santo, lo sottoposero a terribili torture, e lo imprigionarono con gli altri cristiani. Mentre era in prigione, il santo sopportò volontariamente tutte le sofferenze e passò molto del suo tempo a insegnare ai cristiani e a esortarli a rimanere saldi nella fede.

Quando gli imperatori morirono, il loro successore, Costantino il Grande, decretò che tutti i cristiani imprigionati fossero liberati. In questo modo San Nicola fu di nuovo reinsediato come vescovo e pastore di Mira. Incoraggiato dal decreto dell'imperatore, San Nicola andò in cerca degli altari degli dèi pagani nella sua diocesi e pregò davanti a loro. Per il potere delle sue preghiere quegli altari caddero a terra e si sgretolarono in polvere. Dovunque accadeva ciò, i demoni che fino a quel momento erano stati adorati là come dèi volavano via nell'aria urlando la loro miserabile sorte. Nella stessa Mira c'era un altare della dea Artemide che era molto più grande di tutti gli altri, sia in altezza che in larghezza. Volendo eliminare anche questo altare, egli andò là a pregare. L'altare e gli idoli caddero immediatamente a terra, e si udì un rumore simile al fruscio delle foglie in un forte vento d'autunno. I demoni che vi dimoravano volarono fuori, gridando al santo: "Ci hai scacciati. Noi non ti abbiamo offeso, ma tu ci hai scacciati dalla nostra casa. In questo luogo avevamo la nostra dimora, ingannando gli uomini che ci adoravano. Dove andremo ora?" Il santo disse loro: "Andate nelle tenebre esterne, assieme al diavolo e ai suoi angeli." In questo modo, tutti gli altari pagani di quest'area furono distrutti.

Durante il regno di Costantino il Grande, apparve ad Alessandria l'eretico Ario. In principio sembrava devoto, e San Pietro, martire e vescovo (300-301), lo ordinò diacono. Ma dopo essere stato ordinato, iniziò a dire che Cristo non è veramente Dio, bensì una creatura fatta da Dio. Quando il vescovo vide che bestemmiava, lo sospese dal diaconato. Dopo la morte di San Pietro, Achille (311-312) divenne Arcivescovo di Alessandria, fece tornare Ario alla fede ortodossa e lo ordinò arciprete ad Alessandria. Finché visse Achille, Ario rimase ortodosso, ma quando Achille morì e Sant'Alessandro (313-328) assunse il trono, Ario iniziò ancora una volta a bestemmiare. Vedendo che Ario non solo si rifiutava di ravvedersi, ma voleva anche attrarre altri nel suo inganno, il vescovo lo sospese e lo scomunicò. Ario, tuttavia, continuò a predicare la sua corrotta dottrina e a convertire altri, inclusi molti chierici e vescovi, alla sua vile eresia.

Quando Costantino il Grande vide la confusione nella Chiesa, mandò ovunque ordini che intimavano a tutti i vescovi e abati di radunarsi nella città di Nicea per dibattere con Ario e determinare se fosse colpevole di offesa e bestemmia. In risposta, 232 vescovi, e 86 preti, diaconi e monaci (un totale di 318) si riunirono nell'anno 325. Tra i grandi santi che presero parte a questo primo Concilio Ecumenico vi erano i seguenti: Silvestro, Papa di Roma; Metrofane, Patriarca di Costantinopoli; Alessandro, Patriarca di Alessandria, e il suo attendente Atanasio il Grande, che al tempo era ancora un diacono; Eustazio, Patriarca di Antiochia; Macario, Patriarca di Gerusalemme; Pafnuzio il Confessore; Spiridione, Vescovo di Trimitunte; e altri, tra i quali il grande taumaturgo Nicola. L'imperatore sedette sul suo trono circondato da 159 Padri che rappresentavano entrambe le parti. Ebbero luogo molte amare dispute con Ario.

Quando San Nicola vide che Ario era intento a zittire tutti i vescovi, fu colmato di santo zelo e diede ad Ario un tale schiaffo da farlo barcollare sui suoi piedi. Ario quindi si lamentò presso l'imperatore: "O giusto re, è legittimo colpire qualcuno alla presenza della tua maestà? Se costui ha qualcosa da dire, che parli come fa il resto dei Padri; se invece è ignorante, che mantenga il silenzio come fanno anche gli altri. Ma perché mi schiaffeggia in presenza della tua maestà?"

Udendo ciò, l'imperatore disse con tristezza ai vescovi: "La legge richiede che la mano di una persona che osa colpire qualcuno in presenza del re sia tagliata. Ma io lascerò alle vostre santità di formulare un giudizio su questo atto." I vescovi concordarono che San Nicola aveva agito in modo sbagliato, e chiesero a Costantino di espellerlo dal Sinodo e di metterlo in prigione, per ricevere una sentenza alla fine dei loro lavori. Il santo fu quindi rimproverato e imprigionato.

In quella notte, tuttavia, Cristo e la Deìpara apparvero a San Nicola in prigione e dissero: "Nicola, perché sei in prigione?" Il santo replicò: "Perché vi ho amati." Cristo gli disse dunque: "Prendi questo." E diede al santo un libro dei Vangeli, mentre la Deìpara gli donava un omoforio da vescovo.

Il giorno dopo alcuni conoscenti del santo andarono a portargli del pane. Vedendolo libero dalle catene, con l'omoforio sulle spalle e intento a leggere il libro dei Vangeli, gli chiesero dove li avesse presi. Egli raccontò loro tutto ciò che era accaduto. L'imperatore, apprese queste cose, lo rilasciò dalla prigione e gli chiese perdono. Gli altri vescovi fecero lo stesso. Alla conclusione del Concilio, tutti i vescovi, incluso San Nicola, fecero ritorno alle loro diocesi.

Vi fu un giorno una severa carestia in Licia, la peggiore che tutti si ricordassero, e Mira, la diocesi del santo, era in pericolo di rovina. Il santo, preoccupato per il suo gregge, si chiese cosa poteva fare. Allo stesso tempo, una nave stava portando un carico di frumento in Gallia. Durante la notte, San Nicola apparve al capitano di questa nave nel sonno, e disse: "Portate il frumento che state trasportando a Mira in Licia, e non in Gallia. Là c'è una terribile carestia, e lo venderete velocemente e a un prezzo molto alto. Ecco tre monete d'oro per te come acconto. Quando arriverete, riceverete il resto del denaro." Quando il capitano si svegliò al mattino, trovò le monete nella sua mano. Parlò all'equipaggio del suo sogno, e mostrò loro le monete. Quindi fece vela per Mira di Licia, poiché pensava che queste cose provenissero da Dio, e sperava di trarre profitto da questo viaggio. Arrivato a Mira, vendette il grano con grande profitto, e il popolo glorificò Dio, che si prende cura di quanti sperano in lui.

In Asia Minore c'era una regione chiamata Frigia Maggiore, e un'altra area chiamata Frigia Minore. In Frigia Maggiore viveva un popolo straniero chiamato Tefali. Questo popolo si ribellò e fondò un proprio regno, indipendente dall'impero di Costantino. Quando Costantino il Grande seppe della rivolta in Frigia, inviò tre generali e un esercito addestrato per riportare la pace nell'area. I generali da lui inviati erano Nepoziano, Urso ed Erpulione. Giunti per mare, arrivarono ad Andriaki, il porto di Mira. Il tempo era molto brutto, tuttavia, e così rimasero lì ad aspettare un clima favorevole. Il soldati dell'esercito andavano a Mira a comprare cibo, ma dato che erano abituati all'illegalità, creavano grande disturbo al mercato di Mira, saccheggiando ovunque andassero.

Quando il santo seppe del disturbo, andò al porto, trovò i tre generali e chiese: "Chi sono le vostre eccellenze?" I tre risposero umilmente: "Siamo servitori dell'imperatore e della tua santità, e stiamo procedendo su comando dell'imperatore per pacificare i Tefali in rivolta. Ma a causa del cattivo tempo, siamo stati obbligati a rimanere qui finché il tempo non migliorerà." Il santo replicò: "Dato che siete stati inviati dall'imperatore per pacificare popoli in rivolta, perché venite a causare disturbo a gente pacifica?" I generali, che erano cristiani e uomini buoni, furono sconvolti a udire queste cose e chiesero al santo: "Chi è, santo presule, che sta creando disturbo?" Il santo rispose: "Voi stessi. Dato che lasciate che i vostri soldati saccheggino un mercato pubblico, voi ne siete colpevoli." I generali andarono direttamente al mercato di Mira. Fecero percuotere alcuni soldati, ne rimproverarono altri, e così rettificarono la situazione. Quindi il santo ricevette i generali nella sua residenza. Li intrattenne, e diede loro consigli come un buon padre. Li benedisse e li accompagnò lietamente ad Andriaki, il porto di Mira, da dove i generali, assieme all'esercito, si prepararono a salire sulle navi e a salpare.

Mentre il santo ritornava in città, vide molti uomini e donne che gli correvano incontro e gli chiedevano di agire in fretta per liberare i loro parenti che il governatore del luogo, Eustazio, aveva condannato ingiustamente dopo essere stato corrotto dai loro nemici. Il santo, saputo di questo ingiusto verdetto, ritornò al porto e chiese ai generali di seguirlo. Iniziò quindi a correre verso il luogo dell'esecuzione per incontrare i prigionieri e liberarli dalla morte. Mentre correva, chiedeva a tutti coloro che vedeva se avevano visto i prigionieri.

Alla fine giunse, coperto di sudore, al luogo dell'esecuzione - proprio all'ultimo momento. Afferrò la spada sguainata nella mano del boia mentre stava per decapitare i condannati. Liberò pure le loro mani dalle catene. Così liberati, se ne andarono con lui, esultando e glorificando Dio e San Nicola.

Quando si sparse in città la voce di ciò che aveva fatto San Nicola, una moltitudine di persone si affrettò a incontrarlo. Venne anche Eustazio, a cavallo, affrettandosi per vedere cos'era accaduto. Quando San Nicola lo vide, lo rimproverò per aver emesso un verdetto ingiusto e per avere condannato uomini innocenti per intascare un compenso. Eustazio quindi confessò che i suoi due vicegovernatori, Simonide ed Eudossio, avevano testimoniato contro gli uomini, e per questa ragione egli aveva dato il verdetto. Quindi il santo si rivolse ai tre generali e chiese loro di informare l'imperatore dell'azione del governatore, perché anch'egli comprendesse che Eustazio era un giudice ingiusto. Udendo questo, Eustazio, terrificato, cadde ai piedi del santo, implorando il perdono e confessando che egli stesso aveva dato un verdetto ingiusto. Quindi il santo lo rialzò e gli espresse il suo affetto.

Dopo che i tre generali ebbero visto tutte queste cose, salirono sulla nave e salparono. Arrivati in Frigia, pacificarono i Tefali e fecero ritorno a Costantinopoli per fare i loro omaggi all'imperatore e per offrirgli il resoconto di ciò che avevano compiuto con i Tefali. L'imperatore li lodò, diede loro molti doni e concesse loro onori ancor più grandi.

I tre generali, Nepoziano, Urso ed Erpulione, divennero reggenti dell'Impero. Certi uomini, però, non sopportavano di vederli tanto onorati, e così andarono da un ministro dell'imperatore chiamato Ablavio e gli dissero: "Vedi cosa hanno fatto i tre generali? L'imperatore li ha inviati a pacificare i Tefali, ma la verità è che hanno cospirato con i Tefali per ribellarsi contro l'imperatore."

Udendo queste cose, Ablavio si mise a pensare come risolvere questa faccenda. I calunniatori videro che nulla si poteva ottenere senza denaro, così lo pagarono, ed egli imprigionò i tre generali senza che l'Imperatore Costantino lo sapesse. Così essi rimasero in prigione senza neppure saperne la causa. I loro invidiosi accusatori, per di più, avevano paura che le loro menzogne fossero scoperte da Ablavio e dall'imperatore. Così portarono ad Ablavio ancor più denaro e gli chiesero di ordinare l'esecuzione dei generali prima possibile, sotto il pretesto che stavano cospirando con i Tefali, che sarebbero venuti a liberarli. Quando Ablavio vide che era costretto perfino a far uccidere i generali, e temendo che gli venisse chiesto di restituire il denaro se non lo avesse fatto, si affrettò ad andare dall'imperatore e, fingendo di essere triste, gli disse: "Molti anni a te, maestà! I tre generali, Nepoziano, Urso ed Erpulione, che hai inviato a pacificare i Tefali, non hanno portato a termine il tuo ordine. Invece, sono passati dalla parte dei Tefali e hanno cospirato per ribellarsi contro la tua maestà. Perciò li ho fatti imprigionare. Ora la tua maestà, in quanto giudice, dovrebbe dare l'ordine della loro esecuzione, in modo che gli altri cospiratori possano vedere ciò che è successo loro, e possano correggersi." quando l'imperatore udì queste cose, pensò che Ablavio dicesse la verità, e ordinò di annunciare ai generali che sarebbero stati decapitati il giorno seguente. Ablavio scrisse quindi il verdetto e lo spedì alla prigione dove il decreto sarebbe stato proclamato. Dopo averlo ricevuto, il carceriere venne a dire ai prigionieri: "Domani sarete decapitati. Tutto ciò che volete disporre riguardo alle vostre famiglie e alle vostre proprietà, fatelo molto in fretta." Quando i generali udirono questo verdetto, restarono come paralizzati, non sapendo perché un simile giudizio fosse stato emesso contro di loro. Si dissero l'un l'altro: "Che cosa abbiamo fatto contro Dio e l'imperatore da essere condannati in questo modo? Che peccati abbiamo compiuto, per i quali vogliono ucciderci? Nepoziano disse: "Fratelli miei, siamo giunti a un punto in cui il potere umano non ci può più aiutare. Rammentatevi di ciò che è accaduto a Mira di Licia, quando il grande Nicola ha liberato i tre uomini da una morte ingiusta. Egli sa anche di noi, e sa che non abbiamo nessuno che ci aiuti. Preghiamo Dio e San Nicola. Forse il suo aiuto arriverà in tempo e salverà noi che siamo innocenti e non sappiamo neppure perché siamo condannati." Quando gli altri udirono questa proposta, pregarono insieme con lacrime, dicendo: "O Signore Iddio del nostro Padre Nicola, che ha salvato i tre uomini a Mira da una morte ingiusta, non dimenticarti di noi, che pure ci troviamo in pericolo di morte. Liberaci dalla mano del nostro nemico. Vieni in nostro aiuto, poiché domani dovremo morire."

Dio vide questa ingiustizia e desiderò glorificare il suo santo. Perciò, quella notte stessa, poco prima dell'alba, il grande Nicola apparve in sogno all'Imperatore Costantino e gli disse: "Maestà, alzati presto e libera i tre uomini che hai condannato a morte. Altrimenti, pregherò Dio di toglierti la vita." L'imperatore disse: "Chi sei tu che mi minacci, e com'è che sei in grado di venire a me in quest'ora?" Il santo replicò: "Io sono Nicola, vescovo di Mira, e Dio mi ha inviato a dirti di liberare i tre che sono stati condannati ingiustamente." Immediatamente, l'imperatore si svegliò.

Il santo apparve quindi ad Ablavio e gli disse: "Ablavio, tu hai accettato denaro per fare un torto a tre uomini che non sono colpevoli di alcun crimine. Alzati in fretta e liberali, perché se non lo fai, io pregherò Dio e tu perderai la vita." Ablavio chiese: "Chi sei tu?" E il santo rispose: "Io sono Nicola, servo di Dio e vescovo di Mira." Ablavio si svegliò immediatamente, e mentre stava considerando il significato della sua visione, arrivarono i servitori dell'Imperatore Costantino e gli dissero: "Affrettati, poiché l'imperatore sta chiedendo di te." Egli andò subito a presentarsi all'imperatore, che vedendolo iniziò a raccontargli della sua visione. Ablavio disse: "Maestà, anch'io ho visto lo stesso sogno nel mio sonno, e non sono in grado di spiegare che cosa significhi. Perciò portiamo qui i tre uomini e chiediamo loro spiegazioni a proposito."

Allora i tre generali furono condotti davanti a loro, e l'imperatore chiese: "Che magia avete fatto, per mandarci un sogno così terribile? Liberatecene, perché non ci avvenga di morire." Quando i tre generali lo udirono, iniziarono a piangere guardandosi l'un l'altro, e l'imperatore comprese dalle loro lacrime e dalla loro paura che erano incapaci di rispondere. Allora parlò loro con gentilezza e disse: "Rispondetemi, e non abbiate paura del vostro amico il re." Vedendo la sua gentilezza, essi risposero in lacrime: "Maestà, noi non conosciamo alcuna magia, né abbiamo mai pronunciato una parola aspra contro la tua maestà, e siamo pronti a giurarlo di fronte a Dio, che vede tutto e ne è testimone. Noi, Maestà, siamo stati educati dai nostri genitori a rispettare prima Dio e poi il Re. Perciò quando ci hai inviati in Frigia per risolvere il problema con i Tefali lo abbiamo fatto, e con l'aiuto di Dio abbiamo compiuto la tua volontà. Abbiamo sperato che tu ci onorassi - eppure non solo abbiamo ricevuto disgrazie al posto dell'onore, ma siamo pure stati condannati a morte."

L'imperatore, udendo queste cose, si tranquillizzò nel suo cuore e chiese loro: "Ditemi, vi siete forse appellati a un certo santo durante la notte?" Essi risposero dicendo: "Maestà, molti anni a te. Ci siamo appellati a Dio, piangendo e dicendo: 'O Signore, Signore Iddio del nostro Padre Nicola, per la cui intercessione tre uomini a Mira sono stati salvati da una morte ingiusta, libera anche noi da questi calunniatori.' "

Udendo il nome di Nicola, l'imperatore chiese: "Chi è questo Nicola, del quale parlate, dicendo che in qualche modo ha liberato tre uomini a Mira?"

Nepoziano rispose raccontando all'imperatore tutto ciò che essi avevano visto a Mira, e tutto quanto aveva fatto San Nicola. E concluse dicendo: "Tutte queste cose, maestà, le abbiamo viste con i nostri occhi. Ricordando il bene che il santo aveva fatto a quei tre, ci siamo appellati a Dio in lacrime per potere a nostra volta ricevere aiuto attraverso l'intercessione del santo."

Quando l'imperatore ebbe udito queste cose, pieno di contrizione disse ai tre: "Vi faccio grazia delle vostre vite. Sappiate che è per grazia di San Nicola che siete stati liberati dalla morte. Pertanto andate presto da lui e chiedetegli di tonsurarvi monaci. Fategli sapere che non c'è nulla da temere da parte mia." Dicendo queste cose, l'imperatore diede loro anche un libro dei Vangeli rilegato in oro, un incensiere d'oro incastonato di pietre preziose, e due grandi candelabri placcati d'oro da portare alla chiesa di San Nicola a Mira. I tre presero questi oggetti e partirono per Mira, dove divennero monaci. Diedero parte dei loro averi alla chiesa del santo, parte ai poveri, e parte ai loro parenti.

Un giorno alcuni marinai erano in pericolo di annegare in mare. Poiché avevano sentito parlare del santo, si appellarono a lui, dicendo: "O San Nicola, aiutaci ora, poiché stiamo per annegare." Immediatamente, il grande Nicola apparve sul ponte della nave, e prendendo il timone, iniziò a governarlo. Quindi disse ai marinai: "Non abbiate paura, poiché io sono con voi. Vi siete rivolti a me e io sono giunto ad aiutarvi." In seguito il vento divenne più mite, il mare si calmò, e il santo scomparve. Allora i marinai si dissero l'un l'altro: "Attracchiamo la nostra nave al porto di Mira, andiamo da San Nicola e ringraziamolo personalmente per il suo aiuto." Quando sbarcarono, chiesero dove si trovasse il vescovo, e fu loro detto che era appena andato in chiesa con i suoi preti. Si affrettarono a raggiungerlo e lo riconobbero immediatamente come la stessa persona che avevano visto in mare. Cadendo ai suoi piedi, gli dissero: "Ti ringraziamo, o servo di Dio, perché se non fossi accorso da noi in tempo, saremmo annegati in mare."

I marinai raccontarono quindi la loro storia al santo. Ma il santo, conoscendo ogni cosa per la grazia del santo Spirito che dimorava in lui, sapeva che i loro cuori non erano puri. E così iniziò a istruirli, dicendo: "Vi supplico, figli miei, esaminate le vostre volontà e i pensieri dei vostri cuori e delle vostre menti, e fatevi guidare dalla volontà di Dio. Infatti potete riuscire a ingannare gli uomini e apparire buoni, ma non è possibile nascondersi a Dio. Gli uomini vedono i vostri volti, ma Dio vede i vostri cuori. Le Scritture ci dicono di fare e di apprezzare il bene e di non corrompere i nostri corpi, poiché, come dice San Paolo: 'Voi siete il tempio di Dio, e se qualcuno contamina il tempio di Dio, Dio lo distruggerà' (1 Cor 3:16-17). Se ricordate questo e fate ciò che è bene, avrete sempre l'aiuto di Dio."

Dopo che il santo li ebbe istruiti in questo modo, li lasciò e ritornò alla sua residenza. E i marinai, beneficiando in qualche modo dei suoi insegnamenti e anche del suo aiuto in mare, lasciarono quel luogo, lodando Dio e ringraziando il santo.

Tale era la dignità e l'aspetto angelico del santo, che chiunque lo vedeva per la prima volta in una folla poteva riconoscerlo. Il suo volto brillava così intensamente e il suo portamento era tanto maestoso che tutti quanti lo vedevano erano immediatamente ricolmi di santa emozione e di fervore religioso. Se una persona infelice andava a raccontargli le sue disgrazie, egli sentiva la sua tristezza sollevata e il suo cuore pieno di gioia semplicemente alla sua vista.

Quando il Signore volle chiamare a Sé San Nicola, il santo lo pregò di inviare i suoi angeli ad accompagnarlo. E quando li vide arrivare, piegò il capo e recitò il Salmo, "In te, O Signore, affido la mia speranza." Quando giunse alle parole, "nelle tue mani rimetto il mio spirito," effuse l'anima al suono di una musica celeste. Questo ebbe luogo nell'anno del Signore 330.

Il santo lasciò sulla terra il suo corpo prezioso a beneficio degli uomini, ma la sua anima benedetta salì al cielo in mezzo all'esultanza e agli inni degli angeli. Gli orfani e i poveri piansero perché furono privati del loro padre e della loro guida. Gli abitanti di Mira e i forestieri si lamentarono per avere perso un simile pastore e maestro. Ma i santi angeli e arcangeli gioirono a ricevere tra loro un tale santo. I martiri gioirono a vedere un loro compagno di martirio. I retti esultarono al vedere uno di loro. In altre parole, tutti gli ordini dei Santi e dei giusti gioirono in quel giorno.

Il sesto giorno del mese di dicembre, il santo fu sepolto in una tomba di marmo nella cattedrale di Mira. Una fontana d'olio iniziò a fluire dal suo capo, e una fontana d'acqua dai suoi piedi. Un giorno quest'olio cessò di fluire quando il successore di San Nicola, un uomo eccellente, fu scacciato dalla sua sede da avversari invidiosi. Ma appena il vescovo fu reinsediato nella sua sede, l'olio fluì di nuovo.

A Mira fu costruita una grande chiesa in onore di San Nicola, e ogni anno vi giungevano persone da vicino e da lontano a offrire preghiere.

Un giorno alcuni cristiani stavano salendo su una nave diretta a Mira dove avrebbero venerato le sacre reliquie del santo. Il principale dei demoni che era stato scacciato da San Nicola fuori dall'altare della dea Artemide, desiderando fare qualche danno al santuario del santo, prese la forma di una povera vecchia che reggeva un'ampolla piena d'olio. Mentre i cristiani si stavano raggruppando per entrare nella nave, ella apparve e disse loro: "Dove andate, fratelli miei?" Essi replicarono: "A Mira di Licia, per venerare le sacre reliquie di San Nicola." Allora il demone travestito disse: "Vi supplico, fratelli miei, portate quest'ampolla d'olio alla chiesa del santo, perché arda in una lampada per i peccati della mia anima. Io non sono in grado di venire con voi perché il mare mi dà le vertigini. Perciò vi prego di portarla con voi, e che sia per il bene di tutti noi." I marinai, inconsapevoli del trucco del demone, presero l'ampolla d'olio e salparono come al solito, senza preoccupazioni.

Circa a mezzanotte, San Nicola apparve al capitano della nave e gli disse: "Quando giunge l'alba, getta in mare l'ampolla che vi ha dato quella povera donna, poiché è un trucco del diavolo per bruciare la mia chiesa. Se hai qualche esitazione a gettarla in mare, non avere paura. Io ti aiuterò, e non ne avrai alcun danno."

All'alba del mattino successivo, il capitano raccontò il suo dramma. Quindi, prendendo l'ampolla d'olio, la gettò in mare. Immediatamente, una grande fiamma scaturì dal mare accompagnata da ondate di fumo dall'acre odore di zolfo. Il mare salì e l'acqua si ammassò in ampie onde che sembravano voler travolgere la nave. A questa vista, i marinai non seppero che fare e caddero con la faccia a terra per la paura esclamando: "San Nicola, vieni presto in nostro soccorso!" Ben presto, la bufera si calmò e quanti erano a bordo della nave si ripresero dalla loro angoscia. Quindi esultarono e glorificarono Dio e il grande Nicola.

A Costantinopoli c'era un cristiano pio e fedele che aveva il più grande affetto per il nostro Santo Padre Nicola, e che a sua volta era da lui amato. Un giorno dovette viaggiare per affari necessari, e andò per prima cosa al tempio di San Nicola e pregò con tutto il suo cuore. Quindi salutò parenti e amici e salpò con una piccola nave. Circa all'ora nona della notte, i marinai si alzarono per ridurre le vele a causa di un cambiamento del vento, e anche l'uomo si alzò. Mentre i marinai riducevano le vele, rimase impigliato nelle corde, e perdendo completamente l'equilibrio, cadde in mare. I marinai, anche se videro quanto accadeva, non poterono fare nulla per ricuperarlo dal mare. Infatti, era completamente buio, e un vento improvviso sospinse la nave in avanti. Non poterono fare altro che lamentarsi e piangere l'amara morte dell'uomo.

Ora, colui che era caduto in mare andò verso il fondo, dato che era pesantemente vestito. Eppure si ricordò di San Nicola e gli gridò mentalmente una richiesta di aiuto. E in quello stesso istante fu trasportato alla sua casa. Nel suo panico non se ne accorse, e pensò di essere ancora sul fondo del mare. Così iniziò a chiamare ad alta voce: "San Nicola, aiutami!" Quanti erano in casa sua, udendo la sua voce, si svegliarono e portarono un lume. Anche i vicini udirono la sua voce dall'esterno e accorsero in casa. Alla fine l'uomo, vedendo che era davvero all'interno di casa sua, iniziò a piangere ancor di più, e una grande quantità di acqua marina uscì dai vestiti che indossava. Allora, tanto era stupito e sbigottito, fece silenzio, non sapendo cosa dire. Alla fine domandò: "Fratelli, che cos'è che ha avuto luogo? So molto bene che alle nove del mattino vi ho salutati e sono salito sulla nave, che grazie al vento favorevole ha fatto molta strada. Circa alla seconda o alla terza veglia della notte sono salito sul ponte, ho perso l'equilibrio e sono caduto in mare. No chiesto aiuto a San Nicola, e ora mi trovo qui. Non so come sia successo, e se voi lo capite vi supplico di dirmelo, perché sono sconvolto e mi sembra di impazzire."

I cristiani radunati, udendo queste cose e vedendo l'acqua di mare che colava dai vestiti dell'uomo, si rallegrarono per il salvataggio miracoloso della vita del loro fratello, e per molte ore versarono lacrime gridando: "Kyrie eleison."

Quell'uomo beato si cambiò quindi i vestiti bagnati e andò nel tempio di San Nicola a passare le restanti ore della notte, inchinandosi con lacrime all'icona del santo, pregando e ringraziando con meraviglia e con sorpresa.

Quando i fedeli giunsero come al solito nel tempio del santo per il mattutino, lo trovarono illuminato e sentirono il dolce e gradevole aroma dell'incenso che il cristiano salvato aveva portato al santo. Ne chiesero il significato, e appreso il miracolo, rimasero affascinati e glorificarono Dio e resero grazie al grande Vescovo Nicola.

Questo miracolo del santo fu reso noto al Patriarca di Costantinopoli, che invitò il cristiano salvato a un sinodo e gli chiese di narrare apertamente la sua esperienza di fronte a tutti. E tutti i presenti, udendo queste cose, esclamarono: "Grande sei Tu, o Signore, e mirabili sono le tue opere, e nessuna parola è sufficiente a cantare le tue meraviglie!" Proclamando ad alta voce l'accaduto a tutti, i cristiani si radunarono nel tempio di San Nicola, e recitando litanie e tenendo veglie, glorificarono e lodarono Iddio, dando un degno ringraziamento al suo fedele servitore, San Nicola.

Un uomo aveva preso in prestito del denaro da un ebreo, facendogli un giuramento sull'altare di San Nicola che lo avrebbe ripagato prima possibile. Dato che era in ritardo nei pagamenti, l'ebreo pretese indietro il suo denaro, ma l'uomo dichiarò di averlo restituito. Fu convocato davanti al giudice, che gli ordinò di giurare che aveva restituito il denaro. Nel frattempo, l'uomo aveva nascosto il denaro nell'interno di un bastone cavo, e prima di fare il giuramento, chiese all'ebreo di reggergli il bastone. A quel punto, giurò di avere restituito il denaro, e con gli interessi. Quindi riprese indietro il suo bastone, mentre l'ebreo rimaneva completamente inconsapevole del trucco. Ma sulla strada di casa il truffatore cadde addormentato sulla strada e fu travolto da un carro, che ruppe pure il bastone in cui era nascosto il denaro. Saputo dell'incidente, l'ebreo corse sul luogo. Anche se i presenti lo esortavano a riprendersi il suo denaro, egli disse che lo avrebbe fatto solo se, per grazia di San Nicola, il morto fosse ritornato alla vita. Disse inoltre che in tal caso avrebbe ricevuto il battesimo e si sarebbe convertito alla fede di Cristo. Immediatamente il morto tornò in vita, e l'ebreo fu battezzato.

Un altro ebreo, vedendo il potere miracoloso di San Nicola, mise un'icona del santo nella sua casa. Ogni volta che doveva lasciare la casa per una lunga assenza, diceva all'icona: "Nicola, ti affido la cura dei miei beni; ma se non li sorvegli per me come ti chiedo, mi vendicherò spezzando la tua icona." Ora, un giorno in cui l'ebreo era assente, giunsero i ladri e portarono via ogni cosa, lasciando solo l'icona. E quando l'ebreo vide che era stato derubato, disse all'icona: "Signor Nicola, non ti ho forse installato in casa mia per proteggere i miei beni? Perché non lo hai fatto? Ebbene, sarai punito tu al posto dei ladri! Farò a pezzi la tua icona. Questo almeno calmerà la mia ira!" E iniziò a percuotere con forza l'icona. A questo punto il santo apparve ai ladri, che stavano dividendo il bottino, e disse loro: "Guardate come sono stato picchiato al posto vostro! Il mio corpo è nero e blu. Presto! Andate a restituire quanto avete preso, o la collera di Dio cadrà su di voi, e sarete impiccato." I ladri risposero: "E chi sei tu, che ci dici tutto questo?" Egli replicò: "Sono Nicola, il servo di Cristo; e colui che mi ha fatto questo è l'ebreo che voi avete derubato." Terrificati, essi corsero alla casa dell'ebreo, gli raccontarono la loro visione, appresero da lui ciò che aveva fatto all'icona, gli restituirono tutti i suoi beni, e ritornarono sul sentiero della virtù; l'ebreo, da parte sua, si convertì alla fede cristiana.

Un uomo celebrava la festa di San Nicola ogni anno con grande solennità, a nome di suo figlio che era uno studente. Un giorno, nel mezzo della festa, il diavolo, sotto forma di un pellegrino, bussò alla porta e chiese l'elemosina. Il padre ordinò subito al figlio di portare aiuti al pellegrino; il giovane, non trovandolo alla porta, lo seguì fino a un crocevia dove il diavolo lo assalì e lo strangolò. Saputo ciò, il padre pianse; e riportando il corpo a casa e deponendolo sul letto, gridò: "San Nicola, è questa la mia ricompensa per gli onori che ti ho reso per così tanti anni?" All'istante il giovane, come se si stesse svegliando dal sonno, aprì gli occhi e si alzò in piedi.

Un nobile aveva pregato San Nicola di fargli avere un figlio, e gli aveva promesso in cambio che sarebbe andato con il figlio alla tomba del santo offrendogli una coppa d'oro. Ebbe un figlio, e ordinò la coppa. Ma questa gli piacque così tanto che la tenne per sé, e ne ordinò per il santo un'altra di pari valore. Quindi prese la nave con suo figlio per andare alla tomba del santo. Sulla strada, il padre chiese al figlio di andargli a prendere dell'acqua nella prima coppa, che era stata destinata a San Nicola. In un baleno il figlio cadde nel fiume e annegò. Ma il padre, nonostante il dolore, proseguì il cammino. Giunto alla chiesa di San Nicola, mise la seconda coppa sull'altare, e nello stesso istante una mano invisibile spinse indietro lui e la coppa e lo gettò a terra. Si rialzò, ritornò all'altare e di nuovo fu respinto. E quindi, con grande stupore di tutti, apparve il figlio che tutti credevano morto. In mano teneva la prima coppa; e raccontò come, nel momento in cui era caduto in acqua, San Nicola lo aveva raccolto e lo aveva mantenuto sano e salvo. A quel punto il padre, sopraffatto dalla gioia, diede le due coppe a San Nicola.

Un uomo ricco aveva avuto un figlio attraverso l'intercessione di San Nicola, e lo aveva chiamato Teodoro. Costruì inoltre nella sua casa una cappella in onore del santo, dove celebrava solennemente la sua festa ogni anno. Ma un giorno Teodoro fu catturato da una tribù di arabi, e fu condotto come schiavo al re della tribù. L'anno seguente, il giorno di San Nicola, mentre serviva il re con una coppa preziosa in mano, in ragazzo iniziò a piangere e a sospirare al pensiero dell'angoscia dei suoi genitori e alla gioia che aveva sempre provato alla festa di San Nicola. Il re gli fece confessare la ragione della sua tristezza, e avendolo ascoltato, disse: "Il tuo Nicola può provare quanto vuole, ma tu rimarrai mio schiavo." Ma in quello stesso istante, si alzò un potente vento, che abbatté il palazzo del re, prese il ragazzo assieme alla coppa, e lo portò sulla soglia della cappella dove i suoi genitori stavano celebrando la festa di San Nicola.

Nell'anno del nostro Signore 1087, i turchi distrussero la città di Mira. Quarantasette soldati della città di Bari, in Italia, passavano da quelle parti, e quattro monaci aprirono per loro la tomba di San Nicola. Essi rimossero le ossa, che erano immerse nell'olio, e le portarono a Bari.

Nel decimo secolo, un autore greco sconosciuto scrisse quanto segue: "L'Occidente come l'Oriente lo acclama e lo glorifica. Dovunque vi sia popolazione, in campagna e in città, nei villaggi, nelle isole, nei luoghi più remoti della terra il suo nome è riverito e si costruiscono chiese in suo onore. Le sue icone sono poste nei luoghi pubblici, si declamano e sue lodi e si celebrano le sue feste. Tutti i cristiani, giovani e vecchi, uomini e donne, ragazzi e ragazze, riveriscono la sua memoria e invocano la sua protezione. E i suoi favori, che non conoscono limiti di tempo, continuano di epoca in epoca e si effondono su tutta la terra. Gli sciti li conoscono, così come gli indiani e i barbari, gli africani come gli italiani."

È l'immagine di San Nicola più d'ogni altra ad apparire sui sigilli bizantini. Nel tardo Medioevo quasi quattrocento chiese erano dedicate in suo onore nella sola Inghilterra, e si dice che egli sia stato rappresentato da artisti cristiani più frequentemente di qualsiasi altro santo tranne nostra Signora.

San Nicola è venerato come santo patrono di diverse classi di persone, specialmente i marinai in Oriente e i bambini in Occidente. I marinai del mare Egeo e del mar Ionio, seguendo una comune usanza orientale, avevano la loro "stella di San Nicola" e si auguravano l'un l'altro buon viaggio con la frase, "Possa San Nicola reggere la barra del timone." La liberazione dei tre ufficiali imperiali ha fatto in modo che San Nicola fosse invocato a favore dei prigionieri, e nel Medio Evo sono stati registrati molti miracoli dovuti al suo intervento.

La più grande devozione al santo, tuttavia, non si trova né nel Mediterraneo orientale, né nell'Europa occidentale, per quanto sia grande in entrambi i casi, ma in Russia. Assieme a Sant'Andrea Apostolo, è il patrono della nazione. Così tanti pellegrini russi giungevano a Bari prima della rivoluzione, che il loro governo vi finanziò la costruzione di una chiesa, un ospedale e un ospizio. Egli è anche il santo patrono della Grecia, della Puglia, della Sicilia e della Lorena, e di molte città e diocesi e di innumerevoli chiese.

Questa versione della vita di San Nicola è stata fatta in adempimento di voti a lui fatti, che egli si è degnato di onorare con molti miracoli.

Fine, e Gloria a Dio

 

 
Una regola di preghiera

Dal libro di san Teofane il Recluso, La vita spirituale e come essere in sintonia con essa

Mi chiedi di una regola di preghiera. Sì, è bene avere una regola di preghiera a causa della nostra debolezza in modo che da un lato non cediamo alla pigrizia, e d'altra parte tratteniamo il nostro entusiasmo nella misura corretta. I più grandi praticanti della preghiera hanno avuto una regola di preghiera. Iniziavano sempre con le preghiere stabilite, e se nel corso di queste una preghiera sorgeva spontanea, mettevano da parte le altre e pregavano con quella preghiera. Se questo è ciò che hanno fatto i grandi praticanti della preghiera, a maggior ragione dovremmo fare anche noi così. Senza le preghiere stabilite, non sapremmo affatto come pregare. Senza di loro, saremmo lasciati del tutto senza preghiera.

Tuttavia, non è necessario fare molte preghiere. È meglio compiere un piccolo numero di preghiere correttamente, invece che passare in fretta attraverso un gran numero di preghiere, perché è difficile mantenere il calore dello zelo di preghiera quando queste vengono recitate all'eccesso. Considero che le preghiere del mattino e della sera dei libri di preghiera siano del tutto sufficienti per te. Limitati ogni volta a seguirle con la massima attenzione e con i sentimenti corrispondenti. Per essere più efficace in questo, passa un po' del tuo tempo libero a leggere tutte le preghiere separatamente. Pensaci e cerca di sentirle, in modo che quando le reciterai nella tua regola di preghiera, conoscerai i pensieri e i sentimenti santi che sono contenuti in esse. La preghiera non significa limitarci a recitare le preghiere, ma anche assimilarne il contenuto in noi, e pronunciarle come se provenissero dalla nostra mente e dal nostro cuore.

Dopo aver considerato e sentito le preghiere, sforzati di memorizzarle. Allora non dovrai più armeggiare con il tuo libro di preghiere e con una luce quando è il momento di pregare; le cose che vedi non ti distrarranno mentre stai compiendo le tue preghiere, ma potrai più facilmente mantenere una petizione riflessiva verso Dio. Vedrai di persona quanto è grande questo aiuto. Il fatto che potrai avere il tuo libro di preghiere con te in ogni momento e in ogni luogo è di grande importanza.

Preparandoti così, quando ti trovi in ​​preghiera fai attenzione a mantenere le forme della tua mente alla deriva e i tuoi sentimenti lontano dalla freddezza e dall'indifferenza, esercitandoti in ogni modo a mantenere la tua attenzione e a suscitare il calore del sentimento. Dopo aver recitato ogni preghiera, fai delle prosternazioni (metanie), tante quante desideri, accompagnate da una preghiera per tutte le necessità che provi, o dalle solite brevi preghiere. In questo modo allungherai un po' il tuo tempo di preghiera, ma il suo potere sarà aumentato. Dovresti pregare un po' di più per conto tuo soprattutto alla fine delle tue preghiere, chiedendo perdono per le distrazioni non intenzionali della mente e mettendo te stessi nelle mani di Dio per l'intera giornata.

Devi anche mantenere un'attenzione orante verso Dio per tutta la giornata. Per questo, come abbiamo già detto più di una volta, c'è il ricordo di Dio; e per il ricordo di Dio, ci sono brevi preghiere. È bene, molto bene, memorizzare diversi salmi e recitarli mentre lavori o tra un'attività e un'altra, facendo talvolta questo invece di brevi preghiere, con concentrazione. Questa è una delle più antiche tradizioni cristiane, menzionata e inclusa nelle regole di san Pacomio e di sant'Antonio.

Dopo aver trascorso la giornata in questo modo, devi pregare più diligentemente e con più concentrazione alla sera. Aumenta le tue prosternazioni e petizioni a Dio, e dopo aver affidato la tua vita nelle mani divine, ancora una volta, vai a letto con una breve preghiera sulle labbra e addormentati con essa, o recitando qualche salmo.

Quali salmi dovresti imparare a memoria? Impara a memoria quelli che colpiscono il tuo cuore mentre li stai leggendo. Ogni persona troverà salmi differenti che sono i più efficaci per lei. Inizia con "Abbi misericordia di me, o Dio..." (Salmo 50); poi "Benedici, anima mia, il Signore..." (Salmo 102); e "Loda, anima mia, il Signore..." (Salmo 145). Questi ultimi due sono gli inni antifonali della Liturgia. Ci sono anche i salmi nel Canone della divina comunione: "Il Signore è il mio pastore..." (Salmo 22); "Del Signore è la terra e tutto ciò che la colma..." (Salmo 23); "Ho creduto, pertanto ho parlato..." (Salmo 115); e il primo salmo della Veglia della sera, "O Dio, vieni a salvarmi..." (Salmo 69). Ci sono i salmi delle Ore, e simili. Leggi il Salterio e fai la tua selezione.

Dopo aver memorizzato tutti questi salmi, sarai sempre armato di tutto punto con la preghiera. Quando arriva qualche pensiero inquietante, affrettati a cadere davanti al Signore con una breve preghiera o con uno dei salmi, in particolare "O Dio, vieni a salvarmi..." e la nuvola inquietante si disperderà immediatamente.

Ecco tutto quel che ti serve sul tema di una regola di preghiera. Io, però, ti ricordo ancora una volta che dovresti ricordare che tutti questi sono aiuti, e che la cosa più importante è "stare davanti a Dio con la mente nel cuore, con devozione e con una sentita prosternazione davanti a lui".

 
Padre Sergej Sveshnikov: La vita come sacramento

Un intervento alla St. Herman Orthodox Youth Conference il 24 dicembre 2011 a Ottawa, Canada

Introduzione

Tutti conosciamo i sacramenti della Chiesa e li riconosciamo come eventi o pietre miliari nella nostra vita cristiana: siamo battezzati, ci prepariamo per la confessione e la comunione, ci sposiamo, alcuni possono essere ordinati al santo sacerdozio... Questi importanti episodi ci forniscono il tempo e il luogo per essere faccia a faccia con Dio, per unirci a lui nella sua santa Chiesa, il suo corpo. Ma per quanto riguarda il resto della nostra vita? Bene, preghiamo per alcuni minuti la mattina e anche la sera. Ma che dire del resto? Troppo spesso, le nostre vite sono fratturate: c’è la parte cristiana - i sacramenti e le funzioni, le preghiere e le letture della Chiesa, e c’è la parte secolare - la scuola, il lavoro, una festa a casa di un amico, un film al venerdì sera, e la due parti sembrano essere tanto lontane quanto il levante dal ponente. In effetti, cosa c’è di tanto spirituale nel cucinare la colazione? Oppure, come si può essere (o non essere) un cristiano mentre ci si lava i denti? La stessa separazione molto meccanicistica tra la Chiesa e il resto della vita sembra tanto comune nel cristianesimo moderno, quanto la separazione tra la Chiesa e lo Stato. Ma ci può essere un altro modello? Esiste un modo per riconciliare i pezzi rotti della vita moderna fratturata e di vivere un’integra e semplice vita cristiana? Qui discuteremo il significato della parola "sacramento", il ruolo che svolgono i sacramenti nella nostra vita, e anche alcuni modi in cui possiamo guidare e plasmare la nostra vita di ogni giorno verso una maggiore connessione con Dio e con la sua Chiesa.

Che cos'è un sacramento?

Prima di iniziare la nostra discussione sui sacramenti, cerchiamo prima di definire che cos’è un sacramento in realtà. Questo compito non è del tutto in linea con la tradizione della Chiesa ortodossa. In realtà, la Chiesa ortodossa nel suo insieme non ha mai formulato una definizione precisa. Ciò nonostante, alcuni singoli teologi hanno cercato di definire la parola "sacramento". Il beato Agostino di Ippona, per esempio, ha scritto che "La Parola viene all'elemento; e quindi un sacramento, per così dire, è una sorta di parola visibile", o, in altre parole, "un sacramento è un segno visibile di una realtà invisibile "Un'altra definizione può essere trovata nel Catechismo esteso della Chiesa ortodossa cattolica orientale di san Filarete (Drozdov): "Un mistero o sacramento è un atto sacro, attraverso il quale la grazia, o, in altre parole, la potenza salvifica di Dio, opera misteriosamente sull'uomo".

Queste definizioni sono accettabili? In molti modi, lo sono. Tuttavia, queste definizioni lasciano aperte alcune domande. Per esempio, una brioche che possiamo aver mangiato a colazione è un segno visibile di una realtà invisibile? Certo! È un segno molto visibile, tangibile, e gustoso delle benedizioni che Dio dona alle fatiche dei contadini e dei panettieri. E che dire della preghiera che abbiamo fatto prima dell'inizio di questa Conferenza - è un sacramento? Secondo la definizione di San Filarete, sì, dal momento che è un atto attraverso il quale la grazia di Dio opera misteriosamente sull'uomo.

"Ma aspettate", si può dire: "non ci sono solo sette sacramenti?" Torneremo a questa domanda, ma prima, oserò offrire l'ennesima definizione di ciò che è un sacramento. Cerchiamo di definire un sacramento come un luogo e un tempo in cui un atto deliberato di Dio si intreccia con un atto deliberato dell'uomo. In altre parole, un sacramento è quando Dio e l'uomo lavorano insieme. Cosa stanno cercando di realizzare? Beh, sappiamo ciò che Dio sta cercando di realizzare, la salvezza dell'uomo, e ancor più precisamente, la theosis. Così, quando Dio e l'uomo collaborano nel processo di deificazione, quest'atto è un sacramento. Perché questa dualità è così importante? Perché, senza la volontà e la partecipazione di Dio, tutto quello che otteniamo sono atti o opere di uomini. E senza la volontà e la partecipazione dell'uomo, ciò che otteniamo è un miracolo operato da Dio solo. È solo quando i due atti si uniscono che abbiamo un sacramento.

Quanti sacramenti ci sono?

Nel XVI secolo, il Concilio cattolico di Trento stabilì che c'erano sette sacramenti, [1] e sono gli stessi sacramenti che troviamo nei libri ortodossi della Legge di Dio o nel Catechismo di san Filarete [2]: battesimo, cresima, confessione, comunione (o eucaristia), unzione, matrimonio, e ordinazione. Questo elenco è venuto nella tradizione ortodossa dall'Occidente latino, ed è diventato un punto di riferimento comodo e ben confezionato per libri di testo delle scuole domenicali e dei catechismi popolari. Tuttavia, a differenza della Chiesa cattolica romana, che scomunica chi dice che ci sono meno o più di sette sacramenti, [3] gli autori ortodossi hanno parlato da un minimo di due fino a dieci sacramenti [4], senza pretese di esclusività. In effetti, se un sacramento è un atto collaborativo di Dio e dell'uomo nel processo di deificazione, allora anche i voti monastici, per esempio, sono un sacramento, [5], e così è la benedizione dell'acqua.

Purtroppo, dopo diverse generazioni di bambini che imparano l'elenco dei sette sacramenti nelle loro lezioni della scuola domenicale, molti ortodossi equiparano i sacramenti a una lista di sette riti o rituali della Chiesa, che non sono solo relativamente rari (quanto spesso, per esempio, ci si fa battezzare o ci si sposa?), ma possono anche non essere per tutti (per esempio, le donne non possono essere ordinate, e i monaci non possono sposarsi). Quindi, cerchiamo di passare a parlare di alcuni dei sacramenti in modi che li rendono importanti per tutti noi, in tutta la nostra vita.

Il battesimo

Molti ortodossi laici e anche alcuni sacerdoti credono che una volta che una persona è stata battezzata da bambino, rimane ortodossa per il resto della sua vita. In realtà dovrebbe essere così, ma spesso non lo è. Il battesimo è l'ingresso nella Chiesa, sia come corpo mistico di Cristo che come istituzione umana stabilita da Dio. Ma nessuno di questi è un carcere, e chiunque è libero di uscire in qualsiasi momento. In realtà, ognuno di noi lascia la Chiesa per mezzo del peccato e non è più nel corpo di Cristo. Ricordiamo le parole di una preghiera che si sente durante la confessione: "Riconcilialo e uniscilo con la tua santa Chiesa..." Così è perché, a causa del peccato, diventiamo nemici della Chiesa, non siamo più nel corpo di Cristo, infrangiamo i nostri voti battesimali e contaminiamo la nostra veste battesimale. E dobbiamo riconciliarci e unirci di nuovo attraverso il pentimento. Così, il battesimo, mentre è di fatto un evento singolare, pone obblighi in tutto il corso della nostra vita; così come piantare un seme è un evento singolare, ma far crescere un albero richiede impegno e pazienza.

La confessione

Molte persone vedono anche la confessione come un evento singolare e talvolta raro. Alcuni vanno a confessarsi solo una volta l'anno (cosa che, per inciso, io considero un abominio). Altri possono confessarsi più spesso e anche più o meno regolarmente... ma cerchiamo di sostituire la parola "confessione" con la parola "pentimento". Qual è la differenza? Immaginate un ladro che racconta con orgoglio a un suo amico di tutte le cose che ha rubato, e poi va a rubare ancora. Ha appena confessato i suoi peccati, senza dubbio. Ma è pentito? Ora immaginate un cristiano che si confessa, enumera tutti i suoi peccati, ne è ben consapevole, e poi va e continua a vivere nel peccato. Questo può essere considerato un sacramento? Ovviamente no. Mentre Dio è pronto a cancellare i peccati della vita di questa persona, la persona stessa non vuole cancellarli, vuole tenerseli. Li confessa senza alcuna volontà di cambiare la sua vita, vale a dire, senza pentimento.

La parola "pentimento" ha una radice latina che non riflette il pieno significato del concetto ortodosso. L’equivalente greco – μετάνοια - significa cambiare la propria mente, non farla restare la stessa. [6] Perciò, pentirsi è decidere di allontanarsi dal peccato e di fare uno sforzo per non tornare a peccare. Ed è qui, all'interno dell’unione della volontà di Dio di agire per cancellare i nostri peccati e della nostra volontà di agire per allontanarci dal peccato - che il sacramento ha luogo. Così, il sacramento della penitenza non si limita a elencare i nostri peccati davanti a un prete e a ricevere un’assoluzione, ma continua nei seguenti minuti, ore, giorni, settimane e nel resto della nostra vita mutata e mutevole.

La comunione

Allo stesso modo, la comunione non è solo quel momento in chiesa quando riceviamo di fatto il corpo e il sangue di Cristo nella nostra bocca e inghiottiamo. Il termine latino communio significa "mettere in comune", [7], cioè la partecipazione alla natura e alla vita del Corpo di Cristo, diventando tutt'uno con esso, come disse l'apostolo Paolo, "non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me "(Gal 2,20). Si noti che l'Apostolo usava la parola "vive" - non "viene in visita" o "si ferma per un breve momento", ma "vive." Conoscete il famoso detto popolare, "Tu sei quello che mangi". Partecipiamo al corpo di Cristo per diventare corpo di Cristo. In una preghiera durante la Liturgia, il sacerdote chiede a Dio di effondere il suo Spirito Santo su di noi (in primis!) e quindi sui Santi Doni già presentati. E questo - il nostro divenire corpo di Cristo - non deve essere solo per un minuto o per un giorno, ma letteralmente per l'eternità. In questo modo, la comunione è al di fuori del tempo, e noi dobbiamo essere in comunione con Cristo non solo quando ci comunichiamo in chiesa, ma anche il giorno successivo, e il successivo, e il successivo, e proprio ora mentre siamo seduti qui ad ascoltare questo discorso.

Il matrimonio

Questo stesso principio dei sacramenti, non limitato dai vincoli dei riti ecclesiastici e dai rituali ad essi associati, ma che invece permea la totalità di una vita cristiana, può essere applicato al resto dei sacramenti della lista "ufficiale", anche se non li discuteremo tutti qui. Ma, come ultimo esempio, diamo un'occhiata a un sacramento che non è apparentemente per tutti, il matrimonio. Infatti, alcune persone si sposano, e altre no.

Secondo le Scritture, un matrimonio tra un uomo e una donna è un'icona del grande mistero di Cristo e della Chiesa (cfr. Ef 5,32). In realtà, per parlare di questo mistero, l’apostolo Paolo usa le stesse parole con cui Dio ha stabilito il sacramento del matrimonio tra un uomo e una donna: "...e i due saranno una carne sola " (Ef 5:31, cf Gn 2,24). Questo dovrebbe immediatamente ricordarci il sacramento che abbiamo discusso in precedenza, la santa comunione, ma anche il battesimo e la confessione, perché essi ci aiutano a entrare e a rimanere nel corpo di Cristo - i due saranno una carne sola. Infatti, unirsi a Cristo è l'obiettivo centrale della vita cristiana, ed è, per estensione, lo scopo principale dietro ogni sacramento della Chiesa. Il sacramento del matrimonio è un'icona del mistero di Cristo e della Chiesa, ma ce ne sono altri. Anche il monachesimo, per esempio, è un'icona vivente dell'unione di un uomo o di una donna con Cristo, e allo stesso modo è una vita dedicata al servizio disinteressato e di sacrificio per gli altri, cosa che, per inciso, è anche l'essenza spesso dimenticata del matrimonio tra un uomo e una donna.

Tutti i cristiani sono chiamati al banchetto di nozze dell'Agnello, non come ospiti o spettatori, ma come partecipanti, come membri della sposa santa e senza macchia, la Chiesa, per essere uniti con lo Sposo divino in una sola carne, il corpo di Cristo. Sia che ci si sposarsi o si rimanga singoli, che si segua il percorso del monachesimo o si rimanga nel mondo, ognuno di noi è chiamato a essere partecipe del matrimonio sacramentale di Cristo e della sua Chiesa. E la nostra partecipazione terrena nell'icona di questo sacramento divino non è limitata ai pochi minuti in cui indossiamo le nostre corone nuziali nel corso di una cerimonia in chiesa, ma è un impegno lungo una vita che continua nell'eternità con Cristo.

"La vita non esaminata non è degna di essere vissuta ..." [8]

Mentre abbiamo parlato dei vari sacramenti della Chiesa, avrete notato che abbiamo continuato a dire la stessa cosa, spesso usando le stesse parole. Non sto cercando di parlare a vuoto, ma può sembrare così. Forse, questo è perché esiste davvero un solo sacramento, il sacramento di essere nel corpo di Cristo risorto, il sacramento della theosis. Ogni sacramento della Chiesa, ogni preghiera, ogni rito e rituale, ogni lettura e inno ha l'obiettivo di mostrarci la via, di darci la forza di essere nel corpo di Cristo. In effetti, la nostra stessa vita, dal primo "Benedetto il nostro Dio ..." all'ultimo "Amen!" - ha una sola domanda: "Ti unisci a Cristo?" E una sola risposta corretta: "Mi unisco a Cristo!" Queste parole non sono solo né principalmente una parte del rito del catecumenato, ma devono risuonare nel corso di tutta la vita cristiana. È questa continua unione con Cristo, che ha permesso all’apostolo Paolo di dire: "Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me" (Gal 2,20) e a san Giovanni di Kronstadt di parlare della sua vita in Cristo. Questa non è un’espressione buonista - la sua era letteralmente una vita in Cristo. Allo stesso modo, vi è solo una vera virtù - essere nel corpo di Cristo, e solo un vero peccato - essere separati da Cristo. Qualunque cosa nella nostra vita ci differenzia da Cristo, distorce la Sua immagine in noi - è peccato.

Purtroppo, molto spesso la domanda "che cosa farebbe Gesù" diventa molto confusa. In realtà, alcune persone hanno una tale immagine bidimensionale di Cristo nella loro mente che diventa assolutamente impossibile anche solo immaginare che cosa avrebbe fatto questo personaggio bidimensionale di fronte a un vero e proprio mondo a quattro dimensioni. Ma non dimentichiamo che Cristo ha preso la nostra natura umana su di sé non per santificare delle icone bidimensionali di se stesso, per quanto sante possano essere, ma per guarire, ripristinare e santificare la stessa natura umana in tutta la sua complessità. Quando Cristo entra in noi, nello stesso modo in cui Egli è entrato nell’apostolo Paolo, in san Giovanni di Kronstadt, e in tutti gli altri santi cristiani, questa unione ha effetto sulla totalità della vita umana: i nostri ingressi e uscite, le nostre preghiere a Dio e le conversazioni con gli amici, la nostra partecipazione al corpo e al sangue di Cristo in chiesa e la cena di famiglia di tutti i giorni.

Secondo Platone, Socrate una volta disse che la vita non esaminata non è degna di essere vissuta. Che cosa è una vita non esaminata? Immaginate di non fare assolutamente nulla e di stare solo in attesa della fine di un giorno... un giorno, due giorni... O immaginate di vivere da una festa a un'altra, da divertimento a divertimento, con niente in mezzo - il lavoro, la scuola, la solita roba noiosa, l'attesa della fine di un anno, per poter fare le prossime vacanze. Una vita meccanica, spensierata con il pilota automatico: cibo-lavoro-sonno. Ora immaginate di pensare a Dio solo una volta o due al giorno, o una volta o due alla settimana, o anche una volta o due all'anno.

Ma cosa dovremmo fare? Cantare salmi in slavonico ecclesiastico sotto la doccia? Beh, questa non è davvero una cattiva idea. In ogni caso, a mio gusto, è meglio che cantare l'ultima canzone di Justin Bieber. Ma il punto più importante è che qualsiasi cosa nella vita può e deve essere fatta con intenzione e preghiera. E questa non è solo una questione di una certa condizione spirituale interiore, ma anche una azione molto esterna e viscerale. Noi non siamo una raccolta meccanica di parti - corpo, anima, spirito - tutte messe insieme con alcune viti e colla. Piuttosto, siamo esseri integrali - ciò che fa il nostro corpo influisce sulla nostra anima, e la bocca parla di ciò di cui è pieno il cuore (Mt 12:34; Lc 6:45).

Consideriamo, per esempio, le parole di Gesù figlio di Sirach: "In tutte le tue opere, ricorda il tuo fine ultimo, e non peccherai mai" (Sir 7:40). Questo versetto parla di tutto l'essere umano - corpo, anima e spirito. "In tutte le tue opere" - con le mani, i piedi, persino la tua bocca; "ricorda il tuo fine ultimo" - ricordalo con la tua mente, lascia che il ricordo della morte guidi la tua anima "e non peccherai mai" - la tua bussola spirituale, quella parte di te che punta verso Dio, rimarrà fedele.

Allo stesso modo, l'apostolo Paolo scrive: "Pregate incessantemente" (1 Ts 5:17). A volte, le persone interpretano questo versetto come se non parlasse della preghiera nel modo in cui di solito la maggior parte delle persone la capisce - l'atto di comunicare con Dio attraverso il culto, le petizioni, o le contemplazioni, ma come se parlasse di livelli più alti dell'arte delle fatiche noetiche, e quindi irraggiungibile per la maggior parte delle persone, proprio come i più alti livelli della maggior parte di altre arti. Forse, questa è una interpretazione valida - non lo so, non ho raggiunto i più alti livelli delle arti noetiche. Ma leggendo l'epistola di Paolo, viene in mente un'altra interpretazione. Non è probabile che l'apostolo sta parlando di semplici cose quotidiane riguardanti la vita di ogni cristiano, semplicemente della vita e della mentalità cristiana? Ecco il contesto più ampio (14-18):

14 Vi esortiamo, fratelli: correggete gli indisciplinati, confortate i pusillanimi, sostenete i deboli, siate pazienti con tutti.

15 Guardatevi dal rendere male per male ad alcuno; ma cercate sempre il bene tra voi e con tutti.

16 State sempre lieti,

17 pregate incessantemente,

18 in ogni cosa rendete grazie; questa è infatti la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi.

Naturalmente, il rendere grazie potrebbe essere visto come un'altra delle arti noetiche, o può essere una cosa semplice come ringraziare Dio per tutto - non solo quelle cose che ci sembrano piacevoli, ma anche quelle che sono amare come le medicine e dolorose come la chirurgia. In effetti, un medico prende un coltello e taglia la nostra carne, e tuttavia gli diciamo: "Grazie, dottore!" E in realtà ci sentiamo riconoscenti, seppure un po' doloranti.

Ma diamo un altro sguardo alle parole della Scrittura: "in ogni cosa", " cercate sempre", "incessantemente..." Non è questo forse un monito a prestare molta attenzione a ogni singolo momento della nostra vita? Suona scoraggiante, non è vero? In realtà, è piuttosto semplice e comincia con piccoli passi. Per esempio, molte persone usano il telefono - chiamano i loro amici e familiari, rispondono quando squilla senza darsi troppo pensiero. In realtà, si tratta di una esperienza così comune che non ci pensiamo due volte. Conosco una persona che si fa il segno della croce ogni volta prima di prendere in mano il telefono. Com'è bello e significativo! Com'è semplice! - Una pausa, una breve preghiera, una realizzazione che l'interazione che avverrà è all'interno dello spazio e del tempo sacro della vita umana. La vita esaminata... Noi facciamo tutti la doccia, vero? Una volta ho letto di una persona che recitava un solo breve versetto del Salmo 50 (51 nella numerazione masoretica): "Purificami con issopo e sarò mondo: lavami, e sarò più candido della neve" (verso 7). Anche in questo caso, quant'è bello nella sua semplicità!

Una vita santificata, una vita come sacramento, non è questo ciò che la Chiesa ci insegna? I nostri corpi e anime sono lavati nelle acque del santo battesimo; le nostre auto e case sono santificate con l'acqua santa, i nostri occhi, orecchie e bocche sono sigillati con santo crisma - un cristiano è uno speciale contenitore separato, messo da parte per il servizio di Dio (cfr. 1 Pietro 2:9). Perché pensate che indossiamo una croce in ogni momento? Per la stessa ragione per cui vi è una croce su ogni chiesa per significare che non si tratta di un fienile o di un magazzino, ma un tempio di sacro di Dio. Chiaramente, in questo breve discorso non possiamo discutere di una vita umana in ogni dettaglio, ma in conclusione, vorrei citare solo due aspetti della nostra routine quotidiana che sono già contrassegnate dalla Chiesa come sacre.

Le ore dei pasti

Noi tutti mangiamo, spesso senza dare molta considerazione all'atto di mangiare, abbiamo fame, perciò mangiamo. Tuttavia, mangiare è uno dei più antichi atti sacri noti agli uomini. Attraverso il cibo Adamo ed Eva caddero lontano da Dio, e attraverso il cibo Cristo entra in noi nella comunione. Caino e Abele offrirono cibo che avevano elevato come sacrificio a Dio. Abramo nutrì i tre visitatori divini. Quando il figliol prodigo è tornato a casa, il padre ha ordinato che si preparasse un pasto. È l'unione di Cristo e dell'uomo è spesso simboleggiata da un banchetto.

Noi preghiamo prima e dopo ogni pasto. Le preghiere segnano il sacro e lo separano dal profano. Così, il pasto è tempo sacro, un rito sacro. In parole povere, il pasto è un'icona: il pane terreno nutre e sostiene i nostri corpi come Cristo, il pane celeste, nutre e sostiene le nostre anime. E ogni pasto è in qualche modo sacramentale, in quanto ci dà un simbolo visibile di una realtà invisibile. E proprio come con le immagini dipinte ci sono le icone sacre e ci sono le caricature, così è con i pasti: ci sono tempi sacri e ci sono caricature.

Le preghiere quotidiane

A volte sentiamo che il tempo sacro ai nostri giorni è il tempo della preghiera. Trattiamo la preghiera come una forma d'obbligo: 15 minuti per Dio, il resto della giornata per me. Anzi, spesso fraintendiamo gli obblighi religiosi e li vediamo allo stesso modo dei nostri obblighi sociali. Diamo uno sguardo alle tasse, per esempio: diamo una certa parte del nostro reddito al governo perché ha bisogno di fondi per vari programmi, e teniamo il resto per i nostri bisogni. Chiaramente, con Dio non è la stessa cosa. Dio in realtà non ha bisogno delle nostre decime, e non ha bisogno di preghiere. Al contrario, offriamo le nostre primizie a Dio in modo che tutte le nostre fatiche terrene siano santificate. Tutto quello che possediamo e, a proposito, anche tutto quello che mangiamo è sacro perché è sacrificale, è stato santificato dalla nostra offerta dei primi e migliori frutti a Dio. Allo stesso modo, offriamo preghiere mattutine e serali a Dio in modo che tutta la nostra giornata possa essere santa, pacifica e senza peccato. In altre parole, il tempo sacro della giornata non è il tempo della preghiera, ma il tempo che è segnato, incorniciato, coronato dalla preghiera, vale a dire, tutto il giorno stesso. Un buon esempio può essere un bel calice: per quanto sacro e bello possa essere, è quello che c'è dentro che conta. O un bel tempio, perché è santificato non da oro e lustrini, ma dalla presenza di Dio, e senza Dio all’interno, è solo un museo di architettura e belle arti. Pensateci, la prossima volta che volete fare in fretta a finire le vostre preghiere in modo da poter andare avanti con la vostra giornata.

Un altro aspetto importante della preghiera è che ci tiene in contatto con Dio, da persona a Persona, ci ricorda che non siamo soli, che ciò che vediamo non è tutto ciò che esiste. Naturalmente, questo funziona solo se la preghiera è costante o almeno frequente. Per alcuni può essere una sorpresa, ma i primi cristiani non avevano i libri di preghiera stampati a Jordanville. Invece, recitavano regole di preghiera molto più brevi molto più frequentemente, fino a cinque volte al giorno o più, a orari specifici. La regola di preghiera probabilmente consisteva nella preghiera del Signore. [9] Forse, un interessante eco della pratica di preghiere brevi ma frequenti si possono trovare nella nostra regola di preghiera della sera - la preghiera di san Giovanni Crisostomo, con una breve supplica per ogni ora del giorno. Non è chiaro se san Giovanni seguisse sempre una regola di dire una petizione a ogni ora del giorno, o se ha fatto quello che facciamo noi oggi - leggere tutta una lista, in pochi minuti, ma anche i nostri servizi divini seguono un modello preordinato per tutto il giorno: l'ora prima (6:00), l'ora terza (9:00), l'ora sesta (12:00), l'ora nona (15:00), e poi il vespro (18:00).

Il mondo industriale moderno è stato costruito in modo tale che per la maggior parte dei lavoratori sarebbe impossibile recitare a dieci o quindici minuti di regola di preghiera tre o cinque volte al giorno. Ma gli antichi non facevano nemmeno questo. Che cosa succederebbe se cercassimo di fare quello che facevano loro, la Preghiera del Signore? O, forse, qualcosa di ancora più breve - la Preghiera di Gesù? Potremmo farla cinque volte al giorno?

Se sei un cristiano, allora non credi che la tua vita sia un incidente, privo di scopo, un picco casuale senza senso di un onda di probabilità cosmica. Voi sapete che il vostro scopo è quello di diventare il corpo di Cristo. Sapete che la vostra vita è un sacramento, non diversamente dall'eucaristia. I chicchi di grano crescono dalla terra, formati e modellati attraverso molto lavoro per essere offerti a Dio e diventare il suo corpo. Allo stesso modo una vita umana: presa dalla terra, è formata e modellata attraverso molto lavoro per diventare un'offerta a Dio e il suo corpo. E così come ci sono differenze tra le diverse tradizioni liturgiche, diverse persone hanno trovato diversi modi di vivere la loro vita come offerta sacra a Dio. Forse è meno importante se cantate o no salmi sotto la doccia, se recitate la Preghiera del Signore tre volte al giorno oppure cinque - ciò che è importante è che viviate la vostra vita come un sacramento, come un'icona, e non come una caricatura.

Note

[1] Il decreto del Concilio di Trento era una formulazione ufficiale di una precedente tradizione scolastica cattolica romana, che risale al XII secolo ed era già stata affermata due volte da due precedenti Concili della Chiesa cattolica romana: il Concilio di Lione (1274) e il Concilio di Firenze (1439).

[2] Cfr. anche la stessa lista nella Confessione ortodossa del metropolita Pietro Mohila (17 cent.).

[3] Settima sessione del Concilio di Trento, Decreto sui sacramenti, "Sul sacramento in generale," Canon I.

[4] San Giovanni di Damasco ne cita due, san Cirillo di Gerusalemme 3, San Dionigi l'Areopagita 6, Joasaf di Efeso 10, solo per citarne alcuni.

[5] In realtà san Teodoro Studita, tra gli altri, elenca i voti monastici come uno dei sacramenti.

[6] Il concetto di pentimento cristiano può anche essere visto come una continuazione e la combinazione delle due parole ebraiche che rappresentano l'idea del pentimento: שוב-tornare, e נחם- sentire dolore. In altre parole, pentirsi non significa solo elencare i propri peccati e sentirsi dispiaciuti per loro, ma anche allontanarsi da ciò che è male e tornare indietro a ciò che è buono - pensiamo, per esempio, alla parabola del figliol prodigo.

[7] La ​​corrispondente parola greca κοινωνία è tradotta come "comunione" per indicare sia la comunione di Dio e dell'uomo, sia anche la comunione delle persone.

[8] "ὁ δὲ ἀνεξέταστος βίος οὐ βιωτὸς ἀνθρώπῳ" - Platone, Apologia 38a. Platone attribuisce queste parole a Socrate, ma, suppongo, è impossibile sapere con certezza se alcuni dei pensieri di Platone non siano stati presentati come quelli del suo famoso maestro.

[9] Cfr. Didaché 8.

 
Incontro con il “prete punk” di Mosca: l’igumeno Sergej Rybko

Presentiamo, nella sezione “Figure dell’Ortodossia contemporanea”, l’apostolato dell’igumeno Sergej Rybko, un parroco di Mosca che ha fatto parte della controcultura giovanile degli ultimi anni dell’Unione Sovietica, e che oggi si impegna, con benedizione del patriarca, a portare una presenza di fede nei club e nei concerti rock. L’articolo, nella nostra traduzione italiana, è accompagnato dal video realizzato da ABC News nell’ottobre del 2009.

 
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San Willibrord, Apostolo della Frisia (Paesi Bassi)

Willibrord, primo Arcivescovo di Utrecht, è uno dei missionari inviati dai cristiani anglo-sassoni circa un secolo dopo che essi stessi erano stati cristianizzati (nell’Inghilterra del sud e dell’est a opera di missionari da Roma e dal continente, e nell’Inghilterra del nord e dell’ovest a opera dei cristiani celti della Scozia, dell’Irlanda e del Galles).

Willibrord nacque in una famiglia nobile di cristiani sassoni in Northumbria (nel nord-est dell’Inghilterra), verosimilmente presso York, nel 658 (probabilmente il 6 novembre); morì a Echternach, in Lussemburgo, il 7 novembre 739.

Nonostante suo nome di battesimo fosse chiaramente pagano ('Willi', fratello di Odino, era uno degli dèi maggiori della mitologia nordica; 'brord' significa 'sotto la protezione di'), i suoi genitori erano cristiani. Il padre di Willibrord, Hilgis (o Wilgils), venerato come santo, era un cristiano tanto devoto da fondare un monastero presso le foci del fiume Humber, nel quale si ritirò a vivere in eremitaggio. Seguendo l’abitudine tipica del suo tempo, Willibrord fu mandato in educazione a sette anni al monastero benedettino di Ripon in Northumbria (la Regola di San Benedetto contempla il caso degli oblati, offerti ai monasteri dalle proprie famiglie). Probabilmente la madre di Willibrord era morta, oppure aveva preso il velo.

Willibrord studiò a Ripon nel periodo in cui San Wilfrid (1) era abate del monastero, prima di diventare vescovo di York; secondo una delle testimonianze sulla sua vita - una lettera di San Bonifacio – ricevette la tonsura e fece la professione monastica attorno all’età di quindici anni.

Al tempo in cui Re Egfrid di Northumbria mandò in esilio il suo maestro San Wilfrid, Willibrord si recò in Irlanda, dove passò dodici anni a studiare all’abbazia di Rathmelsigi (quasi sicuramente identificata con Mellifont, nella Contea di Louth) sotto i santi Egberto e Wigbert (2). Dopo essere stato ordinato prete (a 30 anni, nel 658), e dopo avere ricevuto un intenso addestramento missionario, fu scelto all’età di 32 anni per essere inviato in missione, e fu inviato da Sant’Egberto in Frisia con 11 (secondo altre fonti 12) compagni.

La Frisia (che corrisponde geograficamente all’attuale zona costiera dei Paesi Bassi) era ancora un paese largamente pagano, appena toccato dai viaggi evangelizzatori dei primi missionari sassoni, tra cui i santi Wilfrid e Wigbert, maestri di Willibrord. La lingua locale era piuttosto simile a quella dei sassoni, anche se non identica (Willibrord riuscì a padroneggiarla bene, e la parlava come un nativo).

Al nord della Frisia dominava un sovrano pagano, il duca Radbod, ricordato dalla storia come un tiranno che avvelenava i propri avversari. Il sud del paese, invece, era stato conquistato dai franchi, da poco (e ancora superficialmente) cristianizzati. La popolazione pagana della Frisia risentiva - non senza ragione - la missione cristiana come un tentativo di sottometterla alle ambizioni territoriali dei franchi.

Sbarcati nell’autunno del 690 a Katwijk-aan-Zee, presso una delle foci del Reno, i missionari si misero sotto la protezione di Pipino di Heristal (in carica dal 687 al 714), maestro di palazzo di Clodoveo II, re dei franchi. Uno dei missionari, San Swidbert, divenne vescovo di un gruppo che risiedeva presso Colonia, ma il resto dei missionari rimase a predicare nella parte della Frisia sotto il dominio dei franchi.

I primi sforzi missionari ebbero successo, tanto da giustificare la richiesta di un vescovo sul luogo. Nel 693, poco dopo avere incontrato Pipino e ricevuto il suo appoggio per la conversione dei pagani, Willibrord fece un primo viaggio a Roma per cercare l’approvazione alle missioni da parte del Papa San Sergio I (3). Questi gli diede la sua piena approvazione e, durante la sua seconda visita a Roma, il 22 novembre 695, lo consacrò arcivescovo per la Frisia. Era la festa di Santa Cecilia, e la consacrazione ebbe luogo nella chiesa di Santa Cecilia in Trastevere a Roma.

San Sergio insistette per cambiare il nome di Willibrord in Clemente (scelta che può essere stata influenzata dalla mitezza del suo carattere), e assieme al pallio arcivescovile gli fece dono di diverse reliquie di santi, tuttora conservate in varie chiese da lui fondate (tra cui la chiesa di San Martino a Emmerich). Agli occhi di San Sergio, evidentemente, Willibrord era l’unica persona in grado di reggere la carica di arcivescovo, che richiedeva allo stesso tempo tatto ed energia.

Al suo ritorno in Frisia, Clemente-Willibrord (che raramente usava il suo nome latino), ebbe da Pipino il permesso di stabilire la propria sede episcopale a Utrecht (Ultrajectum) sul Reno, nel centro degli attuali Paesi Bassi. A quel tempo Utrecht non era una vera città, ma piuttosto un villaggio, costruito sul sito del vecchio accampamento romano. Willibrord ricostruì la chiesa locale (la prima chiesa, costruita dai franchi e dedicata a San Martino di Tours – e probabilmente la prima chiesa cristiana di questa zona dei Paesi Bassi – era stata distrutta dai pagani nel 640) e ne costruì una nuova (dedicata al Santissimo Redentore), affiancata da un’abbazia. La nuova chiesa divenne la cattedrale, e l’abbazia fu un importante centro di istruzione per futuri preti e per giovani nobili, in cui si iniziò ad addestrare un clero locale. Dal primo nucleo di questo seminario si sarebbe sviluppata l’università di Utrecht, la più antica e tuttora una delle maggiori università olandesi.

Nel 698 un secondo importante centro missionario fu stabilito a Echternach, sulle rive della Sura, sul confine tedesco dell’attuale Lussemburgo. Il luogo era un lascito a Willibrord da parte di Sant’Irmina, figlia del re dei Merovingi San Dagoberto II, e badessa a Oeren presso Treviri. (4) Willibrord ricostruì la chiesa del luogo, dedicata a San Pietro, ed edificò sul sito dell’antico ostello dei pellegrini un monastero, la cui chiesa fu dedicata alla Trinità, e a cui lasciò gran parte dei suoi beni personali. Qui si recava in ritiro a ricuperare le forze dopo i suoi più ardui viaggi missionari.

Willibrord è descritto come di statura inferiore alla media, di carattere allegro, abile nel parlare, di buona istruzione e dotato di un gusto per l’avventura e di senso dell’umorismo. All’allegria nella conversazione e alla saggezza di consiglio si accompagnava un forte senso di carità. La sua attitudine verso il paganesimo era priva di compromessi, e il suo obiettivo primario era la dissacrazione dei luoghi di culto idolatrici. I missionari moderni sarebbero più rispettosi delle sensibilità locali, ma per Willibrord si trattava di dimostrare ai pagani che i loro dèi erano impotenti a vendicare il loro onore dissacrato, e che pertanto non erano affatto divinità. Questo atteggiamento ardimentoso (che gli procurò l’ammirazione di sovrani pagani a lui ostili, quali il duca Radbod e il re dei danesi), lo mise in costante pericolo di reazione da parte di pagani oltraggiati: un giorno, dopo che aveva abbattuto un idolo a Walcheren, un sacerdote pagano lo assalì e fu sul punto di ucciderlo.

I successi missionari di Willibrord non furono spettacolari – la rapidità e il numero delle conversioni furono ingigantiti dai suoi biografi – ma si trattò di un solido lavoro di posa di fondamenta. Il suo ministero pastorale era spesso esercitato in viaggio, passando a predicare di villaggio in villaggio. Gradualmente, ogni piccolo paese della Frisia fu organizzato come parrocchia, con il proprio prete e con liturgie ispirate allo spirito benedettino. Willibrord sapeva trattare con i grandi e potenti proprietari terrieri, che cercava di trasformare in servitori del Vangelo, ma non era mai servile, né troppo pronto a dare la sua benedizione alle loro velleità. Da questi potenti ottenne vasti appezzamenti di terra che trasformava in villaggi e parrocchie, (per esempio Alphen, nel Brabante del nord). Con il denaro a lui offerto organizzava monasteri, che servivano come centri di illuminazione intellettuale e religiosa.

Alcuni tra i discepoli e confratelli missionari di San Willibrord sono venerati come santi: tra questi Sant’Adelberto di Egmond (morto attorno al 740, festa: 25 giugno), dalla cui tomba, dopo la traslazione delle reliquie in un convento nel 922, sgorgò un pozzo medicinale, l’'Adelbertusput', che attrasse numerosi pellegrini. Un altro dei missionari, Werenfridus, predicò nella Frisia occidentale e nel Gelderland; fu il primo parroco di Elst, dove è sepolto, e di cui è patrono. La sua festa è il 14 agosto; a Emmerich, il 27 agosto (5).

Carlo Martello, figlio naturale di Pipino di Heristal, divenne uno speciale benefattore delle chiese fondate da Willibrord in Frisia. Nel 714 Willibrord battezzò il figlio di Carlo Martello, Pipino il Breve, che sarebbe divenuto il primo re della dinastia dei carolingi. Alla morte di Pipino di Heristal il 14 dicembre 714, il duca Radbod, che si era sottomesso ai franchi senza mai convertirsi, riprese controllo degli estesi territori conquistati dai franchi, bandì Willibrord e inizò a perseguitare i cristiani. Tutto ciò che portava simboli cristiani veniva distrutto, bruciato o saccheggiato. La maggior parte delle chiese fu distrutta e rimpiazzata da templi e santuari pagani, e molti missionari furono uccisi. Willilbrord dovette considerare virtualmente eliminati tutti i progressi da lui fatti fino a quel punto. Ma anche nel periodo dal suo esilio dalla Frisia Willibrord non rimase inattivo, e anzi estese gli sforzi della missione cristiana fino in Danimarca (6), sull’isola di Helgoland e in Turingia (Frisia superiore).

Un primo sollievo alla missione cristiana si ebbe quando Radbod e i suoi alleati dalla Neustria furono sconfitti da Carlo Martello nella foresta di Compiègne il 26 settembre 715. Seguirono quattro anni di rivolte, nelle quali Willibrord e i suoi missionari furono comunque in grado di riparare i danni e ricominciare il proprio lavoro. Dopo la morte di Radbod nel 719, Willibrord ricominciò la propria opera con grande entusiasmo, ricevendo un prezioso aiuto (719-722) dal suo conterraneo, San Bonifacio di Crediton. (7) Numerose conversioni furono il risultato del lavoro congiunto dei due grandi santi evangelizzatori. Insieme a Bonifacio, Willibrord, introdusse nella sua sede i corepiscopi (letteralmente, “vescovi dei villaggi”, o vescovi suffraganei), un ufficio adottato dall’ecclesiologia celtica. Dopo tre anni passati insieme nell’evangelizzazione, Willibrord voleva nominare Bonifacio suo coadiutore e successore, ma questi rifiutò, riprendendo a seguire il suo mandato di evangelizzatore in Germania.

Nel 723, Carlo Martello diede a Willibrord Utrecht e i suoi dintorni come feudo, perché potesse vivere dei suoi benefici. Questo fu il primo passo che portò al potere secolare dei vescovi medievali di Utrecht.

Attraverso i suoi aiutanti San Willibrord non perse mai i contatti con i monasteri nelle isole britanniche, anche se egli stesso non fece mai più ritorno alla sua terra natale. Dopo aver servito come missionario per circa 50 anni, morì durante uno dei suoi frequenti ritiri all’abbazia di Echternach, a 81 anni, nella notte tra il 6 e il 7 Novembre 739. Due miracoli accompagnarono il suo funerale: il sarcofago di marmo bianco preparato per le sue esequie, che era di circa dieci centimetri più corto del suo corpo, fu trovato a un secondo esame tanto più lungo del corpo del santo quanto prima era più corto; inoltre, un profumo misterioso riempì l’aria della chiesa che San Willibrord aveva costruito, e in cui fu sepolto dietro l’altare.

Willibrord non fu mai canonizzato formalmente; pochi anni dopo la sua morte, i monaci trasferirono il sarcofago da dietro l’altare abbaziale al centro del coro (gesto che poteva equivalere de facto al riconoscimento della santità), circondandolo di una cancellata riccamente scolpita. La festa della traslazione delle reliquie è il 10 novembre (a Utrecht, il 19 ottobre). Molti malati furono guariti per grazia di Dio e per la loro fede dopo essere stati unti con l’olio della lampada che ardeva sopra le reliquie del santo. Numerosi penitenti e pellegrini iniziarono ad affluire a Echternach. L’affluenza di folle di pellegrini portò verso l’anno 800 alla costruzione di un nuovo santuario, la cui cripta esiste ancora oggi.

Le reliquie sono tuttora conservate a Echternach. Nel 1794, il sepolcro fu dissacrato dai rivoluzionari francesi e le reliquie furono sparse sul pavimento della chiesa, ma furono salvate e ricomposte dai preti locali. L’altare portatile di San Willibrord è conservato a Treviri, al convento di Santa Maria ai Martiri, dove il santo fermò gli effetti di una pestilenza con le sue preghiere e con la benedizione delle acque.

Numerosi miracoli attribuiti a San Willibrord nel corso della sua vita hanno a che fare con l’acqua (simbolo di santità e guarigione, oltre che legame con i numerosi battesimi da lui celebrati). Secondo il suo biografo Alcuino, fece spuntare una sorgente di acqua dolce dal suolo sabbioso di una zona costiera, dove gli abitanti soffrivano di carenza d’acqua; in un altro caso, diede da bere a dodici mendicanti dalla sua fiasca, che rimase miracolosamente piena. Altri miracoli rimandano al vino (altrettanto simbolico per i cristiani), e hanno paralleli nel Nuovo Testamento. Un giorno, a Echternach, Willibrord benedisse con la punta del suo bastone il vino di un barile, che iniziò a salire di livello e a uscire dal bordo; un’altra volta, fece saziare quaranta persone dal contenuto di quattro piccole fiasche. Anche le raffigurazioni del santo hanno spesso immagini tratte da questi episodi, come una fiasca, oppure un barile sormontato da un bastone episcopale.

Le raffigurazioni artistiche di San Willibrord lo dipingono in paramenti episcopali, e spesso alle sue spalle o nelle sue mani c’è una delle chiese da lui fondate (a Utrecht o a Echternach).

La più antica rappresentazione iconografica di San Willibrord a noi giunta si trova su un manoscritto di Echternach, della fine del secolo X, oggi alla Biblioteca Nazionale di Parigi. Il santo appare come arcivescovo in mezzo a due diaconi, assiso in trono, e rivestito di paramenti episcopali (alba, dalmatica, casula, e il pallio, insegna distintiva dei metropoliti), conformi alle consuetudini dei paramenti del tardo Impero romano in occidente.

A Echternach si sviluppò una scuola di miniature di libri liturgici, che seguiva gli esempi delle opere portate dall’Irlanda. Numerosi di questi testi formano il tesoro di grandi librerie a Parigi, Treviri e altrove. Tra i libri liturgici, naturalmente, non poteva mancare l’officio al santo fondatore. La versione più antica a noi pervenuta dell’officio a San Willibrord è stata composta attorno all’anno 900, prima come officio secolare, quindi trasformato in ufficio monastico, sulla sequenza per un vescovo confessore.

San Willibrord è venerato come patrono degli epilettici ed è invocato in aiuto contro le convulsioni e le malattie infantili. La fonte di questa venerazione è la guarigione di un fanciullo epilettico, menzionata nella Vita di Willibrord scritta da Alcuino. Può darsi che sia proprio un’interpretazione popolare dell’aiuto del santo ai malati di convulsioni ad avere generato la pratica di una sorta di danza sacra, che ancora oggi i pellegrini compiono attorno al sepolcro del santo il martedì di Pentecoste. (8)

San Willibrord era morto senza nominare successori, e San Bonifacio prese in carica la diocesi nominando un amministratore, Sant’Eoban (9). In seguito il papa Stefano II e Re Pipino il Breve ordinarono di prendersi cura della diocesi a San Gregorio, Abate di San Martino a Utrecht. (10) A causa di questa nomina alcune fonti (anche lo stesso Martirologio Romano) lo chiamano vescovo, anche se non ricevette mai la consacrazione episcopale. Nel 777 uno dei preti missionari nella Frisia divenne il secondo vescovo di Utrecht, che continuò fin da allora a essere sede episcopale.

Fu Willibrord a portare nel regno dei Franchi la pratica della datazione secondo l’era cristiana, come si può vedere dall’unico scritto autografo che ci rimane di lui, una serie di annotazioni a margine di un calendario di Echternach (11)

Purtroppo l’epistolario di San Willibrord (a differenza di quello, molto esteso, di San Bonifacio) non è giunto fino a noi. Le nostre informazioni su di lui ci giungono dal Venerabile Beda (autore della Storia della Chiesa e del popolo inglese) e dalla biografia scritta dal suo parente Alcuino. Questi – che sarebbe diventato in seguito il potente ministro dell’istruzione sotto l’imperatore Carlo Magno - era il possessore legale del monastero di Sant’Andrea alle foci dell’Humber, fondato dal padre di Willibrord, San Wilgils. La sua Vita di Willibrord fu scritta dietro richiesta di Beornrade, abate di Echternach e arcivescovo di Sens (egli stesso parente di San Willibrord): Alcuino ne scrisse una copia in prosa e una poetica in esametri.

Si tratta di un’opera scritta per essere letta nelle funzioni religiose, e per questo si possono comprendere la sua mancanza di dettagli storici e l’insistenza sui miracoli di Willibrord. La seconda Vita fu redatta attorno al 1100 dall’abate Theofrid di Echternach, ed è basata sul materiale di Alcuino, con aggiunte da Beda, da vite di altri santi e dai carteggi dell’abbazia.

Per i suoi sforzi missionari, San Willibrord è chiamato l’Apostolo della Frisia. È patrono dell’Olanda e del Lussemburgo (è l’unico santo sepolto e venerato in Lussemburgo, dove è noto come San Willibrord di Echternach). Centinaia di chiese dedicate a San Willibrord in Olanda, Belgio e Germania testimoniano il tributo di queste nazioni alla sua memoria. Per l’estensione del suo principale campo d’azione, può essere a buon diritto chiamato “l’Apostolo del Benelux”, e in quanto annunciatore del Vangelo oltre le frontiere, è uno dei promotori dell’idea di un’Europa unita. Inoltre, è un simbolo dei legami tra i cristiani dell’Inghilterra e dell’Olanda, che si riflettono oggi nella piena comunione tra la Chiesa anglicana e la Chiesa vetero-cattolica dell’Unione di Utrecht.

Santo apostolo Willibrord, intercedi presso Dio per noi!

NOTE

(1) San Wilfrid (Walfridus) nacque a Ripon nel 634 e morì a Oundle nel 709; cresciuto all’abbazia di Lindisfarne sotto il regime celtico, studiò a Canterbury e divenne un aderente delle pratiche liturgiche romane. Viaggiò dal 653 al 660 a Roma e a Lione (dove ricevette la tonsura, secondo lo stile romano, al posto di quello celtico), e al ritorno fu nominato abate del monastero di Ripon, dove introdusse l’osservanza romana e la Regola di San Benedetto rimpiazzando le pratiche celtiche. Nel 664 il suo ruolo fu decisivo al Sinodo di Whitby, in cui si risolse la questione della datazione della Pasqua in favore del sistema romano (la chiesa celtica aveva un sistema differenziato, di tradizione giovannea, per la datazione della Pasqua).

Nominato vescovo di York, fu consacrato a Compiègne in Francia (a causa dei dissidi con gli altri vescovi dell’Inghilterra del Nord, che sotto la guida di San Colman di Lindisfarne risentivano l’omologazione agli usi romani). Il suo episcopato fu interrotto per ben tre volte, a causa di conflitti con tre successivi re di Northumbria: dal 666 al 669, San Chad fu insediato al suo posto da parte di Re Oswy; dal 678 al 686, fu allontanato da Re Egfrid (la cui moglie, Santa Etheldreda, era stata incoraggiata da Wilfrid a rifiutare i diritti nuziali del marito e a ritirarsi in convento; appellatosi a Roma – primo caso di un appello a Roma di un vescovo inglese – Wilfrid fu reinsediato nella sede dal papa Sant’Agatone), e quindi dal 691 al 705 fu deposto da un sinodo su istigazione di Re Aldfrid, e nuovamente reinsediato per intervento papale.

Le sue vicissitudini legali e le intransigenze della sua difesa degli usi romani su quelli celtici hanno in certo modo oscurato una sua altra caratteristica: quella di abile missionario. Nel viaggio a Roma del 678-679, Wilfrid passò l’inverno in Frisia operando conversioni; la sua predicazione può essere considerata il punto di partenza dell’attività missionaria che avrebbe caratterizzato la vita di San Willibrord.

(2) Sant’Egberto (morto a novant’anni il 24 aprile 729) era un monaco di Lindisfarne emigrato in Irlanda, abate a Rathmelsigi nel Connaught. Nel 684, cercò senza successo di dissuadere Re Egfrid di Northumbria dall’invadere l’Irlanda. A Rathmelisigi Egberto addstrò diversi gruppi di monaci per le missioni della Germania: tra questi San Wigbert (morto nel 690, di ritorno dalla Frisia, dove aveva passato due anni ad annunciare il Vangelo), e San Willibrord.

Quando contrasse la peste (che uccise il suo confratello Æthelhun), Egberto fece voto di esilio volontario a vita se fosse guarito. Anche se desiderava unirsi ai gruppi di missionari, glie lo impedirono il suo voto e una visione che lo portò a diventare un monaco di grande fama sull’isola di Iona in Scozia. Là cercò di indurre i monaci ad adottare le pratiche liturgiche romane, ed ebbe successo (il suo approccio era molto più conciliatorio di quello del suo coevo, San Wilfrid): alla sua morte, a Iona la Pasqua fu festeggiata per la prima volta secondo il computo romano. La festa di Sant’Egberto si trova sia nel martirologio romano che in quello irlandese.

(3) A quel tempo, in Frisia come in Inghilterra, non era comune appellarsi a Roma per un’approvazione ecclesiastica. Tuttavia, è possibile che i precedenti stabiliti da San Wilfrid, suo antico abate e maestro, e i continui conflitti di quest’ultimo con i sovrani della Northumbria, abbiano convinto Willibrord che fosse meglio dipendere direttamente dalla sede romana piuttosto che dai vescovi franchi o da quelli di York.

San Sergio è una interessante figura storica e agiografica, il più grande dei patriarchi di Roma della seconda metà del secolo VII. Nato in Sicilia da genitori siriani, fu studente alla Schola Cantorum di Palermo. Nel periodo in cui resse la cattedra di San Pietro (687-701) furono guariti alcuni scismi nella Chiesa, come quello dei Nestoriani in Italia (soprattutto ad Aquileia), sempre attraverso la convinzione e non tramite azioni militari. Lo zelo missionario rifiorì nell’Occidente: il caso dell’appoggio dato a San Willibrord non è che un esempio; anche il Wessex si convertì quando Re Caedwalla venne a farsi battezzare a Roma alla Liturgia pasquale del 689.

Quando doveva intervenire in sostegno dei vescovi che si appellavano a Roma - come nel caso di Wilfrid al tempo del suo allontanamento da York - Papa Sergio (così come il suo predecessore San Gregorio Magno) non avanzava pretese di supremazia o di infallibilità, ma agiva sempre come mediatore.

Fu San Sergio a istituire il canto dell’Agnus Dei nella Liturgia (“Agnus Dei qui tollis peccata mundi, miserere nobis”). I nestoriani di Aquileia dovettero davvero aver riconosciuto l’unità ipostatica delle nature di Cristo per cantare questo inno dopo la consacrazione eucaristica.

A San Sergio si deve l’introduzione di quattro delle Feste della Madre di Dio che in Europa occidentale la Chiesa non osservava prima del 687:

La Purificazione o Presentazione del Signore (Candelora) (2 Febbraio)

L’Annunciazione (25 Marzo)

La Dormizione della Madre di Dio (15 Agosto)

La Natività della Madre di Dio (8 Settembre)

Nel calendario attribuito a San Willibrord troviamo che fu Papa Sergio I a richiedere la loro aggiunta all’Ordo (l’equivalente del Tipico della Chiesa orientale): lo stesso San Sergio è commemorato il 7 Settembre, Vigilia della Natività della Madre di Dio.

San Sergio era un uomo di pace, ma dovette vivere in mezzo ai conflitti fin dal momento della sua elezione, quando un suo rivale, l’Arcidiacono Pasquale, ottenne di far convalidare la propria elezione ormai annullata per mezzo di una tangente al governatore imperiale di Roma. Per salire alla cattedra di San Pietro, a Sergio, legittimamente eletto, fu imposto di pagare a sua volta la stessa somma offerta da Pasquale.

Un altro conflitto ebbe luogo in seguito al Concilio Quinisesto del 695. San Sergio si rifiutò di ratificarlo, obiettando ad alcuni articoli: quelli che cercavano di portare l’uniformità tra gli usi liturgici orientali e occidentali a detrimento di questi ultimi, e altre regole che rischiavano di bloccare le missioni nei paesi settentrionali, come le direttive di costruire solenni chiese in stile imperiale prima che avessero avuto luogo anche i primi battesimi.

Ne seguì un conflitto con l’Imperatore Giustiniano II, che ordinò l’arresto del papa, e scatenò la rivolta del popolo di Roma e della milizia di Ravenna. San Sergio diede prova del suo spirito di pace nascondendo nella sua stessa casa il capo delle guardie imperiali, Zaccaria, che gli insorti volevano uccidere. Alla fine il conflitto di compose, e la Chiesa di Roma accettò il Concilio Quinisesto come parte del sesto concilio ecumenico. L’esempio di San Sergio insegna ai cristiani di Roma a rendere bene per male.

(4) La donazione fu confermata legalmente nell’anno 706, e aumentata nel 714 da un lascito di Pipino il Breve e di sua moglie Plectrude.

(5) Un curioso esempio del mantenimento a livello locale, nella Chiesa occidentale, di una festa secondo l’antico calendario giuliano ecclesiastico.

(6) La spedizione in Danimarca non incontrò molto successo, per l’opposizione del re locale; San Willibrord si limitò a riscattare trenta bambini, che battezzò e che a suo tempo riportò con sé a Utrecht.

(7) Nato a Crediton nel Devonshire (Inghilterra sud-occidentale) nel 680; morto a Dokkum in Frisia nel 754. Bonifacio, battezzato con il nome di Wilfrid o Wynfrith, decise di diventare monaco all’età di cinque anni, dopo avere ascoltato i racconti di monaci in visita a casa sua. Iniziò a sette anni la sua educazione, prima alla scuola di un monastero presso Exeter, e quindi all’abbazia benedettina di Nursling (Hampshire) presso Winchester. Qui studiò sotto l’abate Winbert, divenne monaco e quindi direttore e insegnante della scuola. Scrisse la prima grammatica latina prodotta in Inghilterra.

Wilfrid fu ordinato prete a 30 anni, e nonostante i suoi successi nell’insegnamento e nella predicazione, volle raggiungere San Willibrord come missionario in Frisia. Ottenuto un riluttante consenso dal suo abate Winbert, partì con due confratelli. Il suo primo viaggio missionario nella primavera del 716 fallì per la rivolta di Radbod, e in autunno fece ritorno in Inghilterra. I monaci di Nursling cercarono di farlo rimanere eleggendolo abate alla morte di Winbert, ma egli rifiutò sentendosi chiamato alla missione. Nel 718, andò a Roma, dove il papa San Gregorio II lo inviò a predicare ai pagani in Germania, cambiando il nome di Wilfrid in Bonifacio (15 maggio 719: il nome è quello del martire la cui festa cadeva il giorno precedente).

Rientrato in Germania attraverso le Alpi, andò dalla Baviera all’Assia, dove la sua predicazione ebbe successo. Alla morte di Radbod, si realizzò il suo sogno di lavorare a fianco di San Willibrord, che aiutò per tre anni. All’offerta di diventare il successore di Willibrord a Utrecht, Bonifacio rifiutò, poiché il suo mandato era generale e non confinato a una singola diocesi. Nel 722 fu richiamato a Roma e consacrato vescovo regionario per la Germania. La sua evangelizzazione, come già quella di Willibrord, si fece notare per i colpi alle radici delle superstizioni pagane, a cominciare dall’abbattimento della quercia sacra di Thor a Geismar. Inoltre, Bonifiacio diede inizio a un intenso scambio di monaci missionari tra l’Inghilterra e la Germania (soprattutto in Turingia, dove i pochi preesistenti cristiani – inclusi alcuni preti celti e franchi – erano più di ostacolo che di aiuto alla missione). A lui si deve la costruzione di diocesi e di monasteri, tra cui quello di Ohrdruf (presso Gotha), centro missionario per la Turingia, e l’abbazia di Fulda, presso Francoforte. Nel 731, il papa San Gregorio III lo costituì metropolita della Germania, con permesso di creare nuove sedi, e nel 747, dopo aver fissato la sua sede a Mainz, fu eletto primate della Germania. In tutto questo tempo, continuò a mantenere stretti contatti con la famiglia reale carolingia: gli fu chiesto di dare il proprio aiuto alla chiesa dei franchi, che era in triste necessità di riforma, e organizzò sinodi e concili istituendo riforme per rivitalizzare la chiesa.

Nel 753, a oltre 70 anni di età, Bonifaciò si dimise lasciando al proprio posto San Lullo, per passare i suoi ultimi anni a riconvertire gli abitanti della Frisia, ricaduti nel paganesimo dopo la morte di San Willibrord. Con una piccola compagnia, convertì con successo un gran numero di persone nell’area fino a quel punto non evangelizzata della Frisia nord-orientale. Il 5 giugno 754, alla vigilia di Pentecoste, Bonifacio e il suo confratello Eoban (che era stato da lui assegnato come amministratore della diocesi di Utrecht) si preparavano alla cresima di alcuni convertiti a Dokkum, nei Paesi Bassi settentrionali. Mentre Bonifacio leggeva quietamente nella sua tenda, una banda di pagani armati assalì il campo. Bonifacio non permise al suo seguito di difenderlo con le armi, e dopo averli esortati a confidare in Dio e ad accogliere la prospettiva del martirio per la fede, fu uno dei primi a morire. Il suo corpo fu portato all’abbazia di Fulda, dove riposa tuttora. Il libro che leggeva prima del martirio (una copia del De bono mortis o “sul vantaggio della morte”, di Sant’Ambrogio), macchiato di sangue, fu esibito per secoli come reliquia.

Bonifacio è considerato l’apostolo della Germania e dei Paesi Bassi, e secondo la stima dello storico Christopher Dawson, ha avuto più influenza sulla storia europea di qualsiasi altro inglese.

(8) L’usanza di fare pellegrinaggi in occasione della Pentecoste, anziché nel giorno di festa del santo il 7 novembre, è attestata già nella vita di Willibrord redatta attorno al 1100 da Theofrid: è probabile che questo uso nasca dalle assegnazioni di pellegrinaggi “privilegiati” a tutte le parrocchie di una determinata area vicina a un particolare contro di vita religiosa.

(9) Nato in Irlanda (il suo nome celtico si distingue in mezzo ai nomi sassoni dei suoi confratelli), di lui sappiamo solo che era un monaco e prete che aveva lavorato nella missione assieme ai santi Willibrord e Bonifacio, che da quest’ultimo fu nominato vescovo di Utrecht, e che con lui condivise il martirio il 5 giugno 754.

(10) Gregorio di Utrecht, nato a Treviri nel 707 (o 708), e morto attorno al 775, era stato fatto abate attorno al 750. La scuola dell’abbazia di San Martino, una sorta di seminario missionario, era ora un centro di pietà e di erudizione. Vi affluivano studenti da ogni parte: franchi, frisoni, sassoni, anche bavaresi e svevi. L’Inghilterra stessa, per quanto avesse splendide scuole, vi mandava studiosi. Tra questi il più noto è San Liudger, che divenne primo vescovo di Munster e scrisse la vita di San Gregorio di Utrecht.

(11) Il Calendario di San Willibrord è ora alla Biblioteca Nazionale di Parigi (manoscritto latino n. 10837); alla data 21 Novembre 728 (Folio 39) vi sono diverse righe autobiografiche scritte da Willibrord, che nell’occasione del suo settantesimo compleanno annota le date del suo arrivo sul continente, dei suoi viaggi in Francia e della sua consacrazione episcopale.

 
Dalla preghiera di Gesù alla preghiera del cuore

L'archimandrita Placide Deseille è igumeno del monastero di sant'Antonio il Grande a San-Laurent-en-Royans, Francia, e professore presso l'Istituto teologico San Sergio a Parigi. I seguenti pensieri provengono da un discorso tenuto in una parrocchia locale, il 6 marzo 2008, originariamente pubblicato dal Service Orthodoxe de Presse (SOP), supplemento n. 327, aprile 2008.

Le espressioni "preghiera del cuore" e "preghiera di Gesù" sono spesso usate come equivalenti. Esse dovrebbero, tuttavia, essere chiaramente distinte l'una dall'altra. Secondo il grado di maturità spirituale di una persona, la "preghiera di Gesù" può essere attiva o contemplativa. In quest'ultimo caso, diventa una vera "preghiera del cuore."

La preghiera di Gesù è composta principalmente dal nome di Gesù. I monaci del monte Athos pregano continuamente: "Signore Gesù Cristo, abbi misericordia di me!" La preghiera può iniziare con una confessione di fede: "Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio". Il grido di "misericordia" è poi pronunciato come una richiesta a Dio di effondere la sua grazia su di noi (eleos, o "misericordia", è strettamente legato al termine greco per "olio", che nel linguaggio ebraico era un simbolo di benedizione). La preghiera di Gesù è dunque una "icona verbale" di Cristo, che ci comunica la grazia deificante o l'energia del Signore risorto.

Questa invocazione diventa vera "preghiera del cuore" solo a determinate condizioni. La diciannovesima "Omelia spirituale" di San Macario d'Egitto dice: "Quando le persone si avvicinano al Signore, devono prima fare violenza a se stessi in uno sforzo strenuo di aspettare la sua grazia con incrollabile fede... Devono lottare per pregare anche quando mancano di 'preghiera spirituale.' quando Dio vede il modo in cui perseverano nella lotta, anche quando il loro cuore non è in essa, Dio concederà loro il dono della vera preghiera spirituale, della vera carità, della vera tenerezza e compassione. In una parola, Dio li ricolmerà con i doni dello Spirito Santo".

Questa lotta ci coinvolge nella fase attiva della preghiera. Non è, tuttavia, un "metodo" che ci condurrà più in profondità nella vita spirituale. Ciò può avvenire solo quando rispondiamo con umiltà alla grazia di Dio. Ripetere la preghiera ha sempre un valore particolare in quanto ci porta al di là del ragionamento discorsivo e altre forme di riflessione mentale. Conduce alla semplicità e all'apertura di cuore che concentra l'anima in modo univoco su Cristo. L'umiltà è la chiave di questo movimento interiore: ci permette di percepire la presenza e l'aiuto di Dio, e di accogliere il suo dono di salvezza; promuove la fiducia in Dio, la fiducia che egli ci vede nei momenti di caos e tumulto, che egli sarà la nostra luce quando camminiamo attraverso l'oscurità, che egli ci conforta nei momenti di malattia, lotta spirituale e angoscia. Dio ci offre tutto questo attraverso la preghiera di Gesù.

Una volta che questa preghiera ha messo radici dentro di noi, il nostro cuore è illuminato da una profonda fiducia, in cui siamo risparmiati dalla precedente cecità che ci permetteva di pregare solo con le labbra. Ora diamo il benvenuto alla preghiera come un tesoro ineffabile. Come le guide spirituali hanno spesso dichiarato, "La preghiera di Gesù è una gioia che provoca una risposta di ringraziamento".

A questo punto nel pellegrinaggio spirituale, il cuore si trasforma per grazia. Tuttavia, Dio ci permette ancora e ancora di essere tentati, per insegnarci che è in lui solo che possiamo trovare la nostra forza e il compimento della nostra speranza. Questo è il motivo per cui è così necessario che impariamo ad accettare la nostra debolezza e fragilità, con uno spirito di genuina umiltà. Nessuno può acquisire l'umiltà se non con l'uso dei mezzi appropriati, mezzo che conducono a un cuore umile e contrito e all'eliminazione dei nostri pensieri presuntuosi. Troppo spesso infatti il nemico scopre i punti deboli dentro di noi, e questo gli permette di sviarci dalla via che conduce alla vita.

Senza umiltà, è impossibile per una persona a raggiungere la "perfezione" spirituale. Noi impariamo per mezzo di prove, senza le quali nessuno può acquisire vera umiltà.

Tale acquisizione comporta necessariamente un "cuore spezzato" e un'ardente preghiera. Tale umiltà consente a coloro che ci amano di avvicinarsi a noi e manifestare questo amore. Per quanto grandi siano le prove e le tentazioni, queste possono sempre diventare, per grazia di Dio, il mezzo con cui raggiungiamo una genuina umiltà e, quindi, otteniamo il regno dei cieli. Queste prove possono coinvolgere la nostra vita interiore: assalti di pensieri corruttori, o sbalzi di orgoglio (che è tanto spesso una manifestazione della nostra vergogna e delle nostre ferite). Possono anche comportare attacchi contro il nostro corpo: la malattia, la vecchiaia, la negligenza da parte nostra o da parte di altre persone. A volte vengono anche da attacchi palesi da parte di altri: da abuso o abbandono. In ogni caso, tali prove sono necessarie, al fine di condurci a uno stato di vera umiltà.

È in tale stato di umile accettazione delle nostre prove – costantemente affidate nelle mani amorevoli di Dio – che la preghiera di Gesù può diventare vera preghiera del cuore.

 
La lezione delle ragazze di una volta

Sugar and spice and all things nice: 'Zucchero e spezie e tutte le bellezze, questo è ciò di cui son fatte le ragazze'. Beh, quelle di una volta lo erano davvero! Mi ricordo di un tempo in cui le ragazze vestivano come ragazze. Indossavano bei vestiti e belle scarpe, e si mettevano appena un accenno di trucco per far risaltare il modo in cui portavano i capelli. Sorridevano spesso e parlavano con garbo. Non fumavano mai per strada e non le sentivi mai dire parolacce.

Posso ricordare il modo con cui arrivavamo a un appuntamento – sì, portavamo spesso fiori e cioccolatini quando potevamo permetterceli. (Non lasciavamo mai che una ragazza tornasse a casa da sola e non ci davamo mai appuntamenti in città. Le andavamo a prendere dalle loro case e le riportavamo di nuovo lì).

Era un'epoca delicata di gonne di percalle e di tacchi alti; era un'epoca di passeggiate al chiaro di luna e di canzoni con parole che si potevano imparare. Era un'epoca di romanticismo e di sogni, di cuori spezzati e di lacrime. Era un'epoca di canzoni d'amore e di buone maniere.

E le ragazze rispondevano come solo le ragazze sanno fare. Le ragazze che portavo fuori sarebbero rimaste sedute in macchina tutta la notte se qualcuno non apriva loro la portiera. Non sarebbero entrate per una porta a meno che qualcuno non la aprisse per loro. Molti leggendo queste cose ci prenderanno in giro e, oserei dire, molti guarderanno indietro e ricorderanno con nostalgia.

Sì, le cose sono molto diverse oggi. Le ragazze indossano jeans e hanno pezzi di acciaio infilati nei loro volti e nei loro corpi. Fumano ovunque. Dicono ad alta voce parole che farebbero arrossire un marinaio. Si aspettano di essere trattate come eguali.

Quando ero ragazzo, non trattavamo le ragazze come eguali, ma come angeli. Se qualcuno di noi faceva fisicamente del male a una ragazza, quel tipo veniva picchiato dai suoi amici. Le ragazze non ricevevano l'uguaglianza da noi ragazzi; ricevevano qualcosa di molto più importante – il rispetto.

Ma allora le ragazze erano diverse, agivano in modo diverso ed erano orgogliose di essere quello che erano: signorine. I giornali di oggi sono pieni di storie di stupri, pestaggi, omicidi e abusi di donne.

C'è una lezione da imparare da queste cose?

 
Verso la vera Ortodossia

Custodisci il buon deposito con l'aiuto dello Spirito santo che abita in noi.

2 Timoteo 1, 14

Prefazione

Ortodossia, Ortodossia orientale, Ortodossia greca, Ortodossia russa, Ortodossia romena: qualunque sia il nome che le viene dato, è circondato da ignoranza, miti, invenzioni e fantasie. Forse il più grande di questi è il mito che l'Ortodossia è diversa dal cristianesimo. Cerchiamo di essere chiari fin dall'inizio: l'Ortodossia è il cristianesimo. Le due parole significano esattamente la stessa cosa. Tutto ciò che si definisce cristianesimo e non Ortodossia è qualcosa di meno del cristianesimo. E tutto ciò che si fa chiamare Ortodossia e non cristianesimo è qualcosa di meno dell'Ortodossia.

Lo potete chiamare cattolicesimo romano, anglicanesimo, protestantesimo evangelico, battismo, metodismo, pentecostalismo, tutto quello che volete. Tuttavia, se non è Ortodossia, non è cristianesimo, e se non è cristianesimo, non è Ortodossia, ma un suo adattamento riduzionista, artificiale. È vero, le parole ortodosso e cristianesimo, e ortodossi e cristiani, sono spesso messe insieme per formare 'Cristianesimo ortodosso' e 'cristiani ortodossi', ma solo in contesti in cui la gente non potrebbe altrimenti capire e si confonderebbe. Le parole Ortodossia e cristianesimo, le parole ortodosso e cristiano, significano esattamente la stessa cosa, sono sinonimi.

E' quindi curioso vedere come a volte i nuovi arrivati all'​​Ortodossia confondono l'Ortodossia con qualcosa di diverso dal cristianesimo reale, dall'Ortodossia reale, in modo da creare una falsa Ortodossia e un falso cristianesimo. La fonte di tale confusione è in un approccio non-spirituale al cristianesimo / all'Ortodossia. Questo approccio non-spirituale assume due diverse forme illusorie, create da due tipi di tentazioni. La prima tentazione è quella del corpo, frutto di un approccio fisico esterno. La seconda tentazione è quella della mente, frutto di un approccio razionalistico intellettuale. Dal momento che entrambi i tipi di tentazione sono superficiali, non sono spirituali, e quindi non portano a un modo di vita cristiano/ortodosso.

La prima tentazione

Vi è un corpo naturale, e vi è un corpo spirituale.

I Cor 15, 44

La prima tentazione di chi è nuovo alla Chiesa ortodossa (perché questo è l'unico posto dove si può confessare il cristianesimo/l'Ortodossia) è quello di confondere l'esterno con l'interno. Per esempio, abbiamo a volte visto come chi è nuovo alla Chiesa imita quello che ritiene un 'aspetto' ortodosso, una fantasia che sembra essere ottenuta dai libri. Questo può significare uomini con lunghe barbe e capelli lunghi (che disobbediscono così alle parole dell'Apostolo in 1 Cor 11,14) e donne che indossano abiti ottocenteschi e si mettono enormi veli sul capo. In tali casi, persone di entrambi i sessi possono vestirsi di nero, sfoggiare grandi croci al collo e corde da preghiera polsi, assumendo in un modo esagerato l'aspetto di monaci e monache ortodossi (che non indossano croci). A volte, possono trascorrere lunghe ore a parlare di strani cibi di digiuno e spendere per questi grandi somme. A volte, desiderano pure cambiare nomi cristiani ordinari in nomi di battesimo esotici.

In oltre trent'anni di vita ortodossa, non ho mai incontrato nessun ortodosso 'ordinario' che si comporta o si veste in questo modo. Dal momento che l'Ortodossia è semplicemente il cristianesimo, certamente non comporta acconciature o modi di vestire bizzarri. Né comporta che i non monaci facciano finta di essere monaci. E certamente l'obiettivo dell'Ortodossia non è quello di mangiare cibi strani. Lo scopo del digiuno non è di parlare dei cibi, tanto meno di mangiarli, siano questi cibi di digiuno oppure no, ma di spendere meno tempo a mangiare e parlare, e più tempo a pregare. E uno dei vantaggi del digiuno è spendendo meno soldi per il cibo e donre il denaro risparmiato per buone cause. Nella vita di tutti i giorni, 'normali' ortodossi, che potrebbero essere stati battezzati 'Dimitri', 'Theophilos', 'Haralambos' o 'Vladimir', spesso modificano il loro nome in 'Jim', Theo',' Harry 'o' Walter '. I nuovi arrivati, d'altra parte, a volte fanno il contrario, cercando di cambiare nomi come 'Antonio', 'Michele', 'Pietro' e 'Giovanni' in 'Vladimir', 'Auxentios', 'Rostislav' e 'Theologos'. Perché? Chi lo sa.

Io supplico tali nuovi arrivati ​​alla Chiesa ortodossa di passare attraverso questa fase il più rapidamente possibile, se possibile prima di essere ricevuti nella Chiesa, e di iniziare a vivere come gli altri ortodossi. Dovrebbero guardarsi intorno. Se si prendono cura di visitare chiese ortodosse ordinarie, non troveranno nessuno vestito in modo bizzarro. Non troveranno una sola donna che indossa veli giganteschi, troveranno raramente un uomo con una barba lunga (tranne che per il sacerdote, la cui barba può essere tagliata corta, come forse i suoi capelli). Non vedranno una sola persona che indossa corde da preghiera intorno ai polsi - per il semplice motivo che queste altre persone in chiesa non sono monaci o monache, ma laici sposati o singoli, che non hanno assunto obbedienze della vita monastica all'interno di un monastero o di un convento. Per quanto riguarda le croci, gli ortodossi non le indossano al di fuori dei vestiti, non le mettono in mostra; le piccole croci metalliche sono portate al collo dentro ai nostri vestiti, vicino al nostro cuore. E la gente raramente discute argomenti noiosi legati al cibo (a meno che, naturalmente, abbiano ristoranti di loro proprietà o in cui lavorano, e anche questi tendono a cambiare rapidamente argomento - chi vuole parlare di lavoro in un giorno di riposo?).

Una visione superficiale, fisica dell'Ortodossia non solo è strana, ma può anche essere spiritualmente pericolosa. Uno strano aspetto esteriore, che non è neppure un'imitazione, non riesce a capire che l'Ortodossia è semplicemente il cristianesimo, il modo di vivere cristiano. Si riduce la fede a uno spettacolo esterno e impudico. E se non si riesce a capire questo, si può, in determinate circostanze, degenerare, diventando pretenziosi, sia nel senso di fingere di essere ciò che non si è, ma anche sviluppando orgoglio. Questa presunzione può portare le persone a riferirsi a se stesse come 'schiavi di Dio' (non siamo chiamati ad essere "schiavi" di Dio ma servitori e figli di Dio). Può portare le persone a firmarsi nelle lettere con le parole 'indegno' o 'peccatore' prima dei loro nomi. Lasciate che lo facciano i monaci e le monache. Ma che il resto di noi se ne astenga: sappiamo già che siamo tutti indegni e peccatori - non ci facciamo illusioni su noi stessi. queste cose possono portare alla maldicenza e al pettegolezzo di piccoli gruppi di serra, che si riuniscono al fine di criticare gli altri.

Tale critica e aggressività verso gli altri provengono dall'insicurezza. Non a caso, coloro che entrano nella Chiesa ortodossa e pensano che l'Ortodossia sia un'imitazione di fantasia di presunti elementi esterni, che in realtà non esistono in nessuna parrocchia ortodossa, non dureranno a lungo nella Chiesa, proprio perché sono insicuri. Essi di solito trovano che la Chiesa 'non è sufficiente' per loro, che sono sulla buona strada per cadere completamente. Il complesso del convertito, il morbo del neofita, è in realtà radicato nella superbia, nel desiderio di essere 'migliore' di chiunque altro. La cosa curiosa è che quando queste persone si allontanano dalla Chiesa, raramente incolpano se stesse, ma sempre 'la Chiesa', che 'non è sufficiente' per loro.

Il miglior modo per evitare questa tentazione è quello di iniziare a guardare gli altri ortodossi, persone che sono state ortodosse per decenni e generazioni, e accettare l'obbedienza. Ho conosciuto un giovane che si è presentato in una chiesa ortodossa con i capelli lunghi e la barba lunga, vestito in abiti neri, e ha chiesto al sacerdote se poteva diventare ortodosso. Quando il sacerdote gli disse che la prima cosa che doveva fare era farsi un taglio di capelli e di barba e vestirsi normalmente, il giovane si è ribellato e se ne è andato. Il suo rifiuto di accettare una piccola dose di umiltà e obbedienza significava che non era diventato ortodosso, e in più di un senso. La malattia spirituale dei neofiti che imitano le cose esterne è da superare il più rapidamente possibile. Dopo alcuni mesi di frequentazione di una chiesa ortodossa, è il momento di diventare ortodosso. E tempo di lasciare gli antipasto e di venire al piatto principale, di entrare nell'arena, perché solo questo porterà al nostro 'dolce' - la salvezza. Tuttavia, vi è ancora un altro tipo di tentazione da superare prima di poter passare al piatto principale.

La seconda tentazione

la scienza gonfia, mentre la carità edifica. Se alcuno crede di sapere qualche cosa, non ha ancora imparato come bisogna sapere.

I Cor 8,1-2

Per i nuovi arrivati nella Chiesa che sono di matrice più intellettuale, vi è un altra, e forse ancora più grande, tentazione. E' quella di trasformare l'Ortodossia/il cristianesimo in un mero insieme di idee, di studi, un culto libresco. In realtà, l'Ortodossia/il cristianesimo non è un'idea, è un modo di vivere, è la fede vissuta. Guardate gli altri ortodossi; non leggono necessariamente montagne di libri e tuttavia hanno una fede più forte di quella di molti professori universitari. Conosco ortodossi anziani che non hanno mai letto la Bibbia in vita loro, eppure quando parlano, parlano la Bibbia. Come è possibile? E' semplicemente perché tutte le loro vite sono passate in chiesa, sono stati immersi in uno stile di vita impregnato delle Scritture viventi. Essi non leggono la Bibbia, perché, cosa molto più importante, la vivono.

La mentalità intellettuale spesso degenera in mero razionalismo. Quello che ci serve, dicono, è una nuova forma di Ortodossia, una versione migliore, riformata. In altre parole, come la gente del mondo, vogliono inventare la propria religione, riducendo l'Ortodossia/il cristianesimo alle dimensioni della loro ragione. Vogliono ridurre l'eterna e infinita realtà spirituale alle dimensioni pulite e minuscole delle loro limitate menti create, piuttosto che accettare umilmente una goccia della grandezza infinita della grazia di Dio, ben oltre la ragione umana e il condizionamento sociale. Questo spirito di razionalismo non viene dalla Chiesa; se lo portano con loro dal di fuori, come tante valigie delle vacanze, piene di vestiti non necessari.

Poi, iniziano le pretese. Prima di tutto, ci sono quelli che esigono che le preghiere segrete e il canone eucaristico siano dette ad alta voce durante la Divina Liturgia. A quanto pare, la salvezza è possibile per loro solo se si fa così, perché, come si dice, 'tutti devono capire'. Ma non siamo venuti in chiesa per capire ciò che comunque non può essere compreso, siamo venuti a pregare, a purificare i nostri cuori. Solo quando i nostri cuori saranno purificati la nostra mente comincierà a essere illuminata e così a capire. L'illuminazione spirituale, la vera educazione, inizia nel cuore e poi si diffonde nella mente, e non il contrario. La mente infatti è solo uno strumento, mentre senza cuore soffriamo la morte sia fisica che spirituale.

Tuttavia, questo non è accettabile per coloro che pensano che la mente umana fiera e peccatrice possa capire tutto. La loro prossima pretesa potrebbe essere la rimozione dell'iconostasi dalla loro chiesa locale. Naturalmente, non hanno il concetto del sacro, o dei sacrifici che le generazioni precedenti hanno fatto per erigere l'iconostasi nella loro chiesa. Poi, naturalmente, il calendario deve essere cambiato, in modo che 'possiamo essere come tutti gli altri'. Sconosciute sono le Scritture, le quali dicono che non siamo come tutti gli altri, che noi cristiani siamo una razza a parte: Ma voi siete stirpe eletta, regale sacerdozio, nazione santa, popolo particolare (I Pietro 2,9).

E dopo? Beh, certo, dobbiamo sbarazzarci di tutte queste strane e irrazionali abitudini 'anti-femministe', che le donne si coprano il capo con modestia in chiesa (in obbedienza alle parole dell'Apostolo in 1 Cor 11,5), che le donne non ricevano la comunione durante le mestruazioni, che le madri non vadano in chiesa per quaranta giorni dopo il parto (in quanto sia le mestruazioni che il parto sono conseguenze involontarie della Caduta). Una volta che hanno eliminato tutte le precedenti 'abitudini', poi, naturalmente, perché non fare diaconi e preti donne 'come tutti gli altri'? E a proposito di tutti gli altri, dobbiamo seguire 'ecumenismo' e intercomunione. Anzi, perché non distruggere completamente la Chiesa e ricominciare tutto da capo? Che peccato che lo Spirito Santo si sia sbagliato per tutti questi 2000 anni, quando solo loro avevano ragione. Chiaramente, sono il dono di Dio all'umanità.

Questa è la logica del razionalista. Questo è l'ostacolo a raggiungere il piatto di portata principale del pasto, a raggiungere ciò che è al di sopra della ragione, il sovra-razionale. Tale razionalismo è frutto di orgoglio e di auto-adulazione. L'orgoglio può essere visto nel desiderio del razionalista di evitare confessione (uno dei tratti distintivi dell'approccio razionalista) e poi di fare la comunione a ogni singola Liturgia. Tuttavia, rifiutare la confessione, nelle parole dell'evangelista Giovanni il Teologo, è auto-inganno, perché non c'è uomo senza peccato e tutti abbiamo bisogno di confessione (I Giovanni 1,8-10). E la comunione senza confessione porterà solo alla malattia descritta dall'apostolo Paolo in 1 Cor 11,29. L'approccio razionalista, anti-mistico alla vita della Chiesa è infatti la ​​più veloce via d'uscita dalla Chiesa, perché nega l'essenza della Chiesa, che è il mistero. Purtroppo, ci sono persone che hanno preso questa via d'uscita.

Postfazione

Il fine di questo richiamo è la carità, che sgorga da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera. Proprio deviando da questa linea, alcuni si sono volti a fatue verbosità.

I Timoteo 1, 5-6

Diversi anni fa mi ricordo di aver sentito un aneddoto su un'anziana donna russa che commentava il comportamento di un giovane zelante convertito: 'Lui è certamente ortodosso', diceva, 'ma è cristiano?' Voleva dire che questi osservava tutti gli aspetti esterni, infatti li osservava a esclusione di tutto il resto, e, di conseguenza, non osservava nessuna delle parti interne. Nelle parole di un proverbio, 'non riusciva a vedere il bosco a causa degli alberi'. Nelle parole dell'Apostolo, soffriva di 'zelo senza conoscenza'. Esteriormente era ortodosso, ma dentro tendeva ad assomigliare a un lupo rapace. In ogni caso, non viveva uno stile di vita cristiano/ortodosso. Il suo zelo era senza esperienza.

Si deve concludere che coloro che sono nuovi nella Chiesa hanno bisogno prima di tutto di di seguire l'esempio degli altri intorno a loro, che non hanno mai conosciuto altro che l'Ortodossia/il cristianesimo. Da qui il pericolo di parrocchie in cui, purtroppo, ci sono solo nuovi arrivati ​​nella Chiesa. Possono diventare ghetti malsani. Purtroppo, ho conosciuto persone che non sono mai cresciute oltre il loro periodo di neofiti e sono rimasti per tutta la vita 'convertiti', descrivendo anche se stessi come tali (perché questo è ciò che sentono di essere). Questo è perché non sono mai passati dagli antipasti al piatto principale, non sono mai stati nell'arena. Come arriveranno mai al 'dolce'?

La nostra sintesi di 'Verso la vera Ortodossia' è di sette parole: siate umili, siate semplici e siate modesti. Questo non è forse il messaggio dei Vangeli? Perché complicare la vita cristiana/ortodossa? Siate umili, siate semplici e siate modesti. Questo è tutto quel che c'è da fare.

 
CÂND ŞI CUM PUTEM BOTEZA COPIII

Deşi cei mai mulţi consideră că ştiu răspunsul la această întrebare, în realitate ne zbatem într-o mare neştiinţă înfrăţită cu indiferenţa, iar în rezultat avem foarte puţini creştini ortodocşi care îşi conştientizează propriul Botez şi responsabilitatea asumată prin primirea acestuia. Tocmai de aceea mi-am propus să punctez câteva idei mai importante pe care cred că trebuie să le ştie fiecare creştin, în special părinţii şi naşii care îşi aduc pruncii pentru a fi botezaţi, dar şi preoţii care săvârşesc aceste botezuri.

1. Înainte de a spune ce este botezul, trebuie să menționăm ce nu este el, pentru că între creştini circulă prea multe mituri şi învăţături greşite despre Botez şi efectele lui. Cei mai mulţi îşi aduc copiii la botez în virtutea unui obicei pe care nici nu doresc să-l înţeleagă, iar o bună parte dintre „ortodocşi” consideră că un copil trebuie cât mai repede botezat ca să doarmă bine, să fie sănătos, să nu fie deocheat, să nu scuipe biberonul sau să poată ieşi din casă. Dar Hristos n-a lăsat Taina Botezului ca somnifer sau ca bilet de ieşire din casă, iar oamenii care gândesc astfel, dacă încă nu s-au hotărât să deschidă Biblia ca să înţeleagă ce înseamnă Botezul, măcar să gândească logic că numai în China şi India sunt peste două miliarde de oameni nebotezaţi şi toţi dorm normal, trăiesc mai mult decât noi, nu sunt deocheați şi nici n-au probleme la ieşirea din casă. De ce un copil născut din tată şi mamă botezaţi şi cununaţi s-ar teme de aşa ceva?! Şi oare cât timp vom mai avea închipuiri atât de josnice faţă de Tainele Bisericii?!

2. Hristos a rânduit Botezul ca o posibilitate, o şansă şi un Dar dumnezeiesc, dar nu ca o obligaţie sau obicei. Atunci când părinţii concep un copil nu-şi propun doar să-l nască, „că aşa trebuie” sau ca tatăl copilului să bea bine în acea zi, ci se gândesc la creşterea şi viaţa lui de mai departe, iar însuşi copilul, fie şi inconştient, nu-şi concepe existenţa decât alături de părinţi. Şi după cum naşterea nu este un scop în sine, ci este o etapă prin care omul trece de la dezvoltarea embrionară la viaţa propriu-zisă, tot aşa şi Botezul, ca naştere duhovnicească „din apă şi din duh” (Ioan 3:5), nu este un scop în sine, ci este abia începutul vieţii duhovniceşti. Botezul nu este sfârşitul unor rânduieli legate de naşterea copilului, aşa cum deseori se exprimă părinţii: „l-am botezat şi am scăpat”, ci este doar începutul vieţii în Hristos şi în Biserică. Totul abia atunci începe, iar dacă cei care aduc pruncul la Botez nu au o relaţie vie şi permanentă cu Biserica, este aproape sigur că nici copilul lor nu va avea o astfel de relaţie, iar dacă o va avea, aceasta nu se va datora părinţilor şi naşilor, ci unor factori exteriori, care nu-i îndreptăţesc pe părinţi, ci mai mult îi acuză.

Cei care-şi botează pruncii și după aceasta îi rup de Tatăl şi de Mama lor, adică de Dumnezeu şi Biserică, sunt asemenea celor care-şi nasc copiii apoi îi aruncă la gunoi, fără să le mai pese de viaţa lor. Şi vai de preoţii care se fac părtaşi unor astfel de crime duhovniceşti, neexplicându-le părinţilor şi naşilor ce înseamnă botezul şi la ce jug se înjugă cei care se pun garanţi pentru credinţa şi educaţia creştină a copilului. Dar e şi mai grav atunci când oamenii chiar ar vrea să ştie toate acestea, dar preoţii nu se obosesc să le explice, iar după aceea dau toată vina pe părinţi, de parcă preotul ar fi un năimit care oficiază acte magice sau un funcţionar de la bancă care dă credite, dar nu-i pasă dacă clienţii au cu ce să le plătească, şi nici nu le vorbeşte despre consecinţele neachitării la timp a datoriei.

3. Cea mai importantă condiţie pentru botez este credinţa sinceră în Dumnezeu, lepădarea de Satana şi de toate lucrurile lui, şi urmarea lui Hristos. Când Mântuitorul a trimis apostolii în lume, nu le-a spus să boteze pe toţi laolaltă, ci în primul rând să înveţe neamurile (Matei 28:19-20), apoi să boteze pe cei care vor crede Evangheliei (Marcu 16:15-16). Neoprotestanţii, limitându-se la sensul direct al textului, botează doar persoanele mature, care pot crede conştient în Evanghelie, iar credinţa este văzută de ei mai mult ca o însuşire a unor versete interpretate după bunul plac. Cu toate acestea, accentul pus pe credinţă este unul corect, iar necesitatea credinţei este la fel de valabilă şi în Biserica Ortodoxă. Diferenţa dintre noi şi neoprotestanţi nu constă în faptul că unii cer mărturisirea credinţei, iar alţii nu. Şi Biserica Ortodoxă cere mărturisirea credinţei candidatului la botez, dar acceptă, prin excepţie (devenită generală), ca mărturisirea să fie făcută de părinţi împreună cu o altă terţă persoană, pe care noi o numim naş. A boteza fără a cerceta credinţa şi cunoştinţele religioase ale părinţilor şi naşilor este o impietate şi o batjocură faţă de Tainele Bisericii, iar preoţii ca „iconomi (nu distribuitori) ai Tainelor lui Dumnezeu” (I Corinteni 4:1) n-ar trebui să admită aşa ceva, indiferent de situaţie!

Haideţi să analizăm puţin cazul famenului din Etiopia, despre care ni se relatează la Fapte 8:26-39. Duhul Sfânt îl trimite pe Filip către famen (v. 26-29), găsindu-l pe acela citind din Scriptură (v. 28). Filip îi tâlcuieşte pasajul biblic neînţeles de el şi îi vorbeşte despre mântuirea venită prin Hristos (v. 30-35). Famenul vede apa şi spune: „Iată apă! Ce mă împiedică să fiu botezat?” (v. 36). Vedem însă că reacţia lui Filip a fost cu totul alta decât a preoţilor de astăzi. El nu spune: „vai, pe mine m-a trimis Duhul Sfânt, iar omul acesta e de departe, tocmai din Etiopia, şi trebuie urgent botezat, ca să nu i se întâmple ceva pe drum sau chiar să moară”, deşi pericole erau destule. Chiar şi faptul că etiopianul citea Scriptura şi era dornic să înţeleagă cele citite n-a fost suficient pentru ca Filip să fie de acord să-l boteze. Bineînţeles că statutul social şi bogăţiile acelui famen, „ministru al economiei” în Regatul Etiopiei, de asemenea n-au constituit vreun privilegiu pentru el. De aceea, Filip răspunde la întrebarea famenului în felul următor: „Dacă crezi din toată inima, este cu putinţă”. Şi el, răspunzând, a zis: „Cred că Iisus Hristos este Fiul lui Dumnezeu” (v. 37). Abia atunci s-a oprit carul şi Filip l-a botezat (v. 38).

Prin urmare, justificări pentru a proceda altfel decât a procedat Filip cu etiopianul nu există, iar atunci când părinţii se adresează preotului pentru a boteza pruncul, acesta este obligat să înceapă un amplu proces de catehizare la care să explice principalele învăţături ale Bisericii şi fundamentarea lor biblică, şi abia după aceea să vorbească despre Botez. De exemplu, Canoanele 46 Laodiceea şi 78 Trulan (VI Ecumenic) prevăd catehizarea obligatorie a candidaţilor la botez şi chiar examinarea lor săptămânală. Doar în cazul în care catehumenul este grav bolnav, preotul poate săvârşi Botezul fără cateheză, dar şi atunci este obligat să-l întrebe pe candidat (sau pe cel care mărturiseşte în locul lui) dacă crede în Sfânta Treime, în mântuirea prin Hristos, în învierea morţilor şi în viaţa de veci. Iar dacă neofitul rămâne în viaţă, preotul este obligat să facă catehizarea după Botez (Canonul 47 Laodiceea). Şi bineînţeles, cazurile de acest gen sunt extrem de rare, iar de cele mai multe ori, nu există nici un motiv de a grăbi botezul şi de a nu face catehizare.

4. Mulţi preoţi îndeamnă părinţii să-şi boteze cât mai repede pruncii, dar fără să le vorbească despre credinţă, responsabilitate, viaţă veşnică etc. Totul este privit prin prisma beneficiilor imediate. Trebuie însă să precizăm că Biserica Ortodoxă acceptă şi recomandă botezarea copiilor, dar niciodată nu-l impune, mai ales dacă nu s-a făcut o pregătire corespunzătoare. În secolul al III-lea Tertulian insista pe amânarea Botezului copiilor (cf. Despre botez, cap. 18), nefiind de acord cu grăbirea nemotivată a Botezului. În secolul al IVlea Sf. Grigore Teologul, fiu de episcop, dar botezat abia la 30 de ani, recomanda botezarea copiilor la vârsta de cel puţin trei ani, „pentru ca aceştia cât de cât să poată auzi şi repeta cuvintele Tainei, iar dacă nici atât, cel puţin, să o înţeleagă imaginar” (cf. Omilia 40; PG 36, col. 400). Această recomandare a fost respectată în Biserică până prin secolul al IX-lea, când se generalizează botezul la un an sau la 40 de zile, dar niciodată fără cateheză. În prezent însă, încă de prin perioada turcocraţiei, totul s-a transformat în „servicii religioase pe bandă rulantă”, accentul punându-se doar pe cantitate, iar de calitate nici măcar nu se vorbeşte. Cel puţin în Biserica Ortodoxă Română nu cunosc nici un ierarh care să ceară preoţilor un anumit număr de cateheze baptismale şi să supravegheze calitatea şi regularitatea lor. Situaţia este şi mai gravă în Biserica Ortodoxă din Moldova, deşi Soborul Arhieresc al Bisericii Ortodoxe Ruse din 2011 are decizii foarte clare în acest sens. Şi-atunci de ce ne mirăm de „creştinii” pe care-i avem sau de faptul că unii dintre ei, fiind botezaţi şi împărtăşiţi de mici în Biserica Ortodoxă, au ajuns activişti homosexuali sau atei înverşunaţi, nemaivorbind de faptul că puşcăriile tot de „ortodocşi” sunt pline?! Şi cum să nu ajungă aşa dacă noi le dăm Evanghelia numai să o sărute, dar nu le citim din ea şi nu leo explicăm, ca în ei să se aprindă flacăra credinţei şi a iubirii pentru Dumnezeu şi pentru aproapele, căci „credinţa este din auzire, iar auzirea prin cuvântul lui Hristos” (Romani 10:17). Să te naşti din părinţi credincioşi încă nu înseamnă nimic, dacă aceştia nu-ţi explică niciodată de ce trebuie să credem şi de ce credem anume aşa şi nu altfel.

5. Credinţa de care vorbeşte Evanghelia şi care se cere la Botez nu este credinţa în faptul că Dumnezeu există sau, cum spun unii: „eu cred că există ceva, o putere, o raţiune supremă etc.”. Toate astea n-au nimic comun cu adevărata credinţă. Şi demonii cred că Dumnezeu există, dar nu putem spune că „sunt credincioşi”, chiar dacă „se tem şi se cutremură” în faţa măreţiei lui Dumnezeu. A fi credincios înseamnă, pe de o parte, a avea încredere în Dumnezeu mai mult decât în orice şi oricine din lumea aceasta, iar pe de altă parte, credinţa înseamnă credincioşie, adică fidelitate faţă de Dumnezeu. O soţie credincioasă faţă de soţul ei nu este aceea care crede că soţul ei există sau care are nevoie doar de banii bărbatului, ci numim „credincioasă” soţia care are deplină încredere în soţul ei, îl iubeşte din toată inima şi nu-l înşeală nici măcar cu gândul, ci vrea să fie doar cu el, îndeplineşte orice dorinţă a lui şi este gata chiar să moară pentru el. O astfel de credincioşie cere Dumnezeu şi de la noi, iar analogia cu viaţa de familie aparţine de fapt Sfântului Apostol Pavel, care Îl compară pe Hristos cu mirele, iar Biserica – cu o mireasă credincioasă (Efeseni, capitolul 5). Orice creştin botezat devine mireasă a lui Hristos, dar nu în particular, ci prin Biserică. Eşti mireasă a lui Hristos doar în măsura în care eşti membru viu al Bisericii. Tocmai de aceea, Sf. Ciprian al Cartaginei spunea că „în afara Bisericii nu există mântuire”, căci Dumnezeu-Iubire, fiind întreit în Persoane, nu-şi revarsă iubirea Sa peste indivizii care „cred doar în suflet”, ci numai peste adunarea credincioasă şi iubitoare a lui Hristos. Iar a-L iubi pe Dumnezeu înseamnă a păzi poruncile Lui (Ioan 14:15,21) şi a dori viaţa veşnică cu El.

6. Pentru ca un copil să ştie şi să păzească poruncile lui Dumnezeu, el trebuie să fie învăţat de cei care le cunosc. Nişte părinţi sau naşi care n-au citit niciodată Evanghelia şi nici nu participă la viaţa şi slujbele Bisericii nu vor putea niciodată să înveţe un copil decât să se îndreptăţească şi să se scuze, aşa cum fac ei de obicei. Trăim în vremuri când majoritatea creştinilor au terminat cel puţin liceul, ştiu să citească, se descurcă la calculator şi la telefonul mobil, dar nu ştiu cele 10 porunci, Simbolul de Credinţă (Crezul) şi alte lucruri elementare, nemaivorbind de învăţături mai profunde ale Sfintei Scripturi. Tocmai de aceea, mai ales în cazul în care părinţii copilului sunt încă „departe de Biserică”, aceştia ar trebui să aleagă nişte naşi pregătiţi şi potriviţi pentru a ajuta la educaţia duhovnicească a copilului lor. Naşii nu sunt sponsori ai copilului şi nici nu trebuie aleşi pe criterii de prietenie pur omenească, ci pe criterii duhovniceşti. La alegerea naşului de botez nu poate fi vorba de colegialitate, statut social, grad de rudenie sau frică de a nu supăra pe cineva. Când un bolnav are o problemă de sănătate, el merge la cel mai bun doctor, iar dacă are un prieten medic, dar care nu este bun specialist, va pune pe primul plan sănătatea lui şi nu prietenia care-l poate păgubi. Căci dacă prietenia e una sănătoasă, ea n-ar trebui să fie afectată de o astfel de abordare, ci din contra: un prieten medic, dacă nu este bun specialist, va refuza să facă experimente cu prietenul şi îl va recomanda altui coleg mai bine pregătit. Iar Botezul este infinit mai important decât scoaterea unui dinte sau o operaţie de apendicită. La noi însă totul e pe dos şi te miri cât de uşor oamenii acceptă de a fi naşi (sau aşa-zişi cumetri). Cred că şi atunci când unii dintre ei au devenit pionieri sau comsomolişti erau mai responsabili decât atunci când acceptă să devină naşi de botez. Tocmai de aceea, încă de la primele lecţii de catehizare, naşii trebuie să primească acceptul Bisericii, dar pot fi şi refuzaţi dacă nu întrunesc condiţiile Bisericii. Iar dacă părinţii insistă pe nişte naşi necredincioşi, Biserica poate refuza săvârşirea acelui Botez şi acesta va fi un refuz obiectiv şi întemeiat. Dacă însă preotul acceptă să săvârşească Botezul fără să-i cunoască pe părinţi sau pe naşi, convenind data şi ora Botezului la telefon sau prin femeia care vinde lumânări, toată vina pentru soarta copilului cade asupra acelui preot care este „lup în piele de oaie”. Unii vor zice că exagerez, dar Hristos şi Apostolii cu siguranţă sunt de partea acestei abordări fără compromis şi nu acceptă ca preotul să se transforme într-un chelner care nu ştie cum mai bine să-şi deservească clienţii pentru a nu pierde bacşişul.

7. La modul practic, părinţii trebuie să aleagă unul sau cel mult doi naşi (nu neapărat naşii lor de cununie), care să fie buni creştini ortodocşi şi „oameni de Biserică”, cu un înalt simţ al responsabilităţii. De la astfel de naşi nu trebuie aşteptate beneficii materiale, ci doar să-şi facă conştiincios datoria, căci năşia nu-i un obicei popular care se rezumă la a da sau a primi nişte colaci, ci e o problemă de viaţă şi de moarte. Prin urmare, la Botez trebuie să fie unul sau cel mult doi naşi, nu zeci de cumetri, care n-au nici o atribuţie, ci vin de gură-cască, iar uneori nici nu asistă la Botez, ci vor să fie pomeniţi „la fără frecvenţă”. Şi dacă un preot serios le spune că acest lucru nu-i corect, în numele „cumătrismului naţional” (dogmatizat la moldoveni) aceştia merg la alţi preoţi, care îi jupoaie de bani, pomenind numele celor care de fapt nu sunt cumetri şi n-au nici o legătură cu Botezul!

După învăţătura Bisericii, totul e mult mai simplu: în cazul unui băiat se ia ca naş un bărbat, iar în cazul unei fetiţe – o femeie. Acesta mărturiseşte credinţa în numele pruncului şi doar el se înrudeşte spiritual cu familia copilului, iar toţi ceilalţi doritori de a participa la slujba Botezului sunt simpli credincioşi (dacă sunt), care se bucură de încorporarea unui nou membru în Trupul Bisericii. Şi Botezul trebuie privit anume aşa, ca o sărbătoare a întregii Bisericii, care trebuie unit cu Liturghia duminicală sau praznicală, nu ca un serviciu religios pe care cineva îl oficiază în particular, ca şi cum nici n-ar vrea să fie deranjat de prezenţa întregii comunităţi.

8. În cazul în care părinţii sau naşul copilului refuză frecventarea lecţiilor de catehizare sau nu se arată responsabili în ce priveşte educaţia ulterioară a pruncului, Biserica este obligată să refuze oficierea acelui Botez, iar frazele de genul: „ce vină are copilul?” trebuie întoarse împotriva părinţilor, nu împotriva Evangheliei. Botezul nu se face din milă, ci numai în baza mărturisirii de credinţă, căci şi Hristos n-a spus că se vor osândi cei care nu se vor boteza, ci cei care nu vor crede (Marcu 16:16). Calendarul nostru este plin de sfinţi care n-au apucat să se boteze (nu că n-ar fi dorit), în schimb nu avem nici un sfânt care să nu fi avut credinţă sau să fi aparţinut Bisericii doar formal, sperând că se va mântui mâncând ouă roşii la Paşti. Iată de ce, atunci când nu se întrunesc toate condiţiile pentru Botez, Biserica poate şi chiar trebuie să refuze săvârşirea acelui Botez, şi nici un alt preot nu poate trece peste condiţiile stabilite de Mântuitorul Hristos. În cazurile în care un preot nu botează copilul din cauza lipsei banilor, alt preot este chiar obligat să săvârşească acel Botez şi să raporteze fapta „colegului” către episcop. Dar dacă preotul refuză Botezul din lipsa de credinţă, nici un alt preot nu poate face pogorământ în acest caz, căci aici nu e vorba de o decizie subiectivă a preotului, ci de o atitudine obiectivă a Bisericii, enunţată printr-un preot care nu negociază Tainele Bisericii. Şi să dea Domnul cât mai mulţi preoţi de acest fel… Numai aşa turma lui Hristos se va vindeca de formalism şi ipocrizie, mărturisind şi trăind conştient credinţa.

Bineînţeles, toate aceste idei nu sunt deloc protestante, ci cât se poate de ortodoxe şi menite să-i salveze pe ortodocşi şi să întărească Biserica. Aspectele pozitive şi negative din istoria Bisericii noastre confirmă acest lucru.

Aşa să ne ajute Dumnezeu!

 
Un po' di umorismo sui calici da comunione

Chi l'avrebbe detto che era possibile trovare un aspetto buffo anche nei calici della Divina Liturgia? Seguiteci per scoprirlo in questa pagina della sezione "Umorismo" dei documenti...

 
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I Don Giovanni e le Ciccioline

Uno degli eventi rivelatori del nostro tempo è stata l'elezione di una pornostar, Cicciolina [1], al Parlamento italiano. Questa è una testimonianza dello stato della nostra società, non perché stiamo parlando di una novità nella storia umana, ma perché gli ideali che una volta erano vergognosi, e che erano stati, per un certo tempo, vinti dal buon senso cristiano, stanno ora ritornando nella società nella loro forma più volgare.

I giovani pensano che se vanno a letto con chiunque o si drogano, fracassando il guscio di contenimento della moralità, raggiungeranno la libertà. La filosofia di Jim Morrison [2], che suona più o meno così: "Se anche i cani si amano quando vogliono, perché gli esseri umani non possono fare lo stesso" non è la risposta. Quando ci troviamo di fronte a un concetto esistenziale, faremmo bene a guardare prima alle sue conseguenze, vedendo l'esempio dell'autore del concetto.

Queste filosofie che promettono la libertà si possono trovare in Nietzsche, Morrison o Kurt Cobain [3], tutti finiti molto male. Hanno perso il senno, o si sono suicidati. Se qualcuno pensa che il suicidio sia una grande impresa o che perdere il senno sia molto interessante, si sbaglia. Io stesso ero uno di quei ragazzi terribili, "attori" del liceo, che hanno letto la loro parte di Arthur Rimbaud o Eugène Ionesco [4] e immaginano che essere folli sia qualcosa di straordinario. Ma ho smesso di pensare in quel modo dopo essere stato ricoverato in un reparto psichiatrico all'età di diciotto anni. Una cosa è guardare "Qualcuno volò sul nido del cuculo" e un'altra è in realtà portare quel pigiama a righe.

Solo una persona che non è mai stata in coma può credere che il suicidio vi libererà, e solo un giovane che non è mai stato rinchiuso in un manicomio e che non ha mai subito trattamenti clinici contro la sua volontà può dire che la pazzia è interessante. La libertà deve prima di tutto salvare da follia e dolore. Essere liberi significa che nulla può ricattarvi.

La gente soffre perché è libera. Chiunque immagina di aver bisogno di una cosa o un'altra, al fine di essere libero. Salvador Dalì disse che per essere liberi bisogna essere appena un pizzico di un multi-milionario. Quando si viene al dunque, ognuno pensa di sapere ciò di cui avrebbe bisogno per essere libero.

Che cosa significa essere libero? Penso che tutti sarebbero d'accordo che non si può essere liberi se si dipende da qualcun altro. Se si dipende da due persone, si è due volte meno liberi. E se si dipende dalle circostanze, si è ancor meno liberi che a dover dipendere da tutti. Tuttavia, si è ancor meno liberi se la causa della nostra dipendenza è dentro di noi, come il cancro, e cresce ogni giorno.

Una volta ho incontrato una donna che ha una malattia agli occhi, e questo incontro mi ha scioccato. Gli occhi di questa donna non possono idratarsi da soli, e così deve usare continuamente speciali gocce oculari, molto costose, altrimenti sarebbe semplicemente divenuta cieca. Sono rimasto scioccato dal pensiero di quanto fosse dipendente da queste gocce. Penso che chiunque rimarrebbe inorridito dal pensiero della dipendenza. Ho visto un film, e ho sentito parlare degli spasmi attraverso i quali passa  un tossicodipendente, se non si disintossica. Ho visto alcolisti in crisi. Non è bello, e non vogliamo essere come loro. Ma dobbiamo sapere che sia l'alcolismo sia la tossicodipendenza sono il modo in cui alcune persone fuggono dalla sofferenza della solitudine. Un'altra forma che è considerata meno reprensibile perché è più diffusa è la fornicazione.

I medici trattano alcolisti e tossicodipendenti, ma nessuno considera la malattia della fornicazione, al contrario, ti offrono afrodisiaci. Sì, la fornicazione ha tutte le caratteristiche di una malattia: provoca dolore, può essere fatale, ti isola dalla società e ti distrugge la vita. Una donna promiscua infligge ferite sui suoi organi durante un aborto, e se usa contraccettivi, interrompe la sua attività ormonale, deforma il proprio corpo, e si ammala [5]. Se una studentessa scende per questa strada diventa intollerabile per i suoi genitori e i suoi genitori per lei, è incapace di studiare correttamente e diventa un fascio di ingratitudine; cioè, soffre proprio come qualsiasi persona malata. Non è più in grado di socializzare in modo normale, perché la socializzazione prende solo una forma per lei: i rapporti sessuali con il suo "partner". Ma se qualcuno ha bisogno di essere convinto che questa è una malattia, fategli guardare un oggetto di fornicazione, e si vedrà che gli spasmi di un tossicodipendente e l'umiliazione di un alcolizzato non sono nulla accanto alla crisi di un sesso-dipendente.

La gente è giunta a tal punto da diventare una sorta di estensione della lussuria. Il mondo è un sanatorio per i malati, che si utilizzano l'un l'altro come una medicina per la loro malattia. Ecco perché hanno bisogno l'uno dell'altro. Sono inseparabili, legati insieme come galeotti dalle catene delle loro passioni.

In questi giorni l'orgoglio di una ragazza costa meno dei giocattoli di un sexy shop. Ma se siete in grado di provare orgoglio, dovete anche essere in grado di provare vergogna. Se siete orgogliose del vostro fidanzato, che vi è infedele se non vi vede per una settimana, questo è molto strano. Se siete orgogliose di essere belle, ma vi umiliate al tempo stesso a tal punto, questo è ancora più strano. Che cos'altro potrebbe farvi vergognare? Che non siete potute andare in un certo locale, perché è troppo costoso? Che non sapete chi sia la star raffigurata su qualche disgraziato manifesto? Il fatto che vostra madre vi abbracci quando incontra all'improvviso il vostro gruppo, perché è una cosa fuori moda?

Chi ha bisogno di questo mito dell'emancipazione sessuale delle donne? Non può avere conseguenze positive nella società, o nel subconscio di qualcuno, là dove, che vi piaccia o no, si conservano ancora tracce della morale cristiana. Un europeo, anche uno che non è battezzato, non può sopprimere la propria gelosia, anche per il bene di un piacere più grande. Al contrario, quanto più grande è il piacere, tanto più cresce la sua gelosia. E qui c'è un fenomeno paradossale: un uomo vuole avere una donna "emancipata", la ruberà perfino agli altri uomini, ma non può sopportare che qualcun altro si avvicini alla sua donna. In un primo momento la prende perché il suo stupido orgoglio gli dice che è grande e forte per aver potuto conquistare una donna che tutti vogliono. Non prova gelosia per gli uomini che sono stati con questa donna perché ritiene di averla rubata a loro e di essere al di sopra di loro. Tuttavia, con il tempo, ora che lei è sua, quando prova repulsione per lei gli sembra che tutti quelli che sono stati con lei prima di lui siano stati in realtà felici di liberarsi di lei. Questa è l'origine di quella situazione secolare che fa marcire la maggior parte delle famiglie, e che molti chiamano semplicemente "infelicità".

Quest'infelicità deve essere superata nella nostra gioventù. Il corpo non è un giocattolo con cui si può giocare con fino a romperlo. I nostri corpi sono come la grotta di Alì Babà. Noi diciamo "apriti, sesamo" quando vi entriamo, e quando ci serviamo di tutto ciò che vi troviamo, ci dimentichiamo la parola chiave e non riusciamo a uscire. Se abbiamo visto cadaveri senza vita che non provano alcun piacere, né lo evocano, significa che c'è qualcosa d'altro, di invisibile, che li costringe a muoversi ed essere attraenti. Questo "qualcosa" è l'anima. Solo questa ci rende qualcosa di più di una bambola di gomma, se non la trascuriamo. In caso contrario, valiamo anche meno di una bambola.

Dobbiamo liberarci dai freddi artigli del mondo. Non fatevi modellare dai cartelloni pubblicitari e da quei test idioti che si vedono ovunque: "Vuoi sapere se lui/lei ti ama? Vuoi sapere se sei sicuro/a di te? Vuoi sapere se sei un/a buon/a partner?" Questi test non ci rivelano ciò che siamo, ma piuttosto ci insegnano a essere ciò che non siamo. Qualcuno, in seguito, si servirà certamente di noi. I giovani non sono saggi; prendono sul serio qualsiasi "segreto" per conoscere se stessi e gli altri, in particolare quando questi segreti sono presentati a loro in forma semi-scientifica da una psicologia o filosofia.

Non permettete a voi stessi di essere zombificati al punto da diventare disumani. Come si può sentire lusingata una donna quando è chiamata una "giumenta" o un "elefante"? Questo è l'ideale stesso che vi offre il Kama Sutra. Se un vostro compagno di classe dovesse definirvi una cavalla vi sentireste offese, ma se leggete qualcosa di bestiale che vi paragona a una cavalla o a una capra, lo considerate interessante. Naturalmente, nessuno può proibirvi di essere una cavalla o una mucca, ma non credo che questa sia una cosa particolarmente onorevole.

I giovani si affrettano a "fare esperienza del loro momento", e questo è bene. Ma ogni momento deve essere vissuto in un modo che non vi priva dell'accesso ai momenti che vengono dopo. Ogni atto incauto rimane sulle nostre facce come un tatuaggio. Quando vi viene voglia di farvi tatuare sul viso un serpente sibilante, pensate a cosa succederà quando arriva il momento in cui desiderate avere una faccia pulita, ma non sarà possibile. Quindi date una seria occhiata a ogni passo che fate per amore di libertà: vi chiuderà le porte per sempre a un altro tipo di libertà, ad altri tipi di persone, e a un'altra vita? Forse quando capirete di più, potrete  volerli, ma non sarete libere di averli.

La vita non è solo ciò che si vede in una certa fase; ci sono molte vite parallele, senza dubbio più interessanti dei monotoni club e discoteche. Dopo tutto, la gioia della folla non può essere una gioia molto sviluppata; resta nella zona del grottesco e del pesante, dove non si vorrebbe rimanere bloccati.

Vivere un momento di vita significa proiettarlo nel futuro, significa concentrare il meglio di tutto quello che hai in quel momento. E più lontano è il futuro, più ricco e intenso è il momento. Coloro che gioiscono di un momento perfettamente sperimentato sono quelli che hanno la consapevolezza dell'eternità, perché il loro momento non scoppierà come una bolla di sapone all'ora della morte.

Inoltre, la società non è mai stata così monotona e piatta come lo è oggi. E sono i giovani, che sono sempre stati il carburante per il motore delle novità e del non-conformismo, che sono diventati gli strati più conservatori e noiosi. Imprevedibilità e avventura sono scomparsi dalla loro vita, e l'individualità e il valore sono andati perduti. Tutti indossano gli stessi vestiti, ascoltano la stessa musica, hanno gli stessi argomenti, e ciò che è ancora più disgustoso, hanno lo stesso vocabolario, che si sta restringendo ogni giorno.

I giovani hanno anche lo stesso modo di camminare e gli stessi gesti: tutti tengono una chitarra in un certo modo, tracannano caffè in un certo modo, e girano la testa in un certo modo se li si chiama a New York, Bucarest, o Mosca. Le loro vite sono un'imitazione di stelle, attori o musicisti mediocri. Tutta la loro energia è impiegata a scimmiottare gesti e osservazioni che a loro piacciono. Sono come ombre che cadono dagli schermi televisivi.

Oggi è molto importante essere un essere umano, e non una bambola gonfiabile.

Don Giovanni

Oggi è il momento dei Don Giovanni e delle Ciccioline, ma di Don Giovanni e Ciccioline ben tristi. Oggi non ci vuole più tanto per sedurre qualcuno. Questo significava qualcosa nella società medievale, ai tempi in cui infuriava l'inquisizione spagnola e quando esisteva un fantasma d'idea di peccato. Nell'Impero bizantino, una prostituta valeva qualcosa se aveva almeno un monaco nella sua lista dei clienti, perché qualunque donna poteva sedurre un marinaio. Ma oggi, quando la morale non esiste più, non ci sono più barriere; non è più un grosso problema essere un Don Giovanni o una Cicciolina.

Quando le coppie cercano famiglie con cui possono scambiarsi i partner, quando una donna è considerata arretrata se non è stata infedele al marito, penso che sia il momento di mettere a riposo il mito di Don Juan. Addio, Don Giovanni e Ciccioline, semplicemente non c'è più spazio per voi nella nostra era, siete banali, vi siete persi in mezzo alla folla e non suscitate più alcuna ammirazione, né indignazione, né invidia.

Questo perché nella nostra società, i contrasti stanno poco per volta scomparendo. I concetti di bene e male sono mescolati al di là di ogni differenziazione. La metà bianca del simbolo taoista di yin e yang sembra essersi oscurata, e non resta più di un piccolo punto bianco che lampeggia debolmente contro il cielo nero del peccato.

Note

[1] L'ungherese Ilona Staller, nata nel 1951, deputata dal 1987 al 1992.

[2] Cantante rock americano (1943-1971), morto all'età di 28 anni per una overdose di droga.

[3] Solista della band americana "Nirvana" (1967-1994),  tossicodipendente per 13 anni, suicida a 27 anni.

[4] Arthur Rimbaud (1854-1891), poeta francese e uno dei fondatori del simbolismo, che prefigurava il surrealismo; Eugène Ionesco, drammaturgo romeno che ha scritto in francese, ed è uno dei fondatori del teatro dell'assurdo.

[5] L'uso di contraccettivi ormonali porta sterilità e sofferenze a molte belle giovani donne che li usano inconsapevolmente.

 
Il Santo Ieromartire Yuvenalij dell'Alaska

La Chiesa Ortodossa ha celebrato nel 1996 il secondo centenario del martirio del prete-monaco Yuvenalij, il primo a effondere il proprio sangue nel Nord America per la Fede ortodossa.

Entrato nel Monastero di Valaam (sul confine russo-finlandese) nel 1791 all'età di 30 anni, fu invitato, come novizio giovane ed energico, a unirsi al gruppo di monaci missionari guidato dall'Archimandrita Ioasaph. Ordinato sacerdote a San Pietroburgo, si distinse nell'opera missionaria tra gli abitanti delle Isole Aleutine.

Nell'estate del 1795, nel secondo anno del suo ministero, intraprese un viaggio attraverso i pericolosi terreni dell'Alaska continentale, per portare diverse tribù e lingue alla conoscenza di Gesù Cristo.

Incontrò il proprio martirio mentre predicava la rinascita e il battesimo, assieme all'abbandono dello sciamanismo, ai nativi dell'Alaska. Fu ucciso nell'estate del 1796 presso la foce del fiume Kuskokwim, per ordine di uno sciamano che si sentiva minacciato dal suo arrivo. La sua festa è celebrata il 2/15 Luglio.

I giovani che oggi si allontanano consciamente dal neo-paganesimo hanno il loro protettore nel Santo Yuvenalij, Protomartire d'America.

Santo ieromartire Yuvenalij, intercedi presso Dio per noi!

 
Interviu despre „înnoirea liturgică”

Are nevoie Biserica Ortodoxă Rusă de o înnoire liturgică? Cât de actuală este această întrebare, discutată la Marele Sinod Rus din 1917-18? Care este diferența dintre înnoirea firească a vieţii Bisericii şi „inovatorism (obnovlencestvo)”?

Înainte de a răspunde la aceste întrebări, vreau să fac cunoscută o ştire liturgică importantă. Începând cu adventul din acest an (27 noiembrie 2016), preoţii romano-catolici sunt chemaţi să revină la vechea poziţie în slujirea liturghiei, adică să nu mai stea cu faţa spre popor, aşa cum au stat de la Conciliul II Vatican încoace, ci „ad Orientem”, adică spre Răsărit, aşa cum s-au rugat clericii şi laicii dintotdeauna şi pretutindeni. Propun ca această ştire să fie considerată un fel de „motto” al acestui interviu. Iar acum trec la întrebările Dvs. 

Marele Sinod din 1917-18, deşi a fost un eveniment local şi neîncheiat din cauza condițiilor istorice, a fost totuşi un sinod mult mai serios decât recentul Sinod din Creta, care n-a hotărât şi n-a spus nimic. Propunerile discutate acum 100 de ani la Moscova, dacă ar fi reuşit să fie aprobate oficial şi aplicate în Biserica Rusă, ar fi constituit un impuls de „înnoire liturgică” autentică pentru întreaga Ortodoxie. Propunerile acelui sinod nu aveau nici o legătură cu „inovatorismul/reînnoirea” grupărilor pseudo-ortodoxe ale anilor 20, care au distorsionat ideea unei înnoiri autentice, promovând idei străine rânduielilor canonice ortodoxe. Iar dacă unii (intenţionat sau din ignoranţă) încă confundă sau identifică înnoirile propuse de Sinodul din 1917-18 cu fenomenul sovietic pseudo-ortodox din anii 20, aceasta nu trebuie să împiedice discuţiile sănătoase privind „înnoirea liturgică”, care trebuie înţeleasă ca un fenomen firesc şi necesar în viaţa Bisericii, dar care, după părerea mea, poate avea loc doar în anumite condiţii. Înainte de a vorbi despre aceste condiţii, aş vrea să ţinem cont încă de o o realitate care nu poate fi neglijată şi nici schimbată prea uşor…

Deşi Bisericile Ortodoxe Locale sunt autocefale şi nu se pot aduna împreună nici măcar pentru o „fotografie de familie”, nu cred că putem vorbi despre vreo „înnoire liturgică” care să implice doar Biserica Ortodoxă Rusă. Teoretic, fiecare episcop îşi poate alcătui propria Liturghie şi propriul tipic pentru eparhia sa, dar realităţile concrete în care trăieşte Biserica sunt altele şi numai naivii visează la schimbări peste noapte. Iată, de exemplu, din cei peste 350 de episcopi câţi îi are Biserica Ortodoxă Rusă, nu cunosc pe nici unul care să fi rânduit în eparhia sa slujirea obligatorie a Utreniei dimineața sau a Liturghiei Darurilor Înaintesfinţite seara, nemai­vorbind de scoaterea troparului Ceasului al III-lea din epicleză sau alte corectări. În aceste condiţii, toate discuţiile despre cântarea comună în biserică, „sărutarea păcii” între credincioşi, slujirea cu sfintele uşi deschise şi alte idei de genul acesta rămân fără perspective. Există multe comunităţi izolate, printre care şi comunitatea în care slujesc eu, unde aceste „înnoiri” sunt primite fără nici o rezervă, dar atunci când vine episcopul, citeţii nu mai pot citi Apostolul cu faţa spre popor, iar rugăciunile Liturghiei devin iarăşi secrete. Unii laici se pot întreba dacă nu cumva preotul, care slujeşte diferit de episcopul său, nu ştie să slujească „corect” sau poate face parte din vreo sectă. În realitate însă, este vorba de faptul că preoţii (deşi au drepturi limitate) sunt mai curajoşi decât episcopii lor (care au drepturi aproape nelimitate), iar paradoxul acestei situații este greu de înţeles, dacă ne gândim că orice episcop a fost cândva şi simplu preot…

Iar acum mă voi expune asupra condiţiilor în care, după părerea mea, poate avea loc „înnoirea liturgică”.

1. În primul rând trebuie să definim cauzele şi obiectivele oricărei schimbări. Fără a avea cauze şi obiective concrete, justificate din punct de vedere pastoral şi misionar, „înnoirea liturgică” va fi percepută ca o simplă preferință sau simpatie de ordin istorico-liturgic. Unuia îi place mai mult perioada apostolică, deşi informaţii foarte concrete despre cultul de atunci nu avem, iar reconstituirile nu pot fi decât subiective; altuia îi place perioada preiconoclastă, deşi cu siguranţă nu va fi de acord cu absolut tot ce se făcea atunci; iar altuia îi place perioada post-iconoclastă, care a fost cea mai fastuoasă şi în timpul căreia a fost creştinată Rusia. Dar e de ajuns să spui că în acea perioadă nu se scoteau miride la proscomidie şi nu se citeau acatiste la sfinţi, şi cei care iubeau atât de mult acea perioadă se vor regăsi deja în alta. Mai sunt unii care iubesc perioada de după apariția tiparului, când peste tot s-a generalizat formulare uniformizate de slujbă, chiar dacă acestea nu au fost tipărite după cele mai bune manuscrise şi au inhibat evoluţia firească a cultului ortodox. Deci trebuie să ne hotărâm: unde vrem să ne întoarcem şi care ar fi motivele ca să ne întoarcem anume acolo. Care sunt plusurile şi minusurile? Ce nu ne ajunge acum şi ce am putea pierde dacă ne întoarcem în altă parte? Care sunt principiile de selecţie? Ceea ce dorim să readucem în slujbele noastre a fost în vechime un element principal sau unul secundar? A lucrat Duhul Sfânt în acest proces de evoluţie a slujbelor (cu toate adăugirile şi scăderile care s-au făcut de-a lungul timpului) sau acestea sunt doar rezultatul unor incidențe istorice şi preferinţe omenești? Mi-aş dori foarte mult o discuţie pe marginea acestor întrebări, care trebuie abordare cu multă acrivie ştiinţifică.

2. O altă condiţie importantă legată de „înnoirea liturgică” se referă la impactul misionar şi duhovnicesc al slujbelor asupra omului. Din acest punct de vedere observăm că o anumită apropiere a clerului de laici provoacă o exaltare psihologică şi chiar o anumită dorinţă de cunoaştere, dar rareori acestea duc la un progres duhovnicesc real, care să-l apropie pe om de Hristos şi de Împărăția Cerurilor. Şi invers, vedem mai ales în mănăstirile athonite, unde slujbele au straturi foarte groase de praf bizantin, dar monahii simt o înălţare duhovnicească reală datorită duhului isihast imprimat în muzica şi pictura bizantină, în arhitectura bisericii sau chiar în cantitatea de lumină ce pătrunde în biserică. Într-o biserică magnifică cu muzică corală şi pictură realistă, care nu pot transmite duhul lui Ioan Damaschin sau al lui Teodor Studitul, preotul trebuie să caute noi căi de interiorizare a sufletului omenesc, mai ales că slujbele se fac de obicei ziua, la o lumină puternică care pătrunde prin geamurile foarte mari, şi unde este aproape imposibilă adunarea lăuntrică a omului. Aceste carențe enorme nu pot fi recuperate prin înlăturarea iconostasului sau organizarea de agape după slujbă, căci nu aceasta este problema, ci faptul că am pierdut duhul; e ca şi cum v-aş da un fruct exotic de care n-aţi mai auzit, dar neştiind cum să-l mâncaţi, îl aruncaţi la gunoi sau fără să-l fi gustat, spuneţi că merele noastre din grădină sunt mai bune… Prin toate acestea nu vreau să laud fastul bizantin în detrimentul celui rusesc, ci doar vreau să spun că înnoirea liturgică trebuie să vizeze în primul rând elementele care te ajută sau te împiedică la trăirea lui Dumnezeu în slujbe, şi nu doar ceea ce nouă ni se pare mai interesant sau curios în slujbele care se slujeau undeva şi cândva. Este bine să ne întrebăm de ce acel „frumos” şi „interesant” de cândva a dispărut atât de repede şi uşor, iar până la „Schmemann şi compania” nimeni nu şi-a propus să le readucă în cultul Bisericii? E o întrebare la care nici eu nu am răspuns, deşi îl caut de mult timp...

3. A treia condiţie, pe care o consider cea mai importantă, se referă la autoritatea duhovnicească a celor care propun sau realizează „înnoirea liturgică”. Ca să vă fie clar la ce mă refer, o să vă dau două exemple, ambele din secolul XX, care pot constitui modele ireproşabile de înnoire liturgică, chiar dacă reformele la care mă refer pot fi considerate destul de radicale pentru timpul şi locul în care au avut loc.

Primul este exemplul lui gheron Iosif Isihastul. În ciuda încercărilor lui Nicodim Aghioritul şi a altor „colivazi” intelectuali din sec. 17-18, monahii athoniţi continuau să se împărtăşească foarte rar. Pentru împărtăşirea mai deasă se impuneau posturi lungi şi aspre, care erau considerate obligatorii. A venit gheron Iosif cu obştea lui de ucenici, care au început a se împărtăşi de câteva ori pe săptămână, dar nimeni nu le reproşa nimic, pentru că aceştia posteau aproape continuu. După un timp, când monahii athoniţi s-au obişnuit cu ideea împărtăşirii mai dese şi chiar au implimentat-o în toate mănăstirile, regulile de post au slăbit şi au revenit la normal. Dar a putut să facă această înnoire doar un stareţ (care nici măcar nu era preot) care avea un duh ascetic foarte puternic şi o autoritate duhovnicească ireproşabilă. Dacă gheron Iosif ar fi venit doar cu argumente teoretice şi ar fi căutat să placă altora, toată această înnoire euharistică n-ar fi reuşit.

Un alt exemplu, poate şi mai grăitor, este cel al stareţului Sofronie de la Essex. Acesta a făcut poate cea mai radicală reformă liturgică a secolului XX. În mănăstirea sa din Anglia, unde vieţuiesc monahi şi monahii de diferite naţionalităţi, el a înlocuit slujbele Vecerniei, Utreniei şi Ceasurilor cu „rugăciunea lui Iisus”, care se rosteşte aproximativ 2 ore dimineaţa şi alte 2 ore seara. Deşi la început toată această „revoluţie” a părut stranie şi chiar scandalizatoare, în scurt timp criticile s-au temperat, iar peste un timp, şi alţii au preluat această idee în comunitățile lor. Autoritatea duhovnicească a părintelui Sofronie, care avea pecetea harului Duhului Sfânt, a făcut ca aceste reforme liturgice să fie receptate fără probleme de ceilalţi. Şi e posibil ca unii, care niciodată n-au fost la Essex sau n-au încercat să facă o astfel de Vecernie sau Utrenie atipice, să-l critice în continuare pe părintele Sofronie. Dar dacă vor experimenta, duhul stareţului îi va convinge că el a avut dreptate şi n-a făcut nimic fără ca mai întâi să aibă încredinţare de la Dumnezeu.

În concluzie, vreau să spun că eu nu sunt împotriva „înnoirii liturgice”, ba din contra, o consider firească şi necesară, având în vedere că omul contemporan nu poate înţelege prea uşor formele şi procesiunile cultului bizantin sau poezia greacă (şi încă în traducere). În acelaşi timp, pe lângă condiţiile reale în care trăieşte Biserica şi care nu pot fi uşor schimbate, trebuie să mai ţinem cont de obiectivele propruse, de contextul duhovnicesc în care se face schimbarea şi de autoritatea duhovnicească a celui care o face. Fără acestea, după părerea mea, discuţiile despre „înnoirea liturgică” vor rămâne simple speculaţii psiho-religioase. Iar dacă vom face schimbări doar pentru că ne-am plictisit de vechile forme de cult, s-ar putea ca peste 50 de ani să ajungem în situaţia romano-catolicilor care, iată, revin la formele anterioare de cult….

În ce măsură practica liturgică actuală corespunde Tradiției ortodoxe? Admiteţi creativitatea în cult? Cum poate fi ea exprimată?

Actuala practică liturgică corespunde întru totul literei tradiției (înţelese dinamic), dar în mică măsură corespunde duhului ei, pentru că respectarea tradiţiei din punct de vedere duhovnicesc nu are nevoie de tipicari, ci de oameni duhovnicești. De exemplu, tipicul spune ca la fiecare Utrenie să se citească 2 sau chiar 3 catisme din psaltire. Împărţind psaltirea pe toată săptămâna, la Utrenia de duminică avem de fiecare dată catismele a 2-a şi a 3-a (iar uneori şi a 17-a, pe care ruşii o înlocuiesc în permanenţă cu Polieleul, redus şi el la primele şi ultimile stihuri din psalmii 134 şi 135). Întrucât, în majoritatea parohiilor se simte necesitatea scurtării catismelor, mulţi citesc doar câteva stihuri din fiecare stare („Slavă…”), imitând formal structura catismelor, dar fără a le citi integral. Dar de ce să nu punem o singură catismă, pe care să o citim integral şi rânduind toate cele 20 de catisme? Oare nu-i clar că, catismele a 2-a şi a 3-a se pun la Utrenia de duminică doar acolo unde se slujeşte în fiecare zi şi se respectă tipicul monahal? De ce parohiile să respecte formal acest tipic, fără să ajungă să citească măcar de 2-3 ori pe an întreaga psaltire? Iată deci un exemplu de respectare în literă a tradiţiei, în detrimentul duhului. Iar exemple de genul acest avem sute şi mii…

Creativitatea în slujbe cred că este şi ea necesară şi firească, dar şi un pic periculoasă. Consider că şi aici sunt valabile aceleași trei condiţii pe care le-am stabilit la întrebarea precedentă despre „înnoirea liturgică”, la care aş adăuga şi a patra condiţie, cea a unei bune pregătiri atât în domeniul liturgic, cât biblic, dogmatic şi patristic, pentru că slujbele noastre exprimă teologia generală a Bisericii şi nu sunt creaţii strict liturgice. De exemplu, eu consider important să se modifice actualele rugăciuni din Molitfelnic, care se citesc imediat după naşterea copilului. Nici una dintre ele nu exprimă vreo mulţumire pentru naşterea copilului, în schimb exprimă în mod repetat frica de diavol şi diferite superstiţii, accentuându-se în mod deosebit şi ideea vechi-testamentară despre necurăție. Din punctul de vedere misionar şi pastoral, aceste rugăciuni sunt foarte proaste şi nepotrivite, şi ele nu ajută cu nimic familia să se apropie de Dumnezeu şi de Biserică. În consecință, cei mai mulţi preoţi nici nu le citesc, dar dacă am avea alte rugăciuni, ele ar putea fi folosite ca un prilej misionar foarte bun.

O anumită formă de creativitate observăm şi atunci când unii preoţi vor să citească în voce rugăciunile Vecerniei, Utreniei şi ale Liturghiei. Nu totodeauna este clar când şi cum acestea trebuie citite. Am văzut la o parohie cum preotul şi diaconul spuneau în voce chiar şi dialogurile dintre ei, care au apărut în slujbă la mult timp după ce se generalizase citirea în taină a tuturor rugăciunilor. Chiar şi Psalmul 50 din timpul cădirii de la Heruvic a fost rostit cu voce tare, deşi acesta nu are nicio legătură cu Liturghia şi strică continuitatea Liturghiei mai mult decât dacă toate rugăciunile ar fi fost citite în taină. Deci, este foarte important să deosebim, inclusiv din perspectivă istorică, care elemente din slujbă sunt importante şi care sunt secundare, ca să avem nişte principii sănătoase de creativitate. Nu-i obligatoriu ca toţi preoţii şi episcopii să slujească la fel, dar limitele acestor diferențe nu pot fi stabilite sau lărgite arbitrar.

Există în slujbele noastre o componentă misionară? Cum să facem ca slujbele să fie „atractive” pentru omul contemporan? Pot exista diferite forme de slujbă: pentru copii, exegetice, tipiconale (arheologice) etc?

Toate slujbele bisericeşti au o componentă misionară şi pastorală, numai că acestea, de cele mai multe ori, vizează mediul monahal şi nu pe cel parohial. Din acest punct de vedere, slujbele parohiale trebuie adaptate la propriile necesităţi misionare şi pastorale, dar nu prin simpla scurtare a lor, ci mai ales prin adaptarea elementelor catehetice. De exemplu, tipicul monahal prevede ca în Postul Mare, la Utrenie, să se citească din Scara lui Ioan Sinaitul, iar la sfârşitul Utreniei – din catehezele lui Teodor Studitul. Prevederi similare întâlnim şi în alte perioade ale anului, mai ales la marile sărbători, întrucât autorii tipicului îşi dădeau bine seama că poeziile liturgice fără cateheză nu te pot hrăni duhovniceşte. Unii au crezut că acele cateheze liturgice se puneau din cauza că monahii nu aveau cărţile respective la chilie sau că nu ştiau să citească. Însă rolul lecturilor era unul duhovnicesc şi pastoral, şi revenirea la aceste citiri liturgice, fie şi cu preţul scurtării canoanelor sau ceasurilor, merită să fie cel puţin discutată. Bineînţeles, în cadrul parohiilor, citirile trebuie să fie diferite de cele mănăstireşti, iar cel puţin una dintre aceste citiri trebuie să fie destinată copiilor...

Din păcate, la moment nu avem un astfel de lecţionariu, iar alcătuirea lui nu e deloc simplă, având în vedere principiile pedagogice şi duhovniceşti după care trebuie să fie organizat. Totuşi, cred că anume catehezele scurte, făcute în anumite momente ale slujbelor şi pentru diferite categorii de oameni, ar fi cea mai bună variantă de „slujbă misionară”. Restul variantelor de „slujbe misionare” le consider inoportune şi chiar periculoase, iar rezultatele experimentelor de până acum confirmă în mare măsură rezervele mele.

 
Aiuto al penitente (guida per la confessione)

Carissimi in Cristo, fratelli e sorelle, questa piccola guida che vi offriamo serve ad aiutare il penitente, e soprattutto chi sta per venire alla prima santa Confessione, a prepararsi correttamente e con cura sufficiente a questo mistero.

La Confessione è tanto necessaria quanto il santo Battesimo, perché questi misteri sono di pari forza. Come con il battesimo siamo purificati da tutti i nostri precedenti peccati, così nella penitenza riceviamo il perdono dei peccati che confessiamo. Così come prima del Battesimo, non siamo in grado di ricevere il santo corpo e sangue di Cristo, allo stesso modo se non confessiamo i peccati commessi dopo il Battesimo, non siamo degni di essere partecipi di questo grande dono. Come il battesimo ci fa entrare nel regno dei cieli, così una volta battezzati la confessione ci fa eredi della vita eterna.

Il peccato è una malattia dell'anima. Pertanto, per capire come confessarci correttamente, ricordiamo come ci comportiamo quando siamo malati nel corpo: ci preoccupiamo di vedere un medico. Come, senza nascondere il minimo dettaglio, descriviamo le circostanze della malattia e tutti i sintomi. Come cerchiamo di seguire tutti i consigli dati dal medico. Allo stesso modo, ancor di più dovremmo avere cura dell'anima, che è eterna, a differenza del corpo, che è mortale.

E il perdono dei peccati da parte di Dio è dato per mezzo di un sacerdote che compie il sacramento. Non dobbiamo dunque vergognarci di un servo di Dio, non dobbiamo nascondergli le nostre piaghe spirituali, perché Dio, presente in modo invisibile nel sacramento, non ci privi della guarigione.

Anche i grandi santi fino all'ultimo respiro hanno pregato per il perdono dei peccati, riconoscendo se stessi come grandi peccatori. E noi dunque chiediamo al Signore di aiutarci a diventare consapevoli dei nostri peccati e confessarli, perché la consapevolezza del peccato è il primo passo verso la salvezza. Per facilitare la preparazione alla confessione presentiamo qui sotto forma di una breve lista di domande i peccati più comuni nella nostra vita quotidiana.

Tu e Dio

1) Credi in Dio, glorificato nella Santa Trinità, nella divinità di Gesù Cristo e del Santo Spirito? Credi nella Chiesa e nei suoi Santi Misteri? Credi nell'esistenza del Paradiso e dell'Inferno?

2) Ti affidi sempre, e specialmente nei momenti difficili della tua vita, alla provvidenza di Dio e, o ti scoraggi mostrando mancanza di fede?

3) Forse nelle afflizioni, malattie e prove della vita mormori contro Dio e perdi fede e coraggio?

4) Forse credi nei sensitivi, nei cartomanti, negli indovini, nei maghi e nelle fattucchiere, nei chiromanti e negli astrologi?

5) Forse credi nelle superstizioni, e ritieni cattivi segni lo scricchiolio del legno, le orecchie che fischiano, l'ululare di un cane, l'incontro con un prete o il cosiddetto malocchio?

6) Forse credi nella fortuna?

7) Preghi al mattino e alla sera, e ai momenti dei pasti? Forse ti vergogni di fare il Segno della Croce davanti ad altre persone, per esempio al ristorante, o mentre passi accanto a una chiesa?

8) Studi le Sacre Scritture, e così pure gli altri libri di contenuto religioso?

9) Vai in chiesa alla Domenica e alle grandi Feste?

10) Partecipi alla Divina Liturgia dall'inizio alla fine, senza arrivare in ritardo né andartene prima della fine?

11) Vai in chiesa indossando abiti modesti? Fai attenzione a non ridere e a non fare conversazioni con gli altri durante le funzioni, anche se si sta celebrando un Matrimonio o un Battesimo?

12) Forse rendi difficile andare in chiesa al tuo coniuge e ai tuoi figli? Forse dici ai tuoi conoscenti di non frequentare la chiesa?

13) Ti comunichi regolarmente, o solo una volta all'anno, e magari senza confessione?

14) Forse prendi impegni solenni senza ragione o falsamente, e non hai mantenuto un impegno o un voto che hai fatto?

15) Forse bestemmi il nome di Cristo, della Tuttasanta o dei santi?

16) Digiuni al Mercoledì e al Venerdì e negli altri periodi quaresimali, anche se non hai seri problemi di salute?

17) Forse getti via i libri o periodici religiosi in luoghi indegni?

Tu e il tuo prossimo

1) Forse nutri odio o rancore verso qualcuno che ti ha maltrattato o insultato in un momento di rabbia?

2) Forse sei sospettoso e diffidi di tutti senza ragione, perché ti sembra che parlino male di te, che non ti vogliano, che non ti amino, che non desiderino vederti, e così via?

3) Forse ti senti geloso e turbato del progresso, della felicità, della bellezza e dei beni degli altri?

4) Forse resti indifferente di fronte alle sfortune o necessità del tuo prossimo?

5) Nei tuoi affari con i tuoi colleghi, collaboratori o clienti, sei onesto, leale, sincero e retto?

6) Forse hai accusato o calunniato qualcuno?

7) Forse parli in modo sarcastico e deridi le persone pie, quelle che digiunano e si sforzano di vivere una vita cristiana? O quanti hanno qualche debolezza fisica o spirituale?

8) Quando hai udito qualche informazione o accusa contro qualcuno, forse l'hai comunicata ad altri danneggiando, senza volerlo, la reputazione e l'onore di un tuo simile?

9) Forse pronunci giudizi sul comportamento, le azioni, gli errori o le mancanze degli altri in loro assenza, anche se quanto dici è vero?

10) Forse hai maledetto qualcuno che ti ha fatto un torto, oppure, in circostanze difficili della tua vita, hai maledetto te stesso o il giorno e l'ora in cui sei nato?

11) Forse hai mandato qualcuno al diavolo o hai fatto gesti di ingiuria?

12) Rispetti i tuoi genitori? Ti prendi cura di loro? Sopporti le debolezze della loro vecchiaia, se ne hanno? Li aiuti nelle loro necessità fisiche e spirituali? Ti assicuri che possano andare in chiesa e ricevere la Comunione? Forse li hai abbandonati senza cuore?

13) Forse hai importunato i tuoi genitori per farti assegnare la parte del leone nell'eredità, facendo in questo modo un torto ai tuoi fratelli?

14) Forse nell'ira hai picchiato qualcuno o lo hai offeso a parole?

15) Compi con scrupolo il tuo lavoro o la tua vocazione?

16) Forse rubi? forse hai incitato o aiutato qualcuno a rubare, o hai accettato di coprire un ladro, o hai coscientemente accettato beni rubati?

17) Forse sei ingrato o privo di riconoscenza verso Dio e in generale verso quanti sono gentili nei tuoi confronti?

18) Forse mantieni cattive compagnie o relazioni peccaminose? Forse hai spinto qualcuno al peccato, con le parole o con il tuo esempio?

19) Forse hai commesso qualche falsificazione? Forse ti sei preso vantaggio del pubblico? Forse hai chiesto in prestito denaro o altri oggetti e hai mancato di restituirli?

20) Forse hai mai commesso un omicidio, in qualsiasi modo?

21) Forse ti immischi nelle vite, nel lavoro o nella famiglia degli altri, e diventi l'occasione per litigi e turbamenti?

22) Dai elemosine ai poveri, agli orfani, agli anziani, e alle famiglie povere e numerose che conosci?

Te stesso

1) Forse sei attaccato alle cose materiali e ai beni terreni?

2) Forse sei avaro e amante del denaro?

3) Forse sei preso dall'avidità?

4) Forse sei uno spendaccione (dato che tutto ciò che hai in sovrappiù appartiene ai poveri)?

5) Forse sei un megalomane?

6) Forse ami mostrare in giro i tuoi vestiti, la tua ricchezza, i tuoi successi, e l'istruzione dei tuoi figli?

7) Forse desideri l'ammirazione e la gloria degli uomini?

8) Accetti le lodi con piacere, volendo essere adulato dagli altri e sentirti dire che non ci sono altri come te?

9) Ti offendi quando gli altri ti fanno vedere i tuoi sbagli, e ti risenti quando i tuoi superiori ti riprendono e ti criticano?

10) Forse sei testardo, ostinato, egoista, orgoglioso e individualista? Fai attenzione a questi peccati, perché è difficile diagnosticarli.

11) Forse giochi a carte - anche senza scopo di lucro - con i vicini e i parenti, tanto per "ammazzare il tempo", come si dice?

12) Forse i peccati carnali hanno inquinato il tuo corpo e la tua anima?

13) Guardi spettacoli osceni alla televisione e al cinema?

14) Forse leggi libri e spettacoli osceni?

15) Forse in qualche momento hai pensato di toglierti la vita?

16)  Forse sei schiavo del tuo stomaco?

17) Forse sei pigro, negligente e indolente?

18) Forse pronunci parole improprie, oscene o insolenti, sia per apparire comico, sia per insultare o umiliare un'altra persona?

19) Hai uno spirito di negazione di te stesso?

20) Espelli dalla tua mente ogni pensiero cattivo che viene a inquinare il tuo cuore?

21) Fai attenzione a che i tuoi occhi non scrutino immagini o persone che ti possano provocare?

22) Fai attenzione a ciò che ascoltano le tue orecchie?

23) Forse ti vesti in modo indecente? Se sei una donna, forse ti vesti con abiti maschili o provocatori, e causi scandalo con il tuo aspetto, soprattutto quando entri nei luoghi sacri? Se sei un uomo, forse hai un aspetto provocatorio?

24) Forse prendi parte a danze oscene o frenetiche? Canti o ascolti canzoni oscene?

25) Forse ti ubriachi?

26) Forse fumi? Il fumo distrugge la nostra preziosa salute. È uno spreco peccaminoso di denaro, e un'ossessione.

La vita di coppia

1) Mantieni la fedeltà coniugale? È una cosa terribile quando mariti e mogli hanno relazioni illecite.

2) Forse uno dei due coniugi ha offeso o rattristato l'altro in presenza di altri o in privato?

3) Forse uno non sopporta le possibili debolezze dell'altro? Forse mostrate insensibilità?

4) Forse, come marito, incoraggi tua moglie a seguire le mode e ogni pazza novità che contraddice la Legge di Dio? Forse, come moglie, trascini tuo marito alle feste e gli chiedi i fondi per seguire le mode e le vie del mondo?

5) Tenete conto delle difficoltà che uno ha fuori di casa e l'altra in casa, in modo da aiutarvi l'uno con l'altra fornendo riposo psicologico e fisico?

6) Come marito, fai forse eccessive richieste che sviliscono le tue relazioni coniugali? Pratichi la continenza alla vigilia delle Domeniche e delle Feste e nei giorni di digiuno in generale?

7) Forse non permetti a tua moglie o tuo marito di andare in chiesa, o a riunioni e incontri religiosi?

8) Cresci i tuoi figli "nell'educazione e nella disciplina del Signore" (Efesini 6:4)? Forse ti interessi solo della loro formazione intellettuale e sei indifferente alla qualità del loro carattere?

9) Li porti in chiesa, alla Santa Confessione, alla frequente Divina Comunione, al catechismo? Insegni loro la virtù con le tue parole e il tuo esempio? Insegni loro a pregare al mattino e alla sera, così come al momento dei pasti, con attenzione e devozione?

10) Fai attenzione a ciò che leggono? Ti assicuri di dare loro libri e riviste che insegnino il rispetto per la patria e per la religione?

11) Sei attento a coloro che frequentano e ai loro amici?

12) Li porti forse a spettacoli peccaminosi e permetti loro di guardare la televisione indiscriminatamente e senza controllo?

13) Insegni loro l'umiltà? Ti assicuri che vestano con modestia?

14) Forse li insulti quando ti infastidiscono? Forse li mandi al diavolo?

15) Forse hai avuto aborti o hai evitato di avere figli?

16) Forse sei stato ingiusto verso i tuoi figli nella distribuzione delle tue proprietà?

17) Forse, come marito, pensi che il dovere di crescere e istruire i tuoi figli spetta solo a tua moglie? Anche tu sei responsabile di ammonirli, leggere per loro, e passare tempo con loro, per dare riposo a tua moglie, e anche perché i figli possano sentire la tua presenza e in questo modo essere protetti dal mettersi nei guai.

18) Forse insulti i tuoi figli e li rimproveri con parole indecenti?

19) Onorate entrambi i genitori e i parenti dell'altro? Forse lasci che i tuoi genitori e parenti interferiscano nella vostra vita familiare e che diventino causa di dissenso e di incomprensione tra voi?

20) Forse interferisci nella vita domestica dei tuoi figli?

21) Forse il tuo coniuge bestemmia? Abbi pazienza e sforzati perché smetta con l'orribile abitudine delle bestemmie.

 
Pubblicata una nuova Liturgia quadrilingue

Fin dal 1996, in seno alla nostra comunità torinese (che a quel tempo non era ancora divenuta parrocchia), abbiamo sviluppato testi liturgici in formato multilingue “sinottico” (a più colonne), che si possono trovare oggi sulla pagina dei testi delle funzioni del nostro sito parrocchiale. La possibilità di affiancare i testi in diverse lingue ci ha aiutati in molti modi, sia negli aspetti pratici delle funzioni celebrate in più lingue (eliminando per il clero e i cori l’incubo di dover tenere aperti in contemporanea davanti a sé libri multipli e spesso disallineati), sia per i fini di traduzione (il colpo d’occhio in lingue multiple nel momento stesso in cui un testo è recitato o cantato è un aiuto straordinario a trovare le traduzioni italiane più adatte, sia per corrispondenza testuale sia per metrica e per adattamento al canto).

La nostra versione iniziale della Divina Liturgia era quadrilingue, e oltre all’italiano, allo slavonico ecclesiastico e al romeno comprendeva anche il greco. Ci trovammo ben presto costretti a tralasciare il greco (questo – sia detto senza alcun risentimento – perché gli ortodossi di lingua greca a Torino non mostrarono interesse per le versioni in molte lingue), e da allora abbiamo continuato ad affiancare l’italiano con i testi slavonici e romeni pubblicati dalla Chiesa ortodossa russa.

La recente pubblicazione (Pasqua 2017) a cura della Sacra Arcidiocesi Ortodossa d’Italia e di Malta di una traduzione ufficiale in italiano della Divina Liturgia di san Giovanni Crisostomo, affiancata ai testi greco, romeno e slavonico ecclesiastico, è stata per noi una sorpresa molto gradita, quasi una conferma che il formato da noi scelto oltre vent’anni prima aveva la sua validità.

Osservando il libretto (di 192 pagine in bicromia, rilegato in modo compatto e solido in formato A5) siamo rimasti colpiti dalla sua praticità, che si riflette anche in un prezzo estremamente onesto e abbordabile.

Non sappiamo se ne siano state realizzate copie in formati più ampi (un coro potrebbe avere una certa difficoltà a utilizzarlo), ma così com’è il libro è perfetto per i preti concelebranti, e lo sarebbe pure per i diaconi, se non fosse per il particolare che tutte le parti esclusivamente diaconali della Liturgia sono omesse, e sono segnate come sacerdotali tutte quelle altre parti che abitualmente, in presenza di un diacono, spettano a quest’ultimo.

La versione “dominante” è quella greca, e fin qui nulla di male: si tratta, dopo tutto, di una traduzione ufficiale, ed è importante notare da quale edizione principale si traduce. In questo, il testo si differenzia dai tentativi di versione inter-giurisdizionale come quello pubblicato poco tempo prima dall’associazione Testimonianza Ortodossa. Proprio la sua ufficialità, tuttavia, ne limita l’uso. Detto in termini piuttosto crudi, il testo si adatta solo all’uso nelle chiese dell’Arcidiocesi greca (nemmeno nell’Esarcato russo, che pur essendo sotto lo stesso patriarcato ha una Liturgia strutturata in modo diverso), ovvero, a voler essere molto generosi, al massimo in un quinto delle parrocchie ortodosse presenti in Italia. Ma resta comunque un contributo a garanzia dell’uniformità della Liturgia in una giurisdizione in cui oggi anche gli ospiti occasionali potranno familiarizzarsi con la struttura della funzione.

Non vogliamo addentrarci nell’analisi del testo, sia perché non si tratta della nostra versione ufficiale, sia perché, come abbiamo più volte ripetuto, non riteniamo di essere ancora arrivati al momento in cui si possono trarre le conclusioni di un processo di esperienza pluridecennale. Possiamo essere sicuri che ci siano termini o soluzioni di traduzione non ancora ideali, ma la cosa, allo stadio corrente dello sviluppo della Chiesa ortodossa in Italia, non ci preoccupa minimamente. In una cosa vogliamo comunque ringraziare questa traduzione. La traduzione del greco ἐλέησον con “abbi misericordia” è una cosa che noi abbiamo sostenuto da anni, e abbiamo già elencato in dettaglio le nostre ragioni, per cui non ci ripetiamo qui. Notiamo comunque che questa traduzione, sostenuta negli anni ’90 dai traduttori del Compendio Liturgico ortodosso praticamente di fronte al dileggio generale degli ambienti accademici, ora viene riconosciuta più corretta e più ortodossa da parte delle stesse autorità ortodosse in Italia (di fatto, si stanno ora muovendo verso questa soluzione anche le traduzioni pubblicate dalla Diocesi ortodossa romena d’Italia).

Potrebbe incuriosire la traduzione di ἐλέησον ἡμᾶς con un semplice “misericordia di noi” nell’inno Trisagio alle pagine 42 e 44 del testo, ma anche questo è il risultato di prove pratiche di canto dell’inno nelle diverse melodie più in uso (noi siamo giunti alla stessa conclusione dopo anni di sperimentazioni). Forse sarebbe stato più opportuno mantenere il termine “abbi” come lettura opzionale, come ha fatto il testo pubblicato da Testimonianza ortodossa, che lo mette tra parentesi quadre (pag. 80). In alternativa, una breve nota avrebbe potuto spiegare che il termine appare in una traduzione diversa non per trascuratezza, ma solo per il fine ben comprensibile di rendere l’inno cantabile. Tuttavia, prendiamo atto del fatto che questo testo ha voluto presentare una Liturgia senza letture opzionali e senza note di traduzione.

Ci è giunta notizia di una critica alla menzione specifica del nome dell’Arcivescovo Gennadios nel testo (pag. 14 e successivi), con il pretesto che questa cosa “non si fa mai” nei testi liturgici. Non sappiamo su che pianeta viva chi si permette di fare una critica tanto ignorante: potremmo presentare decine di versioni di testi liturgici ortodossi – tutti testi piuttosto ufficiali – in cui è menzionato per nome il patriarca (nelle tradizioni liturgiche che prevedono tale menzione), e spesso anche lo stesso vescovo diocesano. Del resto il libro ha visto la luce proprio grazie all’interessamento attivo dell’Arcivescovo Gennadios, che ne ha benedetto la realizzazione, e che per questo merita i nostri complimenti.

 
Monaco James (Silver): Meditazioni sulla Settimana Santa

Il monaco James (Silver), membro della Commissione per le Canonizzazioni della Chiesa Ortodossa in America, è stato tonsurato nel 1978 nel Monastero della Madre di Dio di Tikhvin nel Kansas; dato che quella comunità non esiste più, si è spostato sulla costa orientale degli Stati Uniti con la benedizione delle autorità ecclesiastiche per seguire un dottorato di teologia. Oggi vive nello stato del New Jersey, dove per decenni ha vissuto una vita monastica legata a una carriera accademica, nello stile da lui stesso definito di un “monaco urbano”. Pur non essendo chiamato a un ministero di predicazione, ha scritto testi interessanti che sono una vera miniera di spunti per i predicatori. Presentiamo oggi nella sezione “Omiletica” dei documenti la nostra traduzione italiana delle sue Meditazioni sulla Settimana Santa, circolate per la prima volta nel 1996, e che gli sono state richieste nel testo originale inglese da oltre un migliaio di corrispondenti in rete.

Anche se l’argomento delle meditazioni può essere ancora lontano nel corso dell’anno, confidiamo comunque che queste riflessioni possano essere un’ottima introduzione per far capire le funzioni e le preghiere della Settimana Santa sia ai parrocchiani che ai frequentatori occasionali delle chiese.

 
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Contro la monocultura

L'interdipendenza è presumibilmente un motivo di celebrazione nella nostra epoca, e non ci può essere alcun dubbio che i popoli della Terra sono più interconnessi di quanto non lo siano mai stati prima. Oggi, la cultura del cosiddetto mondo sviluppato è governata da idee di egualitarismo e di cosmopolitismo materialista. Si ritiene più onorevole definirsi "cittadini del mondo" piuttosto che strenui difensori di qualsiasi tribù o gruppo, perché per definizione, tracciare una linea di preferenza per coloro che sono all'interno del proprio gruppo implicherebbe che qualcun altro al di fuori sia escluso. Un trend secolare di assimilazione nell'interesse del progresso economico sta raggiungendo il suo apice, destinata a diventare una delle principali preoccupazioni sociologiche nel prossimo futuro.

Come vediamo nelle giungle del Brasile e nelle strade dell'Europa, le popolazioni indigene stanno rapidamente e allo stesso modo diventando straniere nelle loro terre, mentre i loro ambienti cambiano radicalmente sotto i loro occhi. Spesso sentiamo dire che l'Occidente deve assorbire più immigrati per sostenere l'invecchiamento della popolazione a casa, o che le tribù indigene dovrebbero trasferirsi dalle loro terre ancestrali per alimentare la dipendenza dalle risorse naturali di un altro paese. Ora, ci sono seri dubbi circa gli effetti a lungo termine di un'economia globale sfrenata e di una continua rapida crescita della ricchezza materiale, guidate dal principio globalista della libera circolazione del capitale umano. Di conseguenza, il mondo sta rapidamente diventando uno e lo stesso, mentre le culture ed etnie individuali sono o estirpate o forzatamente assimilate nella massa. Eppure vediamo che questa rinnovata attenzione per la tradizione sta spianando la strada per eventi come il recente aumento della popolarità dei partiti identitari in Europa o la dedizione dichiarata ai valori e ai costumi da parte dei leader mondiali tradizionali, come si sente in Russia nella retorica di Vladimir Putin o in India in quella di Nahrendra Mohdi.

La questione più eclatante presentata da questi eventi riguarda l'importanza intrinseca della tradizione. Che importanza ha la tradizione e perché dovrebbe avere un ruolo negli affari globali o anche nella vita della gente comune? In un mondo puramente materialista come il nostro (sia in senso economico e filosofico), gli obiettivi e le esigenze di una società sembrano realizzare l'esatto opposto delle intenzioni dichiarate. L'abbondanza di risorse per vivere più facilmente crea le condizioni per il peggioramento nel luogo in cui sono prodotte tali risorse; mentre diventa più facile viaggiare il mondo e vedere altre terre, tali terre stanno diventando sempre più identiche al resto del mondo; l'immigrazione di massa per creare più posti di lavoro, dare "diversità" a uno spazio ed espandere l'economia ottiene il contrario dopo diverse generazioni, quando gli immigrati si sono assimilati e l'impatto economico positivo della loro immigrazione è stato assorbito o addirittura invertito; la spinta costante perché gli individui si presentino come totalmente diversi dalla folla crea una massa demografica pronta a farsi vendere qualcosa al fine di convalidare l'individualità moderna. Confrontando la quantità di lingue ed etnie in tutto il mondo nel XVIII secolo con quella di oggi dimostra che questo processo di globalizzazione economica non solo si è dimostrato dannoso per l'Occidente, ma anche per tutte le altre civiltà, e questa tendenza continuerà, con una stima del novanta per cento delle lingue parlate oggi che secondo le proiezioni saranno estinte entro la fine del secolo. Nella realtà pratica, l'unica fine possibile e logica di questo processo è il consolidamento dell'umanità in un unico gruppo omogeneo, senza caratteristiche di differenziazione tra le regioni o anche tra i singoli individui.

Ti fa marcire i denti, ti fa marcire l'anima

La tradizione, come definizione generale da entrambi i rami politico e religioso della scuola tradizionalista di pensiero, è una credenza che va oltre la mera individualità o forma umana. L'attuale modalità economica razionalista di pensare ha tentato di farla finita con questa pratica, considerandola non più rilevante nella società (e pure un impedimento a fare affari). In un certo senso, la tradizione generale di una popolazione è significativa come modo separato di pensiero, come esistenza separata. Ed è una verità assiomatica che l'intera realizzazione intellettuale e culturale del mondo non deriva da un unico modo di pensare. Come tale, qualsiasi cosa che minaccia la molteplicità intrinseca intellettuale del mondo dovrebbe essere considerata come una minaccia, o più precisamente, una malattia.

Tuttavia, non esiste una sola fonte da cui sorgerebbe l'imposizione di uno standard globale. L'elemento principale di oggi, è la monocultura egualitaria proveniente dall'Occidente che aggredisce tutte le altre culture, ma questa minaccia emana anche da un fanatismo religioso con le proprie ambizioni monoculturali, ovvero il fondamentalismo islamico. Eppure la spinta costante per eliminare stili di vita tribali e nomadi dalla Terra è ampiamente ignorata dal mondo. Le società liberali spesso ci presentano immagini di tutti i popoli del mondo nel loro abito culturale, che stanno in piedi insieme sul globo tenendosi per mano. Ma, come abbiamo detto, questo idealismo di desiderio ha prodotto l'esatto contrario. Un sottoprodotto purtroppo inosservato di questa direzione storica è l'impatto negativo derivante dalla pretesa che i popoli del mondo aderiscano a un unico standard globale di civiltà. In termini semplici, ciò equivale alla progressiva diminuzione delle molteplicità culturale del mondo nel corso degli ultimi cinque secoli o giù di lì. Alcuni modi di vita ritenuti inadatti all'attività economica sono assimilati a un tutto più grande o rimossi completamente. Questa crisi ha finalmente raggiunto il suo apogeo nel nostro secolo, quando non solo piccole tribù ed etnie sono a rischio, ma intere culture. L'antropologo Scott Atran descrive questa tendenza come "omogeneizzazione dell'esperienza umana". Nel corso della storia, vediamo la nascita di culture e la loro morte, e rimane una verità indiscutibile che ogni cultura ha una propria data di scadenza. Tuttavia, la crisi che vediamo oggi è la morte di etnie diverse su scala di massa senza nulla di tangibile che le sostituisca. Mentre la globalizzazione economica e la vita standardizzata continuano a espandersi, questo lascia poco spazio per gli stili di vita tradizionali, che sono venuti prima queste forze. E come si vede dagli sforzi purtroppo inutili delle tribù indigene brasiliane che lottano per preservare il loro stile di vita contro entità estere, c'è poco che possa arrestare questa tendenza.

In effetti, una delle considerazioni più importanti del nostro tempo deve essere la salvaguardia delle culture regionali e, naturalmente, della biodiversità umana. Dopo aver visitato le comunità dei Vecchi Credenti russi in Alaska e i villaggi agricoli di mattoni d'argilla in Messico, sono testimone di prima mano degli effetti della modernità su queste comunità. Le vecchie generazioni sono rimaste, mentre i membri più giovani partono in numero sempre maggiore verso le aree metropolitane, assetati di tutti i comfort della vita cittadina. Storie simili possono essere raccontate per le tribù dei Sami nella Scandinavia settentrionale, dei nomadi delle steppe della Mongolia, e di innumerevoli altri. Appare un vuoto, e uomini già indipendenti stanno rapidamente imparando a dimenticare come provvedere a se stessi. Nelle città, la certezza che i nostri bisogni di base sono forniti da qualcun altro, che vi sono istituzioni preposte a combattere le nostre battaglie per noi, che la necessità di autosufficienza è obsoleta, ha fatto sì che l'individuo moderno può occuparsi dei compiti più banali ed egoisti senza riguardo per la prole o i vicini. La generazione di oggi, in particolare, è spesso definita la più debole finora vissuta, che rivendica titoli e rinuncia alle qualificazione che dovrebbero venire con loro. E' diventato del tutto accettabile nei paesi civili sedersi all'interno della propria casa senza uscire e indulgere in un piacere autodistruttivo o in un altro. I giapponesi hanno definito questo 'hikikomori', e molti lamentano la titubanza nello stabilire relazioni sociali significative, come causa principale per la caduta del tasso di natalità del paese. C'è da meravigliarsene, con una simile atomizzazione che diventa luogo comune in tutto il mondo, che le tradizioni stiano morendo?

Le società tradizionali esistevano sulla base di individui interconnessi con ruoli importanti (letteralmente, una tribù), la loro pietra angolare. Proprio come il rapporto tra due individui crea momenti intimi e valori condivisi, le società tradizionali fanno la stessa cosa con le tradizioni, anche se a un livello molto più profondo. La presentazione contemporanea della storia economica del mondo mostra una graduale espansione della ricchezza generale e una crescente utilizzazione delle risorse partendo dall'Europa (o meglio, dall'Occidente), in espansione verso il resto del mondo. Questi secoli definitivi hanno fatto sì che il processo di globalizzazione economica sia quasi inevitabile oggi e una sufficiente ideologia opposta deve ancora pienamente formarsi. L'influenza di questo processo storico significa che le considerazioni politiche si fanno ora strettamente nel contesto di benefici economici per interessi specifici (ovvero il pensiero dell'utilità). Nonostante quello che alcuni potrebbero stupidamente supporre, questo processo deve ancora concludersi e, di fatto, continua a diffondersi. Partecipare al gioco economico globale richiede un certo grado di conformità, come quando i paesi sono costretti a rinunciare alla loro valuta specifica in cambio della possibilità di partecipare a una zona economica o a questioni superficiali come il cambio fatto dai giapponesi post-imperiali di scartare il loro abito tradizionale in cambio di giacca e cravatta fatte in Occidente, nell'interesse di fare affari con altre persone che indossano anche loro giacca e cravatta. Considerate anche quante industrie in piccole città sono state distrutte dall'espansione forzata del 'libero commercio', imposto sulla popolazione generale da pochi eletti per il beneficio dei pochi.

Il reverendo Jim Jones, compagno di letto dialettico dell'oligarchia corporativa e guerriero dell'arcobaleno della monocoltura

Ci sono conseguenze, tuttavia. Le ambizioni dei politici di trasformare le persone che dovrebbero servire per farle diventare più "internazionali" o "di mentalità globale", alienandole dalle proprie terre di origine, significa che una reazione è quasi certa. Lo vediamo già nei titoli dei media che denunciano l'ascesa del nazionalismo in Europa o mettono in guardia contro il pericolo intrinseco di preservare la propria identità. I media deridono questi movimenti nascenti di orientamento popolare come "fascismo" o con qualche altro luogo comune; ma in realtà, il cambiamento in arrivo è molto più pericoloso di un semplice corporativismo, richiede un cambiamento a livello mondiale in come dovrebbe essere considerata tutta l'economia internazionale. In altri paesi, la situazione è perfino un po' peggiore, in quanto non si fa quasi menzione dell'erosione accelerata delle società tradizionali al di fuori dell'Occidente, e della loro situazione banalizzata come in Europa. Ma ora bisogna porsi la domanda più importante - proprio tutto il mondo ha bisogno di essere globalizzato? È indispensabile che vi sia una caffetteria e un centro commerciale in ogni angolo di ogni paese? Hanno tutti bisogno di sprecare la loro vita stando seduti e guardando uno schermo o un altro per tutta la loro vita? È più importante conoscere una persona famosa dall'altra parte del mondo che non il proprio vicino? La promessa di ONG e fondazioni apparentemente ben intenzionate di "sviluppare" il resto del pianeta al di fuori del primo mondo porta con sé un senso pernicioso di moralità egoista, non troppo diverso dai tentativi di occidentalizzare le popolazioni indigene dell'America con abiti europei e lezioni di lingua inglese. Qual è il senso dell'esistenza, quando tutti gli altri stanno vivendo esattamente nel tuo stesso modo? Accettare il globalismo significa diventare sostituibile, e quegli europei che stanno perdendo i loro mestieri ancestrali a vantaggio di beni o abitazioni a basso costo per gli immigrati che lavorano per pochi soldi lo capiscono molto bene. Il passaggio a un'economia completamente globale, che è accaduto solo negli ultimi decenni, deve molto a questa situazione. Come scrive il professor William I. Robinson in materia di economie centroamericane:

La globalizzazione ha sempre più eroso questi confini nazionali e ha reso strutturalmente impossibile per le singole nazioni di sostenere economie, sistemi politici e strutture sociali indipendenti, o anche autonome. Una caratteristica fondamentale dell'epoca attuale è il superamento dello stato-nazione come principio organizzatore del capitalismo.

Quindi, come si concilia l'inevitabile interconnessione delle persone con la conservazione di specifiche culture regionali? Questo non avverrà attraverso un'elezione favorevole, o neanche attraverso una rivolta violenta; richiede piuttosto una ristrutturazione mentale di ciò che significa vivere nel mondo moderno. Il che significa che l'identità regionale dovrebbe essere affermata, e non solo in modo superficiale, ma in un diretto beneficio per il proprio popolo, sia che si tratti di famiglia, tribù, città, nazione, e così via, con gli individui che fanno ritorno a un modo di vita più vero e onorevole. La nostra economia globale interconnessa ha dimostrato che se una sfaccettatura cade, il resto del corpo cade con essa.

Alcune persone di mente anti-consumista capiscono ora gli effetti negativi di questa economia globale su come le persone vivono ed esistono su questa terra, e sono consapevoli del danno ambientale che essa compie, così come delle condizioni economiche spesso sfavorevoli che fornisce a una nazione a beneficio di un'altra. Ma così come stanno le cose, difficilmente si farà un collegamento di questa tendenza con il declino delle culture diverse, cercando di conservarle nel corso dei prossimi secoli. Comprensibilmente, così, molte persone, in particolare in Nord America, hanno vissuto generazioni senza alcun collegamento di sorta al loro patrimonio originale. Come tale, la gente del mondo moderno non ha più senso di appartenenza, ma un fedeltà di marca alla sfilata di insulse "politiche dell'identità" che domina il discorso pubblico di oggi, sebbene anche allora vediamo quanto velocemente fastidiose diventino tali "identità". L'inversione dell'ordine liberale globale non significherà la pace in se stessa; non implicherà che le controversie tra i popoli siano pacificate, o che le culture improvvisamente crescano e divengano regni di superuomini, ma significa che le differenze saranno salvate e che una sorta di ampiezza di punto di vista rimarrà tra gli esseri umani. Allo stesso modo, nulla garantisce che la cultura di una nazione o etnia sarà la stessa tra un centinaio di anni. Eppure questo è essenzialmente il punto – che ci sia spazio perché i singoli popoli possano svilupparsi e progredire. Se la diversità è di tanto valore come alcuni sostengono di credere, allora l'idea artefatta di una "fratellanza umana" deve essere screditata.

 
I neomartiri della terra serba

Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. (Gv 15, 12-13)

Tropario - Tono VIII

Per la vostra fede in Dio e nella sua giustizia * avete sofferto la passione nella carne; * eppure avete salvato le vostre anime, * come i vostri avi cantano nel cielo che esulta, * accogliendovi alle porte del Paradiso con canti: * "entrate nel Paradiso, figli dell'immortalità! * Perciò noi sulla terra, vostra posterità, esclamiamo all'unisono: * santi neomartiri, intercedete per noi.

Non esiste maggiore testimonianza del totale amore di Dio in Cristo per il potere del Santo Spirito, che l'amore puro e incondizionato che un cristiano ha per il suo prossimo e per tutta la creazione di Dio. L'amore di Dio attraverso un fratello si esprime più pienamente nel servizio umile e sincero agli altri, e specialmente nell'arte di sacrificarsi per il prossimo. Deporre la propria vita per l'aiuto e la promozione di un'altra persona è la vetta di ciò che significa seguire Gesù Cristo, essere un figlio della luce e un amico degli uomini. La testimonianza cristiana di deporre la propria vita - martirio, dalla parola greca "martyria" che letteralmente significa "testimonianza" - è ciò che il nostro Salvatore ha compiuto per la vita del mondo (Gv 6, 51), poiché Gesù Cristo non era un mero mortale, e la sua morte sulla Croce è stata più grande di qualsiasi altra morte sacrificale nella storia del mondo. Gesù era il Dio-uomo, veramente Dio in forma umana, e perciò il suo sacrificio sulla Croce esibì e dimostrò l'amore sovrabbondante di Dio stesso per la propria creazione. “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna.” (Gv 3, 16) Nello stesso modo, come ogni cristiano ortodosso crede, sono gli emulatori di questo sacrificio di Gesù - i gloriosi martiri - che sono stati sempre considerati i protettori della Fede, poiché in tutti i secoli hanno custodito la nostra Fede integra e pura da ogni contaminazione del diavolo. E ogni Chiesa ortodossa locale che ha nella sua storia resoconti di martirio può giustamente essere considerata benedetta da Dio e anche giustificata ai suoi occhi.

Riguardo a questa prova e testimonianza della Fede sacrificale di Cristo il Signore, la Chiesa Ortodossa Serba rimane agli occhi del Signore e dell'intero mondo cristiano la più preziosa e bella! Fin da quando il cristianesimo fu introdotto nei Balcani tra i serbi, la persecuzione e la resistenza al potere di Cristo hanno sempre alzato le loro orride teste. È sufficiente uno sguardo alle vite dei Santi serbi per rendersene conto. I nemici dei pii ortodossi serbi li hanno perseguitati senza sosta in tutti i secoli. Hanno attaccato i loro patriarchi, vescovi, preti, monaci e pii fedeli, massacrandoli, impiccandoli e impalandoli, e allo stesso tempo saccheggiando e devastando molte chiese, scuole e monasteri ortodossi serbi. Alla fine del sedicesimo secolo, i turchi impiccarono il patriarca dei serbi Jovan (Kantul), poiché questi sosteneva un movimento di liberazione nazionale; il Vescovo Teodoro di Vrshac fu scorticato vivo nel 1595 per la stessa ragione. Durante i giorni oscuri di Sinan Pasha, i turchi bruciarono le sante reliquie di San Sava I sulla collina di Vrachar, un orrendo crimine religioso e politico commesso contro l'intero popolo ortodosso serbo. Nella seconda metà del diciassettesimo secolo il Patriarca Gabriele fu strangolato a morte dai turchi per avere stabilito legami con la Chiesa ortodossa di Russia. All'inizio del diciottesimo secolo la Chiesa Ortodossa Serba della Dalmazia, che a quel tempo era sotto il dominio della Repubblica di Venezia, soffrì amare persecuzioni per la propria fede ortodossa, che sosteneva il loro desiderio di diritti nazionali. Due figure di spicco - l'Abate Isaia del monastero di Dragovic e Padre Peter Jagodic-Kuridza del villaggio di Biovice (Dalmazia) - furono imprigionati e torturati per oltre quarant'anni. Nessuno dei due, tuttavia, volle abbandonare la Fede ortodossa né la fedeltà nazionale al Regno ortodosso di Serbia.

Tribolazioni simili ebbero luogo durante l'eroico sforzo di liberazione nazionale dei serbi all'inizio del diciannovesimo secolo. Centinaia di nobili membri del clero ortodosso furono impalati nei campi di Kalemegdan a Belgrado, o furono uccisi direttamente nei campi di prigionia. Attraverso tutte queste prove il costante grido che univa e confortava i serbi era il grido di raccolta del Kosovo, "Per la Croce preziosa e la libertà dorata," un richiamo cristiano basato sulla lotta trionfante di Gesù Cristo sulla Croce. Per i serbi, in questo periodo, morire per Cristo e per la Fede ortodossa era un onore, un santo privilegio che ai loro occhi sarebbe stato ricompensato con la vita eterna e beata. Come credono tutti i pii cristiani ortodossi, infatti, la Croce fu il primo passo della vittoria finale del Signore sul diavolo e sul suo potere; e la Risurrezione del Signore, il culmine della sua vittoria, concede la vera libertà a tutti quanti perseverano. Per questo i cristiani serbi furono felici di "deporre le proprie vite" per Cristo a favore delle proprie famiglie, degli amici e della nazione.

Durante il primo quarto del ventesimo secolo, soprattutto durante gli anni 1913, 1914 e 1915, ripresero i terribili assalti del maligno contro la Chiesa serba. Questi anni sono stati annoverati come i primi anni del martirio della Chiesa serba nei tempi moderni. Assediata dai tedeschi, dagli ungheresi, dai bulgari e dagli albanesi, la Chiesa serba ha sofferto amaramente in questo periodo. Per esempio, il Metropolita Vincenzo di Skopje (Macedonia) fu bruciato vivo nella gola di Surdulica assieme a 157 preti serbi. In seguito, negli anni trenta, i serbi soffrirono tremendamente sotto l'infame concordato, che cercava di limitare i loro diritti religiosi e civili. (2)

Ma di tutte le persecuzioni della nazione ortodossa serba, nessuna fu più straziante e terribile di quelle che iniziarono nel 1941. I serbi e la Chiesa serba furono forzati a subire alcune delle peggiori atrocità che il mondo abbia mai conosciuto. Si è detto che questi cristiani furono torturati ancor peggio degli ebrei da parte degli egiziani, come è narrato nel Libro dell'Esodo; peggio delle barbare annichilazioni dell'antica Cartagine e dello sterminio dei cristiani in Nubia e nel Nord Africa, e anche peggio delle vittime dell'Olocausto nella Germania nazista durante la seconda guerra mondiale. In totale, oltre 800.000 serbi furono macellati e uccisi dal regime di Ante Pavelic nello "Stato libero di Croazia" nel corso della seconda guerra mondiale. Inoltre, molte migliaia di serbi furono forzati a convertirsi al cattolicesimo romano sotto minaccia di morte (a molti fu semplicemente chiesto di farsi il segno della Croce, e se lo facevano nel modo ortodosso, da destra a sinistra, venivano torturati all'istante). Inoltre, vi furono oltre 300.000 civili uccisi da tedeschi, bulgari, ungheresi e albanesi: molti di loro furono mandati in campi di concentramento a morire di fame. Alla fine, il bilancio dei martiri serbi fu di oltre un milione e mezzo, o più di un terzo dell'intero popolo serbo, nell'arco di trent'anni (1914-1944, dalla prima alla seconda guerra mondiale).

Dobbiamo fornire gli orribili dettagli di queste atrocità? I ventri di donne gravide furono squarciati; furono arrostiti uomini su graticole da animali (vi furono casi in cui alcuni furono forzati a mangiare le membra arrostite dei propri familiari). Furono compiuti maligni esperimenti medici. Vi furono persone impalate, segate in due, occhi cavati dalle orbite. I cuori di vittime innocenti furono strappati e mangiati dai loro avversari. Morti lente e agonizzanti potevano durare per settimane intere. Ogni tipo di tortura che il diavolo poteva instillare nei confronti di altri esseri umani si manifestò in pieno in quegli anni di tribolazione.

Durante queste persecuzioni i capi della Chiesa Ortodossa Serba furono i primi a soffrire e a offrire la vita per il loro popolo. Il Vescovo Platone di Banja Luka (Bosnia) fu ucciso in un modo incredibilmente bestiale: fu portato dagli Ustascia (3) assieme a un prete arrestato in precedenza, Padre Dusan Jovanovic, al villaggio di Vrbanja, dove le loro barbe furono rase con un coltello smussato, i loro occhi cavati, i loro nasi e orecchie tagliati, e un fuoco fu acceso sul loro petto. I loro corpi, assieme a quelli di diversi altri martiri del clero, furono gettati nel fiume Vrbanja.

L'Arcivescovo Pietro (Zimonic) di Sarajevo (Bosnia) fu avvisato dagli Ustascia del pericolo in cui si trovava, ma replicò: "Sono il pastore del popolo, ed è mio dovere stare con la mia gente nella buona e nella cattiva sorte". Fu arrestato e imprigionato dagli Ustascia il 12 maggio 1941, ma prima fu in grado di trasmettere un messaggio ai suoi preti: "Restate nelle vostre parrocchie, e tutto quanto accade al popolo, sia pure il vostro destino". Fu torturato e umiliato in ogni modo concepibile, e quindi gettato in un pozzo a morire assieme a 55 preti ortodossi.

L'Arcivescovo Dositeo di Zagabria (Croazia) fu arrestato il 2 maggio 1941, imprigionato, picchiato e brutalmente tormentato in una prigione della polizia degli Ustascia, con religiosi cattolici romani che prendevano parte a tale oltraggio. Il risultato di queste torture fu visto da Arnold Robert, il console belga, che disse: "Per Dio, questa gente ha commesso azioni da selvaggi!" Anche il capo della polizia degli Ustascia commentò: "Il Metropolita fu torturato così atrocemente che fu a malapena possibile metterlo sul treno per Belgrado". Egli morì a Belgrado il 14 gennaio 1945.

Il Vescovo Sava (Trlaic) di Plaski (Lika) fu imprigionato il 13 giugno 1941 e torturato al di là della sopportazione in una stalla assieme a diversi preti. Durante le sevizie veniva suonata una registrazione di "Quanti in Cristo siete stati battezzati, di Cristo vi siete rivestiti". Al vescovo confessore, con mani e piedi in catene, fu permesso di prendere congedo dalla madre di 83 anni. Alla metà di agosto dello stesso anno egli fu condotto al monte Velebit e gettato in un burrone assieme a numerosi altri serbi.

Anche il Vescovo Irenei di Dalmazia fu imprigionato e in seguito trasferito in Italia in un campo di concentramento presso Trieste. San Nicola (Velimirovic) ebbe a soffrire nel peggior campo di concentramento della Gestapo, Dachau.

Il caso del Patriarca Gabriele (in carica dal 1937 al 1950) va menzionato. Egli era disprezzato dai nemici della Chiesa serba non solo per il suo rango di guida, ma per le sue proteste contro questo trattamento disumano del suo popolo e gregge. Dopo che Belgrado fu bombardata nell'aprile 1941, il Patriarca Gabriele fuggì al Monastero di Ostrog in Montenegro, dove fu raggiunto dal Re Pietro Karageorgevic di Yugoslavia. Quanto il governo reale decise di lasciare la Yugoslavia assieme al re, al Patriarca Gabriele fu chiesto di fuggire, ma egli si rifiutò di andarsene, preferendo condividere le sofferenze del suo gregge spirituale. Il 9 maggio 1941 i nazisti arrestarono Gabriele e i preti assieme a lui a Ostrog, accusando il Patriarca di furto di proprietà governative appena rivendicate. (Essere arrestato non era cosa nuova per il pio Gabriele, che era stato arrestato nel 1915 al Monastero di Pec dagli austro-ungarici.

Da Ostrog il sessantatreenne patriarca, per decreto dei nazisti, fu obbligato a viaggiare a piedi fino a Belgrado, circa a un mese di viaggio da Ostrog. Con orrore di tutti, gli furono tolti senza rispetto gli abiti monastici, e fu costretto a fare l'intero viaggio in biancheria intima. Questo piano umiliante dei nazisti fallì, poiché dovunque passava il patriarca, i cristiani serbi piangevano e si inginocchiavano pregando Iddio onnipotente di alleviargli le sofferenze. La testimonianza di fede cristiana del Patriarca Gabriele fu un'enorme fonte di forza e di conforto per i pii cristiani serbi di quel tempo. Come mite agnello di Dio, emulava il nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo, che fu deriso e umiliato, e si avvalse solo di coraggio divino, verità e mitezza per perseverare e trionfare alla fine. Il Patriarca Gabriele fu quindi imprigionato nel campo di concentramento di Dachau in Germania (assieme a San Nicola), e rientrò poi sul trono patriarcale dopo la guerra. Fu uno dei più grandi confessori della Fede ortodossa che il popolo serbo abbia mai avuto.

Molti membri del clero e monaci furono trucidati proprio al di fuori delle mura delle loro chiese e monasteri, nelle più grandi città quali Krushevac, Kragujevac, Mostar e Novi Sad.

Qui non vi sono che pochi tra i ben noti esempi di tormenti ai quali è stata sottoposta la Serbia:

Glina - Oltre 120.000 persone furono massacrate dagli Ustascia, in gruppi fino a seicento per ogni sera, uccisi nelle chiese ortodosse locali. I pochi che sopravvissero fuggirono nell'area di Petrova Gora.

Vrgin Most - Il 3 agosto 1941 3.000 serbi furono massacrati per essersi rifiutati di convertirsi al Cattolicesimo romano.

Vojnic - Il 29 luglio 1941 il capo della polizia degli Ustascia a Zagabria, Bozidar Gervoski, arrivò con un certo numero di poliziotti. Dopo avere rastrellato circa 3.000 cristiani serbi da Krjak, Krstinje, Siroka Reka, Slunj, Rakovica e da altri villaggi, e dopo averli irrisi e torturati, li portarono al mulino del villaggio di Pavkovic, dove li macellarono come bestiame.

Kordun, Slunj, Ogulin, Vrbovsko - La lunga lista di sacrifici cruenti ebbe inizio con il prete martire P. Branko Dobrosavljevic di Veljun. A Padre Branko fu ordinato di leggere il canone di preghiera della dipartita dell'anima sul corpo del figlio, ancora vivo. Il figlio fu quindi ucciso in sua presenza, ed egli stesso torturato e ucciso. Seguirono per diverse settimane esecuzioni di massa di serbi innocenti, inclusi donne e bambini.

Churug, Novi Sad - Alla festa ortodossa della Natività di Cristo del 1942 circa 1.200 serbi, con i loro parroci, furono crudelmente assassinati a Churug. Alla fine dello stesso mese altri 1.300 serbi, clero incluso, subirono la stessa fine a Novi Sad.

Sadilovac - Il 31 Luglio 1942 la Chiesa della Natività della Deipara fu bruciata fino alle fondamenta, assieme a 463 persone, di età che andava da bambini appena nati ad anziani uomini e donne.

Monastero di Zhitomislic - il 26 giugno 1941 gli Ustascia croati torturarono e assassinarono tutta la fraternità del monastero, gettando i loro corpi in un pozzo. Un frate cattolico romano rimosse con un trattore tutti gli oggetti di valore della chiesa, che fu in seguito demolita, e gli altri edifici del monastero bruciati.

Jasenovac - Questo fu uno dei più orribili siti di persecuzione contro i serbi ortodossi. Gli Ustascia, inclusi quelli croati e i musulmani dall'Erzegovina, vi assassinavano brutalmente i serbi con fucili, pistole, asce e martelli. Per risparmiare le munizioni, molti serbi venivano portati alla fabbrica di mattoni a Jasenovac e spinti nelle fornaci ardenti. Posti in fila, l'ultima persona veniva spinta con forza sufficiente a gettare nei forni i propri compagni di martirio. Altri venivano macellati lungo il fiume Sava e gettati nell'acqua. Il sanguinario capo degli Ustascia Ljubo Milosh si vantò di avere ucciso oltre tremila serbi, ogni volta facendo scherzi e gridando: "Quant'è dolce il sangue serbo!" Un serbo ortodosso, Joca Divjak, fu dato a Milosh come regalo di Natale. Il cuore del martire Joca fu strappato dal suo torace mentre agli altri serbi fu imposto di guardare e ridere. Chiunque distoglieva la testa da questa scena abominevole veniva ucciso sul colpo. In tutto, oltre cinquantamila pii cristiani ortodossi furono martirizzati in questo campo dall'agosto del 1941 al febbraio del 1942, un periodo di sette mesi.

Ci sono molte altre liste di atti selvaggi che potrebbero essere raccontati: il resoconto è davvero sconvolgente! Questi fatti rivelano che la Chiesa Ortodossa Serba è davvero una Chiesa martire (4). La sua storia recente dimostra un coraggio e una dedizione alla Croce e alla Risurrezione del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo, che concede alla Chiesa serba un posto retto e onorevole non solo nella storia cristiana ma, cosa più importante, agli occhi dello stesso onnipotente Iddio. In così tanti - letteralmente un milione e mezzo di vittime innocenti - hanno mantenuto il principio di "deporre le proprie vite" per la causa di Cristo e della sua Santa Chiesa. Il loro sacrificio gli uni per gli altri è un'eterna testimonianza e un ricordo, che dovrebbe e deve ispirare tutti i cristiani ortodossi fino alla seconda venuta del nostro Signore Gesù Cristo.

Contacio - Tono VIII

Sia lodato Iddio nei prati e nei campi, * sulle verdi vette dei monti e nelle valli sottostanti, * nei fiumi impetuosi e nelle caverne oscure, * poiché ogni luogo è stato asperso del sangue santo e innocente di molti martiri serbi: * degni ministri, soldati coraggiosi, ragazzi e bambini e caste vergini; * Dio sia lodato e tutti mantengano il silenzio, * poiché il Signore di tutti regna sul mondo.

Il contacio e il tropario riportato in cima sono stati composti da San Nicola (Velimirovic)

NOTE

(1) Dal secondo volume del Patericon Serbo, di Padre Daniel Rogic, in corso di pubblicazione.

(2) Il concordato era un tentativo del governo eccessivamente conciliatorio di firmare un accordo con il Vaticano che avrebbe dato alla Chiesa romana una posizione privilegiata in Yugoslavia. Fu alla fine vanificato nel 1937, in gran parte grazie all'eroica testimonianza del Patriarca Barnaba, che morì nel momento culminante della controversia, e nell'opinione di molti fu avvelenato.

(3) Forze armate croate, formate dai nazisti di Hitler per punire i serbi per avergli resistito. Per la maggior parte di fede cattolica romana, ma anche musulmani, commisero atrocità tanto orribili contro i serbi ortodossi che perfino i nazisti ne rimasero disgustati.

(4) Nel 1998 il Sinodo dei Vescovi della Chiesa Ortodossa Serba ha glorificato diversi dei nuovi martiri qui menzionati.

 
Potirul euharistic

POTIRUL (din greacă: ποτήριον – pahar, καλύξ – cupă) este un pahar din metal aurit sau argintat, de forma unei cupe, în care se pregăteşte vinul amestecat cu apă pentru Sfânta Euharistie. De aceea, cuvântul „potir” se referă uneori la conţinutul Potirului (I Corinteni 10:16, 21), şi nu la vasul propriu-zis. Prototipul Potirului este paharul folosit de Mântuitorul la Cina cea de Taină. Simbolic, Potirul poate fi asociat cu coasta împunsă a Mântuitorului, din care a curs sânge şi apă.

În exterior, Potirul este împodobit cu icoana Mântuitorului, a Maicii Domnului, a Sfântului Ioan Botezătorul, cu chipul Sfintei Cruci şi a celor patru evanghelişti. Ca şi Discul, Potirul la început era foarte simplu, iar cu timpul s-a modificat până la aspectul din prezent. O bună perioadă de timp s-au folosit potirele de lemn 1, iar astăzi există o tendinţă de a folosi Potirele cu pahare de sticlă, care sunt destul de comode, dar care prezintă şi un anumit pericol.

Tot despre Potir trebuie să mai menţionăm următoarele:

Împărtăşirea dintr-un singur Potir a creştinilor unei comunităţi euharistice a fost văzută dintotdeauna ca un simbol al unităţii şi comuniunii în Hristos a tuturor membrilor acelei comunităţi. În primele veacuri creştine, când numărul credincioşilor era destul de mic, nu se concepea ca într-o singură comunitate să fie mai multe Biserici/biserici; iar aceasta, tocmai din dorinţa de a sublinia această unitate a tuturor în jurul aceluiaşi Potir euharistic, avându-se în vedere şi vasul, nu doar conţinutul acestuia. Dar după creşterea substanţială a numărului de credincioşi, mai ales în marile cetăţi ale Bizanţului, nu mai era posibil ca în ele să fie o singură biserică, şi atunci simbolismul împărtăşirii dintr-un singur Potir s-a redus la ideea împărtăşirii din acelaşi conţinut al Potirului, adică Acelaşi Hristos mărturisit şi primit de către toţi, nu şi la Potirul ca vas liturgic.

Şi mai târziu, în marile catedrale bizantine, dar mai ales la Sfânta Sofia, pentru a împărtăşi mai organizat mulţimea de credincioşi, în aceeaşi biserică se foloseau mai multe Potire, practica fiind întâlnită şi astăzi în unele Biserici de limbă greacă şi mai ales în Biserica Ortodoxă Rusă, fiind în acelaşi timp aproape necunoscută în Biserica Ortodoxă Română. 2

Se ştie că prin secolele al VII-lea–al XI-lea, la Sfânta Sofia, unde de cele mai multe ori erau foarte mulţi credincioşi la împărtăşire, se pregăteau mai multe Agneţe (pe mai multe Discuri) şi respectiv mai multe Potire din care, la momentul potrivit, mai mulţi clerici ieşeau şi împărtăşeau în mai multe locuri din biserică, inclusiv în imensele balcoane ale Sfintei Sofii. 3 De atunci încoace însă, în toate Bisericile, mai ales datorită dezvoltării ritualului Proscomidiei, chiar şi atunci când este nevoie de a împărtăşi sute şi chiar mii de credincioşi, se pregăteşte un singur Agneţ, uneori foarte mare, şi se binecuvântează un singur Potir, de asemenea foarte mare, iar înainte de împărtăşirea credincioşilor, Sfântul Trup şi Sânge sunt împărţite şi în alte Potire mai mici, din care pot împărtăşi mai mulţi preoţi simultan. 4

Desigur, o astfel de practică se impune doar în anumite comunităţi şi doar în posturi sau la sărbătorile mai mari. Am dorit însă ca aceste elemente să fie cunoscute, arătând totodată că, chiar şi în această situaţie, ideea împărtăşirii dintr-un singur Potir nu dispare, ci trece de la formă la esenţă.

 

Note

1 Mai multe sinoade apusene şi unii papi, ca de exemplu Leon al IV-lea (secolul al X-lea), au interzis uzul potirelor de lemn. Aceasta arată că ele încă se foloseau, dar mai rar. Este importantă atât din punct de vedere istoric, cât mai ales duhovnicesc o sentinţă, atribuită de unii Sfântului Bonifaciu, episcop de Mogunt († 755), iar de alţii chiar Sfântului Athanasie cel Mare († 372), care spune că „Odinioară preoţi de aur slujeau cu potire de lemn, acum, dimpotrivă, preoţi de lemn slujesc în potire de aur” (cf. Liturgica Generală, p. 591).

2 Aceasta probabil şi pentru faptul că, după observaţiile noastre, dintre toţi ortodocşii, românii sunt cei care se împărtăşesc cel mai rar. În această situaţie (deloc lăudabilă) de la noi, bineînţeles, rareori se pune problema dea a folosi mai multe Potire pentru a-i împărtăşi pe credincioşi. În Basarabia însă, ca şi în Rusia şi în alte părţi, această practică există. Cunoaştem de asemenea că anumite tendinţe de a o introduce există şi în România şi acestea nu trebuie calificate ca abateri de la vreo normă sau ca pe nişte inovaţii periculoase.

3 Cf. М. ЖЕЛТОВ, Евхаристия // ПЭ, vol. 17, p. 634; IDEM, Антиминс // ПЭ, vol. 2, p. 489.

4 Detalii practice privind împărtăşirea din mai multe Potire vezi în articolul ÎPS Ilarion Alfeev.

 
Intervista sulle missioni al Metropolita Ioann di Belgorod

Dal sito dell’Accademia teologica di San Pietroburgo, riportiamo una conversazione tenuta il 10 dicembre scorso, durante la visita all’Accademia del Metropolita Ioann di Belgorod e Staryj Oskol. Vladyka Ioann è a capo del dipartimento delle missioni del Patriarcato di Mosca (come tale, è anche al corrente dello stato delle nostre chiese a Torino e in Italia!), e guida a Belgorod un seminario di orientamento missionario, che prepara sacerdoti che dovranno servire in tutto il mondo. Presentiamo il testo russo dell’intervista e la nostra traduzione italiana nella sezione “Pastorale” dei documenti.

 
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Due martiri ortodossi del nazismo

IL VESCOVO GORAZD DI PRAGA

 

 

Matěj Pavlík nacque il 26 maggio 1879 nel villaggio moravo di Hrubá Vrbka (oggi nella Repubblica Ceca). Cresciuto nella società cattolico-romana dell’Impero Austro-Ungarico, studiò alla facoltà teologica di Olomouc e fu ordinato prete. Alla formazione della Cecoslovacchia dopo la prima guerra mondiale, molti lasciarono la Chiesa cattolica romana, alcuni di loro diretti verso l’Ortodossia. Padre Pavlík  era uno di questi ultimi, ai quali offrì rifugio la Chiesa ortodossa serba. Come leader del movimento ceco ortodosso, padre Matěj fu tonsurato monaco con il significativo nome di Gorazd (il primo santo vescovo moravo successore di san Metodio nell’885), nominato vescovo di Moravia e Silesia il 24 settembre 1921, e consacrato all’episcopato il giorno successivo alla Cattedrale di san Michele Arcangelo a Belgrado, per mano del patriarca Dimitrije.

Negli anni successivi, il vescovo Gorazd e i suoi fedeli organizzarono parrocchie e costruirono chiese (undici chiese e due cappelle in Boemia), tradussero e pubblicarono tutti i libri essenziali degli offici nella lingua ceca, che era usata nelle funzioni. In Slovacchia e nella Russia sub-carpatica (che al tempo erano entrambe parte della Cecoslovacchia) furono di assistenza a molti che erano ritornati alla loro fede ortodossa ancestrale. Ci furono molte pressioni da parte cattolico-romana per far tornare il vescovo Gorazd all’obbedienza romana, tra le quali anche un’offerta di una diocesi uniata. Ma nonostante fatiche e defezioni, il vescovo Gorazd era convinto di poter continuare l’opera missionaria iniziata oltre mille anni prima dai santi Metodio e Gorazd in Moravia. In questo non gli mancò l’appoggio del metropolita Antonij (Chrapovickij), primo ierarca del sinodo dei russi in esilio. Quando era giovane vescovo della Volinia, Vladyka Antonij era intervenuto più volte per salvaguardare i diritti della locale minoranza ceca, insistendo che potesse avere i propri preti e difendere la propria identità linguistica e culturale.

Nel corso di 21 anni di episcopato il vescovo Goradz si sforzò di mettere in pratica questi principi, insistendo su un approccio di approfondimento graduale dell’Ortodossia, invece della pura e semplice adozione formale del sistema di pratiche religiose di un altro paese. Il successo della sua chiesa dipese molto dal rispetto per la mentalità locale e dall’allontanamento graduale dagli elementi di maggiore contrasto con la pratica ortodossa.

Alla conquista della Cecoslovacchia da parte dei nazisti nel 1938, la Chiesa ortodossa del paese fu posta sotto il metropolita di Berlino, Serafim (Liade), che assicurò una protezione senza interferenze, fino al giorno in cui la Chiesa cecoslovacca avrebbe potuto riprendere la sua autonomia canonica sotto il Patriarcato di Serbia.

Come governatore del Protettorato di Boemia e Moravia fu assegnato Reinhard Heydrich, chiamato “il macellaio di Praga”, ideatore dello sterminio totale degli ebrei, e ritenuto probabile successore di Hitler. Il 27 maggio 1942 un gruppo di militari cechi della resistenza assalì e uccise Heydrich nella sua macchina, a poca distanza dalla cattedrale dei santi Cirillo e Metodio a Praga. Fuggendo, il gruppo si rifugiò nella cripta della cattedrale. Quando il vescovo Gorazd venne a sapere dei fuggitivi alcuni giorni dopo, comprese la seria posizione che questo gesto poneva sulla sua chiesa, e dovendo partire per la consacrazione del vescovo russo-scozzese Filipp (Gardner) a Berlino, chiese ai soldati della resistenza di spostarsi appena possibile. Il 18 giugno 1942, in seguito a una delazione, i nazisti scoprirono il rifugio del gruppo della resistenza, che fu sterminato.

Arrivarono presto le rappresaglie, con l’arresto dei due preti e dei consiglieri della cattedrale. Il vescovo Gorazd, volendo aiutare i suoi confratelli e la Chiesa, prese su di sé la responsabilità per tutte le azioni nella cattedrale. Scrisse tre lettere ai tedeschi con le parole: ‘Mi consegno alle autorità e sono preparato ad affrontare ogni punizione, inclusa la morte’. Il 27 giugno 1942 fu arrestato and torturato. Il 4 settembre 1942 il vescovo Gorazd, i preti della cattedrale e i consiglieri anziani furono fucilati.

Le rappresaglie continuarono con ampi rastrellamenti di cechi, che inclusero lo sterminio della popolazione del villaggio di Lidice. Furono chiusi tutti i luoghi di culto della Chiesa ortodossa, che fu messa fuorilegge in Boemia e Moravia. I preti ortodossi del paese furono internati in campi di lavoro forzato. Il metropolita Serafim coraggiosamente si rifiutò di emettere dichiarazioni di condanna del vescovo Gorazd.

Il vescovo Gorazd fu riconosciuto come neomartire per decisione della Chiesa ortodossa serba il 4/17 maggio 1961. Il 24 agosto / 6 settembre 1987 fu canonizzato nella cattedrale di san Gorazd a Olomouc in Moravia, e il suo giorno di festa cade nell’anniversario del suo martirio, il 22 agosto / 4 settembre.

 

 ALEXANDER SCHMORELL

 

 

Alexander Schmorell (Orenburg, Russia, 3/16 settembre 1917 – Monaco di Baviera, 13 luglio 1943) fu uno dei fondatori del gruppo di resistenza noto come Rosa Bianca (Weiße Rose), creato da cinque studenti universitari di Monaco e attivo contro il regime nazista dal giugno 1942 al febbraio 1943.

Alexander era figlio di Hugo Schmorell (un medico tedesco) e di Natalia Vvedenskaja (figlia di un prete ortodosso russo). Fu battezzato nella Chiesa ortodossa russa. Sua madre morì di tifo nella guerra civile russa quando Alexander aveva solo due anni. Nel 1920 suo padre si risposò con Elisabeth Hoffman, una donna tedesca che, come lui, era cresciuta in Russia. In fuga dai bolscevichi, la famiglia Schmorell emigrò in Germania nel 1921, quando Alexander aveva quattro anni. La sua balia russa, Feodosija Lapshchina, accompagnò la famiglia con il pretesto di essere la vedova del fratello del dottor Schmorell (per questa ragione fu poi sepolta con il nome di Franziska Schmorell). La famiglia si stabilì a Monaco di Baviera, dove nacquero Erich e Natascha, i fratelli minori di Alexander.

Anche se la famiglia viveva ora in Germania, la lingua di casa rimase il russo. Di fatto, anche in molti anni in Germania, Feodosiya Lapschina, che aveva preso il posto della madre nella crescita di Alexander, non imparò mai bene il tedesco. Elisabeth Schmorell era cattolica, e furono battezzati cattolici i fratelli di Alexander, che tuttavia rimase ortodosso, in gran parte per l’influenza di Feodosiya Lapschina. Anzi, la sua matrigna fece in modo che potesse frequentare classi di religione ortodossa a Monaco.

Alexander crebbe bilingue, e si considerava allo stesso tempo tedesco e russo. Nella mentalità nazista gli slavi appartenevano alla grande orda degli untermenschen, subumani, un concetto che Alexander non poté mai accettare: quando il suo gruppo giovanile divenne parte della gioventù hitleriana (Hitler Jugend), smise di frequentarlo.

Dopo la scuola superiore fu chiamato nell’organizzazione del lavoro civile del Reich e quindi nell’esercito, al tempo dell’occupazione dell’Austria e delle invasioni della Cecoslovacchia e della Francia. Al momento del giuramento del servizio militare, disse al suo comandante di non poter giurare fedeltà assoluta ad Adolf Hitler. Chiese l’esonero, che non gli fu dato, ma sorprendentemente non ebbe ripercussioni per il suo rifiuto di fare il giuramento. Durante il servizio militare sviluppò una marcata avversione al nazismo.

Non trovando altro modo per reagire alla politica del regime si isolò nei suoi studi sulla cultura russa (era un attento estimatore di Dostoevskij), nella poesia e nella scultura. Soltanto dietro pressione del padre accettò di intraprendere studi di medicina. Iniziò gli studi ad Amburgo nei 1939, e nell’autunno del 1940 rientrò con i suoi colleghi studenti a Monaco, alla Ludwig-Maximilian-Universität. È in questo periodo che fu presentato da Jürgen Wittenstein a Hans Scholl. Con Hans e sua sorella Sophie intrecciò una grande amicizia fatta di discorsi culturali sulla teologia, la filosofia e la letteratura, e con loro fondò la Rosa Bianca (riferimento a un’immagine dalla leggenda del grande inquisitore ne I fratelli Karamazov).

Nel 1942, il controllo nazista della Germania era pressoché totale. I piani di pulizia etnica erano stati avviati, e i campi di sterminio erano stati messi in funzione. Ogni sospetto nemico di Hitler era un candidato naturale all’arresto e all’invio in quei campi. La pratica diffusa della Sippenhaft (responsabilità familiare) esponeva all’arresto ogni parente o amico di un sospetto oppositore di Hitler.

Gli eventi della Rosa Bianca furono uno dei pochi contesti nella storia del Terzo Reich nei quali vi fu la possibilità di parlare contro Hitler. Nell’estate del 1942, Hans Scholl e Alexander Schmorell ottennero una macchina copiatrice e composero quattro fogli nei quali, sotto il nome della Rosa Bianca, invitavano il popolo tedesco a ribellarsi e a resistere a Hitler. La distribuzione di questi fogli, limitata ai dintorni di Monaco, non fu l’unica: per esempio, vi era già stata la distribuzione delle omelie del vescovo cattolico Clemens von Galen, che denunciava il programma di eutanasia di Hitler. I fogli della Rosa Bianca furono comunque i primi ad appellarsi a tutti i tedeschi perché resistessero in ogni modo possibile. Nel secondo volantino, in un passo scritto da Alexander Schmorell, è contenuto l’unico appello pubblico di un gruppo di resistenza tedesco contro l’olocausto.

Nel giugno 1942, Schmorell prese parte come medico militare alla campagna di Russia, assieme a Hans Scholl, Willi Graf e Jürgen Wittenstein, assistendo al brutale  e oltraggioso trattamento nazista di soldati e civili catturati, che includeva stupri di massa. In ossequio alle teorie della subumanità degli slavi, i prigionieri potevano essere trattati con la stessa mentalità genocida che altri popoli dell’Europa occidentale avevano utilizzato con i nativi delle Americhe e dell’Africa.

Con tutta la repulsione per le barbarie a cui dovette assistere, per Alexander questo periodo era pari a una sorta di ritorno a casa: era la prima volta nella vita che poteva avere un’esperienza e un ricordo personale della Russia. Disse agli altri che non avrebbe mai potuto sparare a un russo, pur dicendo che non avrebbe potuto sparare neanche a un tedesco. In Russia, fornì un legame tra i suoi amici e il popolo russo. Cercò contatti con gente ordinaria, dottori e preti ortodossi; assieme a Hans e Willi partecipò (in uniforme nazista!) a liturgie ortodosse.

Di ritorno dalla Russia, Alexander proseguì i suoi studi a Monaco nel semestre 1942-1943. Gli sforzi della Rosa Bianca raddoppiarono (a rischio della vita), coinvolgendo diverse persone, tra cui amici e professori, e si cercò un contatto con il gruppo di resistenza legato al pastore Bonhoeffer.

Il 18 febbraio 1943, Hans e Sophie Scholl furono catturati e arrestati mentre distribuivano il sesto dei fogli della Rosa Bianca all’Università di Monaco.

Dopo l’arresto di Hans e Sophie Scholl, processati e condannati alla pena capitale assieme all’amico Christoph Probst, ebbe inizio la caccia a Schmorell, che cercò senza successo di rifugiarsi in Svizzera con un passaporto falso. La Gestapo diffuse un avviso con le sue generalità e il suo aspetto, e benché fosse riuscito per qualche tempo a nascondersi, fu riconosciuto il 24 febbraio 1943 (il giorno del funerale dei suoi amici) durante un bombardamento da alcune persone che erano con lui in un rifugio antiaereo. Denunciato, fu immediatamente arrestato, e condannato a morte il 19 aprile 1943 nel secondo dei processi della Rosa Bianca. Nelle lettere che scrisse dalla prigione cercò di consolare la sua famiglia e assicurarla che era in pace con se stesso e non temeva la morte. Seguendo il fato dei suoi amici, fu ghigliottinato il 13 luglio 1943 assieme al professor Kurt Huber nella prigione di Stadelheim a Monaco. Aveva 25 anni.

Anche se la Rosa Bianca non era un gruppo dichiaratamente religioso è innegabile che la fede in Dio di questi studenti fu uno dei fattori primari del loro coraggio. Alexander Schmorell era l’unico ortodosso del gruppo: anche se la sua fede è stata svalutata in diverse biografie, e razionalizzata come un semplice legame con il suo retaggio russo o come mero fascino del rito, è innegabile la sua frequentazione regolare delle funzione ortodosse, oltre al fatto che portava sempre con sé una Bibbia e che dimostrò un costante amore per l’Ortodossia. Nelle lettere alla famiglia scrive di come la sua fede si sta approfondendo, di come sente di avere compiuto la missione della sua vita, e nell’ultima lettera esorta la famiglia a non dimenticarsi mai di Dio.

Alexander Schmorell fu sepolto dietro la prigione di Stadelheim nel cimitero a Perlacher Forst. Dopo la guerra le forze americane costruirono una base dietro a Perlacher Forst. Alla loro partenza a metà degli anni Novanta, misero in vendita gli edifici della base, tra i quali una chiesa. La Chiesa russa all’estero di Monaco cercava in quegli stessi anni un locale di culto, e fu in grado di comprare la chiesa degli americani, proprio dalla parte opposta della strada del cimitero dove erano sepolti i resti di Schmorell. La nuova parrocchia fu dedicata ai nuovi martiri della Rus’, nel cui numero è stato canonizzato nel 2012 lo stesso Alexander Schmorell.

Sabato 3 e domenica 4 febbraio 2012, ha avuto luogo la canonizzazione del neomartire presso la parrocchia dei nuovi martiri della Rus’; la canonizzazione ha compreso il servizio dell’ultima panichida (officio funebre) sulla sua tomba nel vicino cimitero (le funzioni alla tomba di un santo dopo la sua canonizzazione non hanno più carattere di commemorazione, ma di richiesta di intercessione).

Alla canonizzazione hanno partecipato sei vescovi della Chiesa ortodossa russa: l’arcivescovo Mark (che è a capo della Chiesa ortodossa russa all’estero in Germania), il metropolita Valentin di Orenburg (la città russa dove era nato Schmorell), il metropolita Onufrij of Chernovtsy in Ucraina, l’arcivescovo Feofan di Berlino, il vescovo Michele di Ginevra, e il vescovo Agapit di Stoccarda.

La storia di Alexander Schmorell, profugo del genocidio del comunismo sovietico e martire del razzismo del neopaganesimo nazista, ricorda come nel ventesimo secolo tutta l’Europa abbia sofferto per gli estremismi delle ideologie post-cristiane. Solo quando l’Europa tornerà alle sue radici cristiane in una nuova Europa spirituale, si realizzerà la visione di genuina “libertà e onore” della Rosa Bianca.

 

 
I Salmi Tipici e le Beatitudini: un'opportunità liturgica

icona di re Davide il Salmista

Questo articolo affronta i Salmi Tipici e le Beatitudini della Divina Liturgia e descrive le differenze di utilizzo tra le giurisdizioni ortodosse nordamericane contemporanee. In particolare, l'autore considera le opportunità con le quali i cori delle arcidiocesi greca e antiochena potrebbero ampliare il loro uso di questi testi liturgici.

Spesso si osserva che il Salterio è la fonte principale dei testi liturgici e cantati nel culto ortodosso. Il defunto traduttore Donald Sheehan ha scritto che i salmi sono "centrali nella vita liturgica e sono spesso cantati"; il defunto padre Lazarus Moore lo chiamò "il libro di devozione della Chiesa". La prefazione di uno dei più comuni salteri liturgici in lingua inglese osserva che "...non c'è nessuna funzione della Chiesa che non sia piena di salmi: Ore, Compieta, Vespro, Mattutino, persino la stessa Divina Liturgia; tutte cominciano e finiscono con salmi... In breve, i salmi costituiscono la cornice di tutte le nostre funzioni della Chiesa". Altri scrittori sono stati più poetici riguardo a questo sentimento: "i salmi corrono come un filo d'oro attraverso l'abito adorno del culto ortodosso".

Tuttavia, l'integrazione dei salmi nel culto ortodosso ha una storia complessa. Nonostante la loro centralità, il defunto padre Ephrem Lash una volta ha fatto un'osservazione un po' sfacciata: "Gli ortodossi: una volta che vedono apparire un salmo, lo tagliano via... Non fanno salmi. Aspettano i "pezzi importanti" scelti da qalche monaco. Il fatto che i salmi siano la parola di Dio non ha alcuna importanza: è una perdita di tempo". Alexander Lingas fa un'osservazione simile in modo più diretto:" [le abbreviazioni delle funzioni] rafforzano la secolare tendenza bizantina di omettere la salmodia biblica, piuttosto che l'innodia ad essa associata". Naturalmente, la battuta di padre Ephrem deve essere accolta nello stesso spirito in cui è stata offerta, ma è indiscutibile il fatto che i salmi siano stati impiegati in modo variato in base al tempo, al luogo e al contesto. I monaci in Palestina preferivano leggere i salmi interi, per esempio, mentre Hagia Sophia a Costantinopoli preferiva impiegare versi con ritornelli. Gli studiosi come Alexander Lingas, p. Job Getcha, e p. Robert Taft S. J. hanno dato spiegazioni su come la nostra attuale pratica liturgica sintetizza pratiche monastiche e urbane da centri quali Costantinopoli e Palestina.

Salterio bizantino, tardo XII secolo

Nel contesto nordamericano contemporaneo, la molteplicità delle giurisdizioni e delle culture ortodosse non consente una singola generalizzazione della pratica. Prendete il salmo invitatorio del Vespro, ovvero il Salmo 103. In un dato sabato sera, un fedele in una chiesa di tradizione slava potrebbe incontrarne estratti cantati coralmente; una parrocchia antiochena potrebbe avere il salmo intero letto semplicemente e rapidamente; un psaltis greco potrebbe cantarlo lentamente partendo da "Se tu apri la mano, l'universo sarà riempito di bontà...", con i cosiddetti "tropi trinitari" e il ritornello "Gloria a te, o Dio: Alleluia" che chiude ogni versetto.

Mentre non è possibile alcuna generalizzazione, sembra giusto dire che alcune giurisdizioni tendono a preferire quella che vedono come pienezza di pratica, minimizzando o rifiutando le abbreviazioni (anche se forse permettono la possibilità di accelerare tutto). Per altre giurisdizioni, forse si può osservare una tendenza generale di assumere una certa brevità culturale anglofona, preferendo funzioni più brevi e incoraggiando una serie di modifiche preferite.

(Per chiarire, qui sto parlando delle parti destinate a essere cantate o recitate ad alta voce: la questione del fatto che le preghiere "silenziose" del prete dovrebbero essere silenziose e che cosa significhi questo in termini di esecuzione, è al di là dello scopo del saggio presente).

Per la celebrazione della Divina Liturgia in una domenica, l'inizio della funzione è un punto chiave dove si può osservare una variazione. A seguito della litania di pace, un coro in una comunità con radici slave potrebbe ben cantare una versione di quelli che si chiamano i Salmi Tipici. Questi consistono nei Salmi 102 e 145, e poi si cantano le Beatitudini al Piccolo Ingresso. A seconda delle particolarità della parrocchia, le Beatitudini potrebbero essere intervallate dalla lettura di tropari. Allo stesso tempo, una parrocchia sotto la giurisdizione greca o antiochena probabilmente canterà ciò che si chiama le Antifone – brevi ritornelli: "Per le intercessioni della Theotokos, Salvatore, salvaci" e "Salva, o Figlio di Dio, risorto dai morti, noi che ti cantiamo: Alleluia", forse intervallati da appositi versetti di salmi, e poi l'apolitichio (tropario risurrezionale), anziché le Beatitudini, possibilmente ripetuto con versetti di salmi.

Salterio russo, stampato nel 1568

La variazione esiste anche all'interno delle giurisdizioni e delle tradizioni nazionali. I libri dell'Arcidiocesi Antiochena sono reciprocamente contraddittori; una recente guida liturgica annuale per l'Arcidiocesi Antiochena una volta includeva i Salmi Tipici in un elenco di pratiche proibite all'interno di tale giurisdizione, riferendosi ad essi come pratica esclusivamente russa. D'altra parte, il Liturgikon antiocheno (3a edizione, 2010) nota i "Salmi Tipici" come opzione, e il venerabile "pezzo forte" degli antiocheni, Divine Prayers and Services del rev. padre Seraphim Nassar, comprende i salmi e le Beatitudini, insieme alla rubrica che ognuna delle Beatitudini deve essere cantata con "le parti designate nell'Ottoeco". I libri impiegati dall'Arcidiocesi greco-ortodossa non fanno alcun commento particolare sulla questione, e l'espansione della loro portata alle chiese greche all'estero non offre necessariamente chiarezza; la pratica della cappella patriarcale a Costantinopoli è quella di cantare le antifone, ma si possono trovare anche parrocchie e monasteri in Grecia dove si cantano i Salmi Tipici e le Beatitudini.

Consultando il Typikon della Grande Chiesa di Costantinopoli compilato nel 1888 da Gheorghios Violakis, il manuale delle rubriche che teoricamente disciplina la pratica delle parrocchie greche e antiochene, la prassi normativa prevista è molto chiara: "Ogni domenica alla Liturgia si cantano indispensabilmente i Salmi Tipici e le Beatitudini con gli otto inni della risurrezione dall'Ottoeco", e le antifone sono riservate ai giorni feriali e alle feste. Intercalare le antifone con versetti dei Salmi Tipici alla domenica è in sé una pratica ibrida, che cerca di integrare elementi di salmi nella brevità delle antifone nello stile della cattedrale, senza aggiungere il tempo che avrebbero aggiunto i completi Salmi Tipici e le Beatitudini.

La Guida liturgica annuale dell'Arcidiocesi antiochena e il Manuale liturgico del Forum Nazionale dei Musicisti della Chiesa Ortodossa Greca hanno compiuto passi incoraggianti in questa direzione includendo i versetti delle antifone, ma questo non è certamente tutto ciò che si dovrebbe fare. Io offro la modica proposta che la re-introduzione dei Salmi Tipici e delle Beatitudini nella vita liturgica delle parrocchie greche e antiochene in America è un'opportunità per affrontare le critiche di padre Ephrem e del dottor Lingas e ripristinare i salmi completi nella Divina Liturgia, seguire il Tipico in un modo più completo e unificare la pratica inter-giurisdizionale alla domenica mattina. Il canto antifonale delle impostazioni bizantine dei salmi è rapido ed esuberante e le versioni comuni sono abbastanza semplici da imparare rapidamente (anche da parte di una congregazione, se lo si desidera). Insieme con la prosomia sillabica, o inni cantati secondo una melodia di modello comune che accompagna le Beatitudini, questo approccio stabilisce un impulso gioioso all'inizio della Divina Liturgia che è più che una compensazione per ogni ulteriore tempo aggiunto alla funzione. Inoltre, si dice spesso che per gli ortodossi ogni domenica è una piccola Pasqua; i tropari delle Beatitudini saranno un'aggiunta sostanziale al carattere resurrezionale della celebrazione domenicale. Secondo il Typikon di Violakis, le antifone continueranno a essere cantate nei giorni feriali e nei giorni delle feste.

La questione del linguaggio è, naturalmente, centrale in qualsiasi discussione sulla pratica liturgica in America; ci sono adattamenti comuni almeno in greco, romeno e slavonico, ma la scarsa frequenza di utilizzo ha reso una priorità bassa, per compositori e traduttori, le impostazioni bizantine dei salmi in inglese e i testi adattati dei tropari beatitudinali. Inoltre il testo inglese dei salmi stessi è un osso duro per i compositori; il greco e lo slavonico hanno semplicemente più sillabe con le quali dare al testo un impulso melodico. Tuttavia, negli ultimi anni, le impostazioni in lingua inglese dei salmi sono state rese disponibili sia da parte del monastero di sant'Antonio, che ha usato l'inglese della King James Version, e da parte di padre Seraphim Dedes, che ha usato il testo inglese moderno. Padre Seraphim ha anche iniziato a pubblicare testi adattati ai tropari beatitudinali attraverso il sito web della AGES Initiatives. (Nell'interesse della piena divulgazione, io sono un impiegato della AGES Initiatives). Queste sono solo la punta dell'iceberg; altri stanno attualmente lavorando su composizioni aggiuntive che rendono i Salmi Tipici accessibili ai cantori e alle congregazioni anglofone. Per le parrocchie greche e antiochene con cori, esistono diverse impostazioni corali dei salmi e delle Beatitudini disponibili in inglese, e che impiegano un idioma corale slavo, anche se sono consapevole che nessuno ha ancora tentato di impostare i tropari resurrezionali per il coro. Le melodie del modello sono certamente semplici da cantare in unisono da parte di un coro, ma forse un compositore corale sarà ispirato a trovare una soluzione diversa. Mentre ci abituiamo a cantare questi salmi e inni, sicuramente troveremo modi migliori per cantarli.

Tale sforzo di re-integrazione fallirà ancor prima di incominciare se i musicisti ecclesiastici, per quanto ben intenzionati, lo proveranno senza comunicare con il sacerdote. I sacerdoti che potrebbero desiderare di attuarlo probabilmente faranno bene a consultare i loro vescovi e anche a lavorare con i loro cantori e direttori di coro per assicurarsi che siano adeguatamente preparati a eseguire i Salmi Tipici e le Beatitudini abilmente e senza problemi. Certamente, non incoraggio alcun musicista di chiesa a farlo senza l'esplicito consenso del sacerdote e non incoraggio alcun prete a forzare questo cambiamento su un cantore o su un direttore di coro, o se per questo su un vescovo. Il cambiamento avviene lentamente nella Chiesa ortodossa, naturalmente, e un'imposizione dalla sera alla mattina è l'ultima cosa che vorrei sostenere.

Tuttavia, incoraggio i musicisti e i sacerdoti a consultarsi tra di loro, a considerare seriamente la possibilità di incorporare i Salmi Tipici e le Beatitudini nella vita liturgica delle loro parrocchie e di pensare a come potrebbero sembrare. Forse potrebbe essere una pratica occasionale o una lenta e graduale integrazione; "o tutto o niente" non deve essere l'unica opzione.

Per lo meno, le risorse ora esistono e sono disponibili in inglese; questo significa che molti di noi possono ora cominciare a pensare a come incorporare questi elementi piuttosto che a scartare automaticamente l'idea. Consideriamo insieme questa opportunità per dare alla salmodia biblica e all'innodia resurrezionale una voce gioiosa nella Divina Liturgia domenicale.

Risorse musicali

AGES Initiatives: http://www.agesinitiatives.com/dcs/public/dcs/booksindex.html

St. Anthony’s Monastery: https://www.stanthonysmonastery.org/music/Johnchrys.htm#Typicac

Risorse liturgiche

The Psalter According to the Seventy. Brookline: Holy Transfiguration Monastery, 2008.

Moore, Fr. Lazarus. The Psalter. Madras: Diocesan Press, 1971.

Nassar, Fr. Seraphim. Divine Prayers and Services of the Catholic Orthodox Church of Christ. New York: Syrian Antiochian Orthodox Archdiocese of New York and All North America, 1961.

Sheehan, Donald. The Psalms of David: Translated from the Septuagint Greek. Eugene: Wipf & Stock, 2013.

Violakis, George. Typikon: The Ritual Order of the Services of the Great Church of Christ. Bilingual Edition. Highlands Ranch: The Greek Orthodox Metropolis of Denver Church Music Federation, 2015.

Ulteriori riferimenti

Bp. Demetri. “Foreword.” In Christ in the Psalms, by Fr. Patrick Henry Reardon, vii–viii. Ben Lomond: Conciliar Press, 2000.

Getcha, Fr. Job. The Typikon Decoded: An Explanation of Byzantine Liturgical Practice. Crestwood: St Vladimir’s Seminary Press, 2012.

Lash, Fr. Ephrem. “Translating the Liturgy: Was there a Great Entrance at the Last Supper?” Lecture delivered to the Oxford Orthodox Christian Student Society at the Danson Room, Trinity College, on 3rd November 2011.

Lingas, Alexander. “Sunday Matins in the Byzantine Cathedral Rite: Music and Liturgy.” University of British Columbia, 1996.

Lingas, Alexander. “Tradition and Renewal in Contemporary Greek Orthodox Psalmody.” In Psalms in Community: Jewish and Christian Textual, Liturgical, and Artistic Traditions, 341–56. Leiden: Brill, 2004.

Lingas, Alexander. “The Genesis of This Project.” CD booklet, The Divine Liturgy in English, by Cappella Romana. Portland: Cappella Romana, 2008.

Taft, Fr. Robert F. The Byzantine Rite: A Short History. Collegeville: Liturgical Press, 1992.

 
Aleksei Stepanovič Chomjakov

 

Nato a Mosca il 1/13 Maggio 1804, morto a Rjazan', presso Mosca, il 23 Settembre/5 Ottobre 1860, Aleksei Chomjakov fu forse il più grande teologo laico ortodosso del XIX secolo. I suoi antenati erano stati da secoli al servizio della famiglia imperiale russa. Il padre Stepan aveva portato i propri affari sull'orlo della rovina. La madre Maria Kirejevskaja aveva salvato la situazione con la propria intelligenza e attività. Profondamente devota alla Chiesa Ortodossa, aveva cresciuto i suoi due figli e le figlie nello spirito della pietà tradizionale russa, dando loro una eccellente istruzione. Aleksei ebbe tutori russi e occidentali, e imparò francese, tedesco, inglese, latino e greco, oltre al sanscrito (fu l'autore del primo dizionario russo-sanscrito). Pur senza frequentare, si laureò in matematica all'Università di Mosca, e viaggiò a lungo in vari paesi dell'Occidente, tra cui l'Italia (in Piemonte si trattenne sul Lago Maggiore, e compose un poema sull'Isola Bella).

Nella guerra russo-turca del 1828-29 servì con distinzione come capitano di cavalleria, e passò il resto della sua vita a Mosca, dedicandosi a una serie di attività intellettuali. Fu scrittore e poeta di talento; compose saggi filosofici e politici, e trattati di economia, sociologia e teologia. Seppe gestire con successo le sue proprietà fondiarie, e vinse premi in Inghilterra per i suoi progetti di macchine agricole; esperto di balistica, introdusse miglioramenti nella costruzione di armi da fuoco; medico autodidatta, si recava personalmente a curare i contadini che lavoravano nei suoi poderi. Il suo matrimonio fu felice e benedetto da molti figli.

Il rigido sistema di censura della Russia zarista permise solo a pochi dei suoi articoli di apparire durante la sua vita. Gran parte della sua opera fu pubblicata postuma da amici e collaboratori. Anche nel periodo sovietico le sue opere furono messe al bando. Nella prima metà del XIX secolo, un'élite intellettuale di eccezionale abilità creava in Russia uno stridente contrasto con il dominio reazionario dello zar Nicola I (1825-55). Le preoccupazioni per l'orientamento politico e sociale del popolo russo vedevano due tipi diversi di soluzione: quella degli occidentalisti, e quella degli slavofili. I primi, ispirati dalle riforme di Pietro I (1682-1785) che avevano rotto l'isolamento della Russia, traevano ispirazione e modello dalle idee liberali e socialiste dell'Occidente. Gli slavofili, guidati da Chomjakov, insistevano perché lo sviluppo della Russia seguisse la cultura anteriore a Pietro I, ispirata dalla Chiesa Ortodossa.

Anche se si sentiva a proprio agio nel mondo occidentale, Chomjakov conosceva e amava profondamente il passato della Russia: un sentimento raro tra i suoi contemporanei. Non aveva obiezioni all'introduzione di elementi della cultura dell'Occidente, ma era profondamente opposto all'individualismo occidentale. Nella sua critica del capitalismo e del socialimo, li considerava come le conseguenze opposte della medesima mentalità occidentale. Allo stesso modo, criticava il sistema di autorità condiviso dal Cattolicesimo romano e dal Protestantesimo, e la loro incapacità di risolvere il conflitto tra autorità e libertà. Le analisi teologiche di Chomjakov riescono ancora oggi a coniugare chiarezza dottrinale e spirito pacifico, e sono uno dei contributi più durevoli del movimento slavofilo.

La parola chiave del sistema di Chomjakov è sobornost, un termine di ampia gamma di significati, tra cui "consesso" e "sinfonia". Questa parola, nella versione slavonica del Credo niceno-costantinopolitano, corrisponde a "cattolicità," ma non significa meramente "universalità": indica piuttosto una perfetta comunione organica di esseri redenti, uniti dal vincolo della fede e dell'amore. L'Occidente cristiano, nell'analisi di Chomjakov, non è più in grado di esprimere questa comunione organica dal tempo della sua separazione dalla Chiesa ortodossa: non lo anima più il principio di cooperazione, ma di competizione.

La vasta erudizione di Chomjakov, il suo talento letterario, la sua integrità morale e la sua forza di convinzione gli avrebbero procurato una brillante carriera politica e accademica, ma il regno oppressivo di Nicola I non gli permise di mettere a frutto i suoi talenti. La sua morte avvenne nel 1860, mentre stava tentando di curare i contadini dei suoi poderi durante un'epidemia di colera.

Negli ultimi anni, la canonizzazione di Aleksei Chomjakov come confessore della fede è stata proposta al Patriarca Alessio II su istanza della Parrocchia della Santa Protezione a Mosca.

 
Perché il peccato non è un problema morale

Molti lettori non hanno mai sentito qualcuno che dice che non esiste una cosa come il progresso morale – quindi non mi sorprende il fatto che mi è stato chiesto di scrivere in modo più approfondito sul tema. Vorrei iniziare concentrandomi sulla questione del peccato stesso. Se comprendiamo nel modo giusto la natura del peccato e il suo vero carattere, la nozione di progresso morale si vedrà più chiaramente. Inizierò chiarendo la differenza tra il concetto di moralità e la comprensione teologica del peccato. Sono due mondi molto diversi.

La moralità (come io uso la parola) è un termine ampio che descrive in generale l'adesione (o la mancanza di adesione) a un insieme di regole o norme di comportamento. In questa comprensione, ognuno pratica una qualche forma di moralità. Un ateo può non credere in Dio, ma avrà comunque un senso interiorizzato di giusto o sbagliato, nonché una serie di aspettative per sé e per gli altri. Non c'è mai stata una serie universalmente concordata di standard morali. Persone diverse, culture diverse hanno una varietà di interpretazioni morali e modi di discutere ciò che significa essere "morale".

Ho osservato e scritto che la maggior parte della gente non progredisce moralmente. Questo per dire che generalmente non miglioriamo nell'osservanza di norme e pratiche che consideriamo moralmente corrette. Nel complesso, siamo tanto corretti moralmente quanto lo saremo mai.

Questo differisce sostanzialmente da quello che viene chiamato "peccato" in termini teologici. La mancata adesione a determinati standard morali può avere alcuni aspetti sottostanti di "peccato", ma i fallimenti morali e il peccato non sono la stessa cosa. Allo stesso modo, la correttezza morale non significa affatto essere "giusti". Una persona può essere moralmente corretta durante tutta la propria vita (teoricamente) ed essere ancora impantanata nel peccato. Capire il peccato ci chiarirà le cose.

"Peccato" è una parola che spesso è usata in modo sbagliato. Popolarmente è usata sia per indicare le infrazioni morali (infrangono le regole), o, religiosamente, le infrazioni delle regole di Dio. Così quando qualcuno chiede: "È un peccato fare x, y, z?", ciò che vuol dire è: "È contro le regole di Dio fare x, y, z?" Ma questo non è corretto. Correttamente, il peccato è una cosa ben distinta dalla rottura delle regole – san Paolo ne parla in una maniera del tutto diversa:

Io so che in me (cioè nella mia carne) non abita alcun bene; il desiderio del bene è presente con me, ma non la capacità di attuare ciò che è bene. Infatti non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio fare, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. (Rom 7:18-20)

"Il peccato che abita in me?" Ovviamente "infrangere le regole" non è un significato che si adatta a questa modalità in alcun modo possibile. Il peccato ha un significato completamente diverso. Possiamo di nuovo riprendere il suo significato da san Paolo:

Quando infatti eravate schiavi del peccato, eravate liberi nei riguardi della giustizia. Ma quale frutto raccoglievate allora dalle cose di cui ora vi vergognate? Il traguardo di quelle cose infatti è la morte. Ora invece, liberati dal peccato e fatti servi di Dio, raccogliete il vostro frutto per la vostra santificazione, e some traguardo avete la vita eterna. Perché il salario del peccato è la morte, ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù, nostro Signore. (Rom 6:20-23)

Qui il peccato è qualcosa che ci può tenere in schiavitù, e la cui fine è la morte. Allora, che cos'è il peccato?

Il peccato è una parola che descrive uno stato di essere – o, più propriamente, uno stato o un processo di non-essere. Si tratta di un movimento di allontanamento dalla nostra corretta esistenza – il dono di Dio alla sua creazione. Dio solo ha il vero Essere – lui solo è auto-esistente. Tutto il resto che esiste è contingente – è totalmente dipendente in ogni momento da Dio per la propria esistenza. Quando Dio ci ha creati, secondo i Padri, ci ha dato l'esistenza. Mentre cresciamo in comunione con lui ci muoviamo verso il benessere. Il suo dono ultimo per noi, e quell'unione verso rettamente cui ci muoviamo, è l'essere eterno.

Ma c'è un opposto a questa vita di grazia. Si tratta di un movimento verso la non-esistenza, un allontanamento da Dio e un rifiuto del benessere. È questo movimento che si chiama "peccato". Possiamo esserne schiavi, come una foglia intrappolata in un vortice d'acqua. Il peccato non è nulla di per sé (perché il non-essere non ha esistenza). Ma è descritto nella Scrittura da parole come "morte" e "corruzione". La corruzione o "putrefazione" (φθορά) è un ottimo termine per descrivere il peccato. Perché è la dissoluzione graduale (un movimento o un processo dinamico) di una cosa che un tempo era vivente – il suo graduale decadimento in polvere.

Questo differisce sorprendentemente dall'idea del peccato come rottura di regole morali. La rottura di una regola implica solo un errore verso l'esterno, un'infrazione meramente legale o forense. Nulla nella sostanza è cambiato. Ma le Scritture trattano un peccato molto più profondo, che è di per sé un cambiamento nella sostanza, un decadimento del nostro essere.

E qui diventa necessaria una certa dose di ripensamento creativo. Le abitudini della nostra cultura sono a pensare al peccato in termini morali. È una cosa semplice, richiede poco sforzo, e va d'accordo con quello che pensa tutti intorno a noi. Ma è teologicamente scorretto. Questo non vuol dire che non è possibile trovare rimedi moralistici negli scritti della Chiesa – in particolare negli scritti degli ultimi secoli. Ma la cattura della teologia della Chiesa per mezzo del moralismo è una vera prigionia e non un'espressione della mente ortodossa.

Quindi, come possiamo pensare a ciò che è giusto e sbagliato, alla crescita spirituale, alla salvezza per sé, se il peccato non è un problema morale? Non ignoriamo le nostre scelte false e le passioni disordinate (abitudini di comportamento). Ma le vediamo come sintomi, come manifestazioni di un processo più profondo all'opera. L'odore di un cadavere non è il vero problema, e il trattamento dell'odore non è affatto la stessa cosa della risurrezione.

L'opera di Cristo è opera di risurrezione. La nostra vita in Cristo non è una questione di perfezionamento morale – è la vita che nasce dalla morte. Siamo sepolti nella sua morte, e si tratta di una vera e propria morte, completa di tutto ciò che significa la morte. Ma la sua morte non è stata  per la corruzione. Egli ha distrutto la corruzione. Il nostro battesimo nella morte di Cristo è un battesimo nell'incorruttibilità, la guarigione della rottura fondamentale nella nostra comunione con Dio.

Così a che cosa assomiglia tale guarigione? È sbagliato aspettarsi che abbia luogo un qualche tipo di progresso?

La mia esperienza di vita (34 anni di sacerdozio) e di lettura dei Padri e della Tradizione suggeriscono che tali aspettative siano davvero fuori luogo. Sono rimasto perplesso su questo punto per molti anni. Sono giunto a pensare che la nostra salvezza abbia qualcosa di simile alla realtà dei sacramenti. Cosa vedete nell'Eucaristia? Il Pane e il Vino passano attraverso un cambiamento progressivo? Vediamo una trasformazione sotto i nostri occhi?

Ciò che sembra essere vero è che la nostra salvezza è in gran parte nascosta – a volte anche a noi stessi. La fede cristiana è "apocalittica" nella sua stessa natura – si tratta di una "rivelatore di ciò che è nascosto" Le parabole sono piene di immagini di sorpresa: un tesoro riscoperto, ecc. La salvezza ha un'abitudine di apparire all'improvviso. Penso spesso al dramma cultuale in una Liturgia ortodossa come se fosse la raffigurazione di questa stessa cosa – così le porte e la cortina e il flusso del servizio del tipo "ora lo vedi – ora non più – ora lo vedi veramente".

Trovare la nostra salvezza significa voltare le spalle all'apparenza delle cose. Richiede un profondo e fondamentale ri-orientamento verso l'interno della nostra vita. Richiede un lavoro interiore di pentimento. La vita morale invece è vissuta sulla superficie – anche gli atei si comportano in modo morale. Quando ci volgiamo verso Cristo-in-noi, ci muoviamo sotto la superficie. Cominciamo a vedere come le nostre azioni sono effimere e confuse.

Queste azioni sono per lo più opera di un falso sé, di un ego che è spezzato e si vergogna e lotta disperatamente per "essere migliore". Ma il cuore della vita spirituale cristiana non passa attraverso questo percorso di un ego migliorato, ma attraverso il percorso della "morte a se stessi", in cui perdiamo un'esistenza che non è il nostro vero sé, e impariamo un'esistenza che è nostra in Cristo. Ma ciò che vediamo è spesso qualcosa di diverso. Infatti, mentre stiamo trovando la verità, d'altra parte ci aggrappiamo ancora alla nostra falsa esistenza – e questo è in primo luogo ciò che noi vediamo e ciò che gli altri vedono. Il lavoro nascosto della salvezza rimane invisibile.

Non è affatto insolito nella vita dei santi che la santità di una persona rimanga nascosta fino alla loro morte. Questo è stato il caso di san Nettario di Egina. Era stato respinto da molti, anche se in pochi lo avevano visto nella sua vera luce. Ma alla sua morte, cominciarono a fluire miracoli da lui, e improvvisamente le storie iniziarono ad emergere.

E misteriosamente, sembra che questa vita nascosta è spesso altrettanto nascosta al santo stesso (proprio come la nostra vera vita è nascosta a noi). Credo che Dio ci preservi dal peso di questa conoscenza per la nostra salvezza.

Impostate il vostro affetto sulle cose di lassù, non su quelle della terra. Perché voi siete morti, e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio. Quando Cristo, che è la nostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria. (Col 3:2-4)

Questo è, ancora una volta, il carattere apocalittico della vita cristiana. Noi siamo morti e le nostre vere vite sono nascoste con Cristo in Dio – e appariranno quando egli apparirà.

Quindi che cosa vediamo in questa vita? La risposta è semplice e chiara: Cristo. Non cerchiamo il nostro miglioramento, ma Cristo. Il nostro miglioramento cessa lentamente di avere importanza quando troviamo Cristo. E più lo troviamo, più chiaramente la natura del falso ego ci sembra chiara, e possiamo dire, "il peggiore di tutti i peccatori sono io".

 
Aleksandr Vasil'evič Suvorov

“Quando i russi dominavano Torino…”: sembra l’inizio di un racconto di pura fantasia, eppure è una realtà storica poco conosciuta dagli stessi torinesi.

Nell’estate del 1799, infatti, il Piemonte fu liberato dall’occupazione delle truppe rivoluzionarie francesi a opera di un corpo di spedizione austro-russo, comandato dal più grande stratega di quel tempo: il maresciallo Aleksandr Suvòrov (1730-1800). 

Ci si può chiedere – ed è più che legittimo – perché presentare un leader militare tra i testimoni di fede in un sito parrocchiale. Ci sono buone ragioni:

– Suvorov è un esempio di cristiano ortodosso profondamente segnato dalla sua fede, e da un’intensa vita di preghiera, anche nei momenti più drammatici delle sue campagne militari. Gli aneddoti che lo riguardano sono infiniti, ma vale la pena ricordare la sua libertà interiore e la franchezza delle sue opinioni (dalle quali fu spesso portato in disgrazia negli ipocriti ambienti di corte), la sua vita morigerata e indifferente al potere e alle ricchezze, la sua capacità di mettersi al livello dell’ultimo dei suoi soldati, provando le sofferenze di tutti, la sua magnanimità nei confronti dei nemici e di quanti tradirono la sua fiducia (a cominciare dalla sua stessa moglie). Si può dire che Suvorov abbia incarnato il meglio dello spirito russo in un singolo individuo, così come il suo contemporaneo ammiraglio Feodor Ushakov (recentemente canonizzato dalla Chiesa Ortodossa Russa).

– L’atteggiamento di Suvorov nei confronti degli italiani è un modello altrettanto valido. Avremmo qualcosa da imparare dal suo rispetto per gli ecclesiastici e i fedeli cattolici, che era venuto a liberare dalla minaccia del giacobinismo. Certi gesti (come il suo ingresso in Torino, quando – vestito in uniforme bianca – si chinò a baciare il suolo davanti al Duomo) possono richiamare immagini curiose alla mente di chi si sforza oggi di alimentare buone relazioni tra i cristiani.

– Il Piemonte dovrebbe ricordare Suvorov come uno dei suoi più grandi benefattori, non solo per l’avvenuta liberazione, ma anche per lo spirito con cui egli la realizzò. Mentre i suoi alleati austriaci premevano per assimilare il Piemonte nel proprio espansionismo, Suvorov fece tutto il possibile per salvaguardarne la libertà, riconoscendo la legittimità del regno rovesciato dai giacobini. Se il Piemonte poté in seguito diventare il nucleo del nuovo stato italiano, forse fu anche grazie al senso di dignità lasciato dai russi e dal loro maresciallo dall’animo nobile. Forse tutti gli italiani hanno un piccolo debito di riconoscenza nei confronti di Suvorov… a maggior ragione, quelli che sono debitori ai russi anche di un prezioso dono di fede.

 

Un testo per approfondire:

Maria Fedotova, Suvorov. La Campagna italo-svizzera e la liberazione di Torino nel 1799, Torino: Piero Pintore Editore 2005, 256 pp., ISBN 88-87804-17-6,  € 20,00.

 
La Chiesa e le armi

Un vescovo e un prete cattolici romani, un sacerdote ortodosso, una pastora protestante e due rabbini ebrei stavano facendo la benedizione delle armi. Vi sembra l'inizio di una barzelletta? Guardate le immagini qui sopra per avere un esempio di ciascuno dei protagonisti. Ma d'accordo, vi dirò una barzelletta. Non so da dove viene.

Una domenica mattina, una chiesa da duemila posti era piena fino a traboccare. Il predicatore era pronto per iniziare il sermone, quando due uomini, vestiti con lunghi cappotti neri e cappelli neri entrarono dal retro della chiesa. Uno dei due uomini avanzò al centro della chiesa, mentre l'altro rimase in fondo alla chiesa. Po entrambi tirarono fuori fucili mitragliatori da sotto i loro cappotti. Quello in mezzo annunciò, "Tutti quelli che sono disposti a prendersi un proiettile per Gesù se ne stiano al proprio posto!" Naturalmente, i banchi sui svuotarono subito, seguiti dal coro. I diaconi corsero fuori dalla porta, seguiti dal direttore del coro e dal vice parroco. Dopo pochi istanti, una ventina di persone erano rimaste sedute in chiesa. Il predicatore se ne stava bloccato sul pulpito. Gli uomini ritirarono le armi e dissero, con delicatezza, al predicatore, "Va bene, reverendo, gli ipocriti se sono andati. Può iniziare la predica".

Ah, sì, possiamo iniziare la predica. Sia che siamo d'accordo con la benedizione delle armi oppure no, dobbiamo ammettere che sia nella storia ebraica sia in quella cristiana vi è una lunga storia di benedizione delle armi. Possiamo sostenere che la benedizione delle armi non si trova nel Nuovo Testamento o nella Chiesa primitiva. Ma, è anche vero che in Romani 13 san Paolo sostiene che è il Signore che ha dato ai governanti il diritto di usare le armi, come un modo per sopprimere i trasgressori.

Da qualche parte nella storia la Chiesa, alla fine, è arrivata al punto in cui ha dovuto prendere alcune decisioni. Quel punto è stato raggiunto quando i cristiani sono diventati la maggioranza in Armenia e nell'Impero romano. A quel punto, la Chiesa non poteva più evitare di essere coinvolta nelle faccende dell'Impero. Quando l'imperatore è cristiano, quando l'esercito è in gran parte cristiano, quando il Senato è in gran parte cristiano, quando i giudici sono cristiani, allora la Chiesa non ha altra scelta se non quella di parlare con chiarezza nella vita di governo del paese. L'esperimento americano con la separazione tra Chiesa e Stato non ha tenuto conto del fatto di quella realtà, ma piuttosto l'ha data per scontata. I padri fondatori non avevano mai pensato a ciò che potrebbe significare per il governo il fatto che la Chiesa sia completamente separata dallo Stato. Hanno dato per scontata una morale che era fondamentalmente cristiana, ma reagivano alla persecuzione che le confessioni non riconosciute avevano sperimentato in Europa. Anche i Padri Fondatori non cristiani davano per scontato un accordo generale sulla moralità, anche se Benjamin Franklin era piuttosto l'eccezione.

Ma i primi Padri della Chiesa si trovavano di fronte a un paese che non aveva un retaggio di morale cristiana, e che pure ora era governato da cristiani. Fu a quel punto che la Chiesa dovette aiutare a guidare il paese verso una nuova moralità. Il tentativo non era perfetto, ma di fatto cambiò la società. In mezzo a quel tentativo, dovettero affrontare la questione dell'esercito. O l'esercito era parte del piano di Dio, e in questo senso era divino, o non lo era. Se era parte del piano di Dio, allora, proprio come dice san Paolo in Romani 13, reggeva la spada come parte dell'assegnazione a loro data da Dio. Se questo era vero. Se l'esercito portava armi in modo appropriato, e dato che Dio lo aveva assegnato a quel ruolo, di conseguenza non è inopportuno pensare che le armi debbano essere benedette in modo che l'esercito possa svolgere la soppressione dei fuorilegge in un modo appropriato e timorato di Dio.

Molti cristiani che inorridiscono alla benedizione delle armi non sono, peraltro, necessariamente opposti all'idea di avere delle forze armate. Eppure, in qualche modo vedono la benedizione delle armi come una cosa terribile, pur volendo riconoscere la necessità delle forze armate. Tuttavia, non si rendono conto che stanno inviando un messaggio contraddittorio alla Chiesa e alle truppe. Stanno dicendo che va bene difendere il paese, ma che le armi che usano sono empie? Come possiamo spiegare ai cristiani che va bene far parte delle forze armate, ma al contempo dire loro che stanno usando armi empie?

Ora, alcuni primi Padri della Chiesa hanno visto chiaramente come incoerente il fatto che un cristiano serva nell'esercito perché avrebbe utilizzato armi empie in un compito empio. Ma questi non erano la maggioranza. E i primi Padri della Chiesa vissuti dopo il periodo in cui la Chiesa è diventata la maggioranza non sembrano più avere tale restrizione. Avevano dovuto affrontare la questione dei cristiani nell'esercito quando essi erano la maggioranza del paese e del governo. Quindi, se va bene essere nelle forze armate, va anche bene benedire le armi che vengono utilizzate dalle forze armate. Se compito è divino, allora sicuramente molti dei mezzi deve anch'essi essere divini, anche se conducono a risultati indesiderati.

No, io non ho risposte semplici. Ma noi dobbiamo imparare a pensare a queste cose in modo logico. Gran parte della repulsione per la benedizione delle armi viene da una iper-spiritualizzazione della Chiesa. All'estremo opposto, invece, (e questo sarà un altro argomento) ci sono quelli che vogliono che la Chiesa approvi qualsiasi utilizzo di armi, incluse l'auto-difesa, la rivoluzione, etc. Nessuna di queste posizioni mi sembra logica, anche se non ho risposte semplici da dare.

 
Perché in chiesa si prega senza inginocchiarsi in tutte le domeniche e da Pasqua fino a Pentecoste?

Come è evidente dalle Sacre Scritture, ci si inchinava, ci si inginocchiava e si facevano prosternazioni durante la preghiera, anche nell'Antico Testamento. Il santo profeta e re Davide si riferisce al gesto di inchinarsi a Dio o nel suo tempio in molti salmi, per esempio: "prosterniamoci al Signore nei suoi santi" (Salmo 28:2), "Mi prosternerò nel tuo santo tempio, nel tuo timore"(Salmo 5:8), "Venite, adoriamo e prosterniamoci a lui "(Salmo 94:6), "Procediamo nei suoi tabernacoli, inchiniamoci nel luogo in cui i suoi piedi si sono posati" (Salmo 131:7), e così via.

Quanto al gesto di inginocchiarsi, è noto che il santo profeta Daniele, per esempio, per tre volte al giorno "si inginocchiava, pregava e rendeva grazie al suo Dio" (Dn 6,10). Anche le prosternazioni complete sono menzionate nei libri dell'Antico Testamento. Per esempio: i profeti Mosè ed Aronne pregarono Dio, dopo essersi prosternati "con la faccia a terra" (Numeri 16:22), di essere misericordioso verso i figli d'Israele che avevano peccato gravemente. Nel Nuovo Testamento, inoltre, l'abitudine di eseguire genuflessioni, prosternazioni e, naturalmente, inchini era stata conservata e aveva ancora un posto nel corso della vita terrena del nostro Signore Gesù Cristo, che ha santificato quest'usanza dell'Antico Testamento con il suo esempio, pregando in ginocchio e con la faccia a terra. Così, sappiamo dai Santi Vangeli che prima della sua passione, nel Giardino di Getsemani, egli "si inginocchiò e pregò" (Matteo 26:39), "cadde a terra e pregò" (Marco 14:35). E dopo l'ascensione del Signore, al tempo dei santi apostoli, questa usanza, di cui parlano anche le Sacre Scritture, rimase invariata. Per esempio, il santo protomartire e arcidiacono Stefano "si inginocchiò," e pregò per i suoi nemici che lo lapidavano (Atti 7:60); l'apostolo Pietro, prima di risuscitare Tabitha dai morti, "si inginocchiò e pregò" (Atti 9:40), ecc. E' un fatto indiscutibile che, come sotto i primi successori degli apostoli, così anche in periodi molto successivi dell'esistenza della Chiesa di Cristo, le genuflessioni, gli inchini e le prosternazioni fino a terra sono stati sempre impiegati dai veri credenti nelle preghiere domestiche e nei servizi divini. Nell'antichità, tra le altre attività corporee, inginocchiarsi era considerata la manifestazione esteriore di preghiera più gradita a Dio. Così, sant'Ambrogio di Milano dice: "Al di là di tutto il resto delle fatiche ascetiche, inginocchiarsi ha il potere di placare l'ira di Dio e di evocare la sua misericordia" (Libro VI, I sei giorni della Creazione, cap. 9).

I canoni relativi agli inchini e alle genuflessioniormai accettati dalla Chiesa ortodossa e che si trovano nei libri dei servizi divini, e in particolare nel Tipico della Chiesa, si osservano nei monasteri. Ma in generale, ai cristiani ortodossi laici pieni di zelo è permesso di pregare in ginocchio in chiesa e fare prosternazioni complete ogni volta che lo desiderano, con la sola eccezione dei momenti in cui si leggono il Vangelo, l'Apostolo, le letture dell'Antico Testamento, e i sei salmi e durante le prediche. La Santa Chiesa guarda a queste persone in modo amorevole, e non vincola i loro sentimenti di devozione. Tuttavia, le eccezioni per quanto riguarda la domenica, e i giorni tra Pasqua e Pentecoste, si applicano in generale a tutti. Secondo l'antica tradizione e una legge chiara della Chiesa, non ci si deve mettere in ginocchio in questi giorni. La radiosa solennità degli eventi che la Chiesa commemora per tutto il periodo da Pasqua a Pentecoste e alle domeniche preclude, in sé e per sé, ogni manifestazione esterna di dolore o di lamento dei propri peccati: poiché Gesù Cristo "avendo cancellato il documento dei nostri peccati... inchiodandolo alla sua Croce, e sconfitto i principati e le potenze, li ha sconfessati apertamente, trionfando su di loro" (Col 2,14-15), da allora "non esiste, pertanto, alcuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù" (Rm 8,1). Per questo motivo, è stata osservata nella Chiesa fin dai primi tempi, e indubbiamente tramandata dagli apostoli, la pratica per cui in tutti questi giorni, consacrati alla commemorazione della gloriosa vittoria di Gesù Cristo sul peccato e sulla morte, si richiedeva compiere il servizio divino pubblico in modo lieto e con solennità, e in particolare senza inginocchiarsi, che è un segno del dolore e del pentimento per i propri peccati. Nel secondo secolo lo scrittore Tertulliano testimonia questa pratica: "Il giorno del Signore (cioè la domenica) riteniamo improprio digiunare o inginocchiarsi, e godiamo anche di questa libertà da Pasqua fino a Pentecoste" (Sulla corona, 3 cat.). San Pietro di Alessandria (III sec., cfr. il suo Canone XV nel Pedalion), e le Costituzioni Apostoliche (Libro II, cap. 59) dicono la stessa cosa.

In seguito, il Primo Concilio Ecumenico ha ritenuto necessario rendere questa abitudine giuridicamente vincolante con un canone speciale obbligatorio per tutta la Chiesa. Il canone del Concilio afferma: "Dal momento che ci sono alcune persone che si inginocchiano in chiesa la domenica e nei giorni della Pentecoste, con l'obiettivo di preservare l'uniformità in tutte le parrocchie, è sembrato migliore al santo Concilio che le preghiere siano offerte a Dio stando in piedi "(Canone XX).

Sottolineando questo canone, San Basilio il Grande spiega in questo modo le motivazioni e il significato della prassi consolidata: «Ci alziamo in preghiera il primo giorno della settimana, anche se non tutti ne conosciamo la ragione. Non solo ci serve a ricordarci che, una volta risorti dai morti insieme con Cristo, dobbiamo cercare le cose dall'alto, nel giorno della resurrezione di grazia che ci è dato, stando in piedi in preghiera, ma questo sembra anche servire in un certo modo come prefigurazione dell'era prevista. Perciò, essendo anche il punto di partenza dei giorni, anche se non il primo per Mosè, è stato tuttavia chiamato il primo. Si dice infatti: 'E fu sera e fu mattina: primo giorno' (Gen. 1:5), per il motivo che ritorna ancora e ancora. L'ottavo, quindi, è anche il primo, tanto più per quanto riguarda quel vero e proprio primo e ottavo giorno, che il Salmista ha menzionato in alcune delle introduzioni dei suoi salmi, per esporre lo stato di ciò che sarà dopo questo periodo di tempo, il giorno incessante, il giorno senza notte che segue, il giorno senza successore, l'era che non finisce mai e non invecchia. Necessariamente, quindi, la Chiesa insegna ai suoi figli ad adempiere ai loro obblighi di preghiera in questo giorno, stando in piedi, in modo da ricordare loro costantemente la vita immortale e di non far loro trascurare di fare provviste per il viaggio verso quel giorno. E ogni Pentecoste è un ricordo della risurrezione prevista nel tempo che verrà. Quel giorno, moltiplicato per sette, costituisce le sette settimane della santa Pentecoste. Iniziando dal primo giorno della settimana, si arriva nello stesso giorno... Le leggi della Chiesa ci hanno insegnato a preferire la postura eretta in preghiera, trasportando così la nostra mente, per così dire, come risultato di suggerimenti vividi e chiari, dal tempo presente alle cose a venire in futuro. E durante ogni momento in cui ci inginocchiamo e ci rialziamo di nuovo in piedi mostriamo di fatto con le nostre azioni che è stato a causa del peccato che siamo caduti a terra, e che attraverso la bontà di Colui che ci ha creati siamo richiamati al cielo ... "(Canone XCI di San Basilio il Grande). Le tre ben note preghiere in ginocchio della Pentecoste, composte da questo grande Padre della Chiesa, non sono quindi lette all'ora Terza, quando lo Spirito Santo discese sugli apostoli, né alla Liturgia di Pentecoste, ma dopo l'ingresso del Vespro, che è già parte del giorno successivo. Il santo Padre era determinato a non rompere l'antica consuetudine della Chiesa.

Nel Canone XC del Concilio trullano, organizzato in concomitanza con il sesto Concilio ecumenico, si legge: "Abbiamo ricevuto i canoni dei nostri Padri teofori che portano a non piegare le ginocchia alla domenica, quando onoriamo la risurrezione di Cristo. Dato che questa osservazione può non essere chiara per alcuni di noi, cerchiamo di chiarire ai fedeli che, dopo l'ingresso dei chierici nell'altare sacrificale, alla sera del sabato, che nessuno di loro pieghi le ginocchia fino a sera della domenica seguente, quando, in seguito all'ingresso dopo l'accensione delle luci, piegando di nuovo le ginocchia, ricominciamo a offrire le nostre preghiere al Signore. Infatti, in quanto ci è stato tramandato che la notte dopo il sabato è stata il precursore della risurrezione del nostro Salvatore, iniziamo i nostri inni a questo punto in un modo spirituale, terminando la festa con un passaggio dalle tenebre alla luce, in modo da poter quindi celebrare la resurrezione insieme per un giorno intero e una notte intera". Giovanni Zonaras, spiegando il canone, dice: "Vari canoni hanno stabilito di non inginocchiarsi la domenica o durante i cinquanta giorni della Pentecoste, e Basilio il Grande ha pure fornito le ragioni per le quali questo era vietato. Questo canone decreta solo per quanto riguarda la Domenica, e indica chiaramente da che ora e fino a che ora inginocchiarsi, e dice: 'Al sabato , dopo l'ingresso dei celebranti all'altare nel Vespro, nessuno può piegare il ginocchio fino al Vespro della domenica, quando, cioè, ancora una volta avviene l'ingresso dei celebranti: noi non lo trasgrediamo piegando il ginocchio e pregando in ginocchio da quel momento in poi. La notte del sabato è considerata la sera del giorno della risurrezione, che secondo le parole di questo canone dobbiamo passare nel canto dei salmi, portando la festa dalle tenebre alla luce, e in tal modo celebrare la resurrezione per tutta la notte e il giorno" (Libro dei Canoni con interpretazioni, p. 729).

Nel Tipico della Chiesa c'è un'istruzione riguardo a come il sacerdote deve avvicinarsi e baciare il Vangelo dopo averlo letto durante la Veglia notturna della risurrezione: "Non fate prosternazioni fino a terra, ma piccoli inchini, toccando il suolo con la mano. Alla domenica e alle feste del Signore e durante tutti i 50 giorni tra la Pasqua e la Pentecoste non si piegano le ginocchia" (Tipico, cap. 2).

Tuttavia, stare in piedi ai servizi divini alla domenica e nei giorni tra la Pasqua e la Pentecoste era il privilegio di coloro che erano in piena comunione con la Chiesa; i cosiddetti "penitenti" invece non erano dispensati dallo stare in ginocchio, anche in quei giorni.

Chiudiamo con queste parole del famoso interprete dei canoni ecclesiastici, Teodoro Balsamo, Patriarca di Antiochia: "Mantenete i decreti canonici, dovunque e comunque siano stati formulati, e non dite che ci sono contraddizioni tra loro, poiché lo Spirito tuttosanto li ha formulati tutti" (Interpretazione del Canone XC del Concilio trullano).

 
Recensione cinematografica - 1612: Cronache del Tempo dei Torbidi

Sta terminando il 2012, che ha visto la ricorrenza dei 400 anni dalla liberazione della Russia dall'invasione polacca, e dell'inizio della dinastia dei Romanov. Per questo centenario era stato preparato alcuni anni fa un film, 1612: Khroniki smutnogo vremeni, ovvero 1612: Cronache del Tempo dei Torbidi. La pellicola è tutto sommato trascurabile, soprattutto per chi ha potuto vedere al cinema le figure di sant'Alexander Nevskij come descritta da Sergej Ejzenshtejn, o quella di sant'Andrej Rublev come descritta da Andrej Tarkovskij. Ma anche in assenza di una migliore cinematografia, 1612 riporta comunque l'attenzione a una fase della storia europea tanto trascurata quanto cruciale. Presentiamo la recensione cinematografica e il video completo del film nella sezione "Geopolitica" dei documenti... dato che ha rappresentato per molti un primo approccio a un secolo sconosciuto del popolo russo e della sua fede.

 
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"Vladyka: una storia breve"

Nella Foto: Il Vescovo Andronik

Dopo il termine della Divina Liturgia, Vladyka Andronik ritornava alla propria casa in una stretta via dell'antica capitale imperiale di Kyoto. La sua figura familiare era ben nota agli abitanti del vicinato, una combinazione di piccoli negozi e case private con i loro tetti inclinati di tegole, pali di legno e paraventi di carta. Mentre camminava per la via principale del suo vicinato, i cortesi negozianti giapponesi si inchinavano con rispetto a "Vladyka-san," così come tutti chiamavano quest'uomo anziano di media corporatura, il cui portamento eretto rivelava la sua vita come ufficiale del Reggimento Preobrazhenskij delle Guardie. Il dignitoso capo di Vladyka Andronik, con le sue lunghe chiome grigie e gli occhi di un azzurro pallido, si chinava al riconoscere il saluto di questo o di quel mercante e obayun di passaggio. I giapponesi rispettavano gli uomini santi, anche questo gaijin con gli occhi azzurri, chiome lunghe e fluttuante ryasa nera e croce episcopale ingioiellata. Questo sant'uomo non era come i gaijin occidentali dal naso lungo. Era un Russki, e parlava una lingua strana, che era morbida e ricca di vocali e sibilanti. La gente del vicinato aveva preso a rispettare e amare questo monaco gaijin, che era vegetariano come i loro preti buddhisti. Per i giapponesi l'odore del corpo dei mangiatori di carne dal naso lungo era ripugnante, ma Vladyka-san non era così. Era come un sant'uomo giapponese, mangiava riso e oshinko. Non conosceva donna. Non beveva liquori forti e passava molte ore in preghiera. I vicini guardavano con approvazione il suo uso di quell'oggetto che egli aveva presentato loro come il suo "ciotki," la katana che Dio gli aveva dato, così diceva Vladyka.

"Vladyka-san! Vladyka-san!" urlò un gruppo di bambini vestiti in kimono di vari colori. I bimbi scoppiarono a ridere mentre spiavano il monaco vestito di nero che camminava verso la sua casa. Corsero da lui attaccandosi al suo ampio poyak, il simbolo della sua forza spirituale che i giapponesi chiamano ki. Vladyka Andronik voleva bene a questi bambini e di solito riempiva le profonde tasche della sua lunga ryasa con piccoli giocattoli e dolci di riso. Alzò le mani in alto come per arrendersi, provocando un altro coro di risate deliziate. Velocemente, una dozzina di mani perquisirono le tasche con avidità e tirarono fuori dolci di riso, rompicapo, bambole e altri giocattoli. "Arigato gozaimasu Vladyka-san!" dissero i bambini mentre si inchinavano a lui. Vladyka Andronik sorrise e li benedisse. Quindi essi si dispersero per tornare a casa per il pasto di mezzogiorno.

Entrando in casa, fu salutato dalla governante, Mitsuko, la figlia di un fattore del nord. Era una giovane donna simpatica di circa trentacinque anni, dalla voce soave e dal volto tondo. Aveva un figlio, Gorobei, che era un gran favorito di Vladyka Andronik. Il marito di Mitsuko era stato un soldato nella recente guerra in Manciuria, ed era stato ucciso a Port Arthur. La coppia era stata battezzata dal riverito Vescovo Nikolai, l'Apostolo del Giappone. Vladyka aveva celebrato il matrimonio di Mitsuko e Yoshie con i loro nomi cristiani di Maria e Yuri. Allo scoppio della guerra tra l'Impero russo e il Paese del Sol Levante, Sua Grazia Nikolai, nei suoi sermoni alla cattedrale di Tokyo esortò i cristiani giapponesi a servire e obbedire al loro Imperatore. Quindi si ritirò dal servizio pubblico per tutta la durata della guerra.

Quando il Dipartimento della Guerra inviò un messaggero a casa di Vladyka Andronik, tutti sapevano che era per qualcosa di brutto. Leggendo il messaggio che il solenne messaggero le offrì con le sue scuse, Mitsuko cadde a terra singhiozzando. Vladyka Andronik la sollevò e la lasciò sfogare la propria disperazione piangendo sulla sua spalla. C'era una certa qualità di stoicismo nello spirito giapponese, che Vladyka Andronik ammirava profondamente. Una volta che Mitsuko si asciugò le lacrime con il proprio fazzoletto di cotone rosso, iniziò a sorridere e si profuse in scuse a Vladyka per il suo scoppio di dolore, e iniziò velocemente a preparare il pasto serale in cucina. I giapponesi, scoprì Vladyka Andronik, erano tanto intensamente emotivi quanto i russi, ma erano molto più capaci di fare buon viso a cattiva sorte. Quanto più erano feriti, tanto più erano in grado di sorridere. Del tutto diverso era lo stile drammatico russo.

Mitsuko si inginocchiò e tolse gli stivali a Vladyka Andronik, offrendogli le sue pantofole. Uno dei tratti del popolo giapponese che il vescovo russo aveva preso ad apprezzare era la loro impressionante pulizia. I russi ordinari si facevano il bagno ogni sabato sera, ma in Giappone il bagno era quotidiano. Non era ammissibile la sporcizia in casa e tutti portavano pantofole e calze speciali chiamate tabi sui tappeti puliti detti tatami.

Vladyka Andronik aprì lo schermo (shoji) del soggiorno principale, ed entrò sulla veranda dal pavimento di legno. Qui i giapponesi sono soliti intrattenere i vicini e gli stranieri o sedersi a riflettere sulla natura e sull'universo. Si sedette sulla veranda secondo lo stile giapponese, e attese che Mitsuko gli portasse una bottiglia di sake caldo e una tazza. La ringraziò con gratitudine e sorseggiò il vino di riso mentre sedeva sulla veranda, a prendere la piacevole brezza di un giorno sereno di primavera a Kyoto.

Era il Giorno dei Ragazzi nell'Impero del Giappone. E Vladyka Andronik poteva vedere, tutto intorno alle case del vicinato, festoni di carta a forma di carpe, chiamati koinobori. In questa occasione venivano fatti fluttuare su aste di bandiera. Vladyka ammirava le carpe di carta increspata, dipinte di nero, di rosa e di blu, con scaglie bianche geometriche. Al passaggio del vento primaverile, udiva il suono teso dei festoni e dei nastri che sbattevano.vivacemente. Gli alberi di pesco erano in fiore. C'era una dolcezza nelle primavere giapponesi che faceva un contrasto severo con le primavere russe che aveva conosciuto a casa a San Pietroburgo.

In Giappone, la carpa era un simbolo speciale per i ragazzi perché rappresentava le virtù virili. La carpa era il più coraggioso dei pesci, che risaliva a nuoto le cascate. Quando veniva pescata e messa sul banco per essere tagliata, la leggenda giapponese diceva che la carpa non tremasse. Queste erano qualità che incarnavano lo Yamato Daimashi, lo spirito giapponese. Come missionario in mezzo a questo antico popolo orgoglioso, sofisticato e impeccabilmente educato, Vladyka Andronik aveva imparato dal suo mentore, Sua Grazia Nikolai, a rispettare sempre la loro cultura e dignità, che essi stimavano più della vita.

Prima che Dio lo chiamasse alla vita angelica, era stato un ufficiale nel reggimento Preobrazhenskij delle Guardie. Nel mondo era stato il principe Vsevolod Andreevich Vorontsov. La sua famiglia lo aveva inviato all'estero, a Parigi e Berlino, per completare la sua istruzione. Quindi, dopo un giro del mondo, ritornò in Russia a ottenere la sua carica nel reggimento. Durante il suo giro del mondo, il giovane principe Vsevolod aveva visitato per la prima volta il Giappone durante i primi turbolenti anni della Restaurazione Meiji. La nazione era letteralmente in guerra civile. Anche allora, pur non conoscendo nulla del linguaggio e della cultura che avrebbe padroneggiato in anni futuri, il principe Vsevolod, come aristocratico russo e ufficiale delle guardie, istintivamente ammirava la puntuale cortesia, il freddo coraggio e la calma dignità dei samurai e dei signori feudali giapponesi. Un popolo disciplinato e pronto al sacrificio come i giapponesi, pensò tra sé, avrebbe potuto un giorno dominare il mondo.

Allo scoppio della Guerra turca, il principe Vsevolod entrò immediatamente tra i volontari russi per aiutare i propri fratelli ortodossi a rovesciare il giogo turco. Durante una convalescenza per ferite a Yalta, incontrò una giovane baronessa proveniente dalla Curlandia, Irina Von Traubenberg. Si innamorarono, e si fidanzarono dopo un vorticoso corteggiamento. Ella gli diede una ciocca dei suoi capelli biondi e un suo ritratto, che portò sui campi di battaglia in Bulgaria. Alla fine della guerra, tornò a Yalta a reclamare la sua promessa sposa, solo per scoprire dai suoi genitori afflitti che era morta di febbre tifoidea. Lo sconvolgimento dovuto alla sua morte avrebbe preparato il principe Vsevolod all'eternità. Devastato nell'animo, chiese una licenza dall'esercito e si recò a Optina Pustyn, dove viveva il santo starets Amvrosij. Una notte il principe Vsevolod partecipò alla funzione della Compieta dei monaci. Seguendo le forme scure e incurvate intorno alla chiesa per venerare le icone, sentì un forte desiderio di abbandonare il mondo delle spade e dei cannoni e di entrare al servizio di Dio, così come aveva un tempo desiderato essere il marito di Irina. Due notti dopo, lo starets ricevette il principe Vsevolod nella sua cella, dove bevvero tè e si tuffarono in quella sorta di discussione da cuore a cuore, della quale i russi sono specialisti. Lo starets gli disse, "Volodya, se è la volontà di Dio, Egli ti farà crescere il desiderio per la vita angelica. Se no, puoi servirlo altrettanto bene nel mondo come laico. Ricorda, mio caro, c'è solo una vita che ci tocca vivere, sia che siamo vescovi o preti, monaci o laici, siamo chiamati a vivere la vita in Cristo."

E così lo starets Amvrosij diede al principe una benedizione per tornare a Optina come novizio (poslushnik). Il principe Vsevolod rassegnò le dimissioni, che i suoi fratelli ufficiali furono restii ad accettare, poiché gli volevano bene per la sua buona natura. Alla sua festa di addio, gli ufficiali del suo reggimento gli chiesero: "Ricordati di accendere una candela per noi, Volodya!"

Con il passare del tempo, il monaco Vitalij (questo fu il suo nome monastico) ricevette una benedizione per diventare missionario in quella terra che lo aveva affascinato nella sua gioventù. Si impegnò in un programma intensivo di lingua e cultura giapponese all'Università di San Pietroburgo, e quindi intraprese il lungo, laborioso percorso attraverso alle vaste distese della santa Russia fino a Vladivostok. Da quell'accidentato porto di mare, si imbarcò per il Giappone, dove fu ricevuto dal santo Vescovo Nikolai.

Gli anni passarono nel ministero pastorale al popolo giapponese che egli prese ad amare. Il Santo Sinodo lo fece vescovo assistente del Vescovo Nikolai. Una volta ogni pochi anni riceveva una licenza per tornare in Russia a raccogliere fondi per la Chiesa giapponese. Teneva conferenze, pubblicava diversi libri, e visitava la famiglia e i vecchi amici. Ma per quanto amasse la Russia, trovava che ogni volta che ritornava alla sua patria (Rodina), questa gli sembrava sempre più estranea, come vecchi parenti che uno ama per abitudine e per legami antichi, ma con cui non c'è più molto da dire dopo il primo scambio iniziale di cortesie. Ritornava sempre in Giappone con molta gratitudine.

Il sole tramontava in Occidente. Boccioli fragranti di melo andavano alla deriva dagli alberi. Le casalinghe si affrettavano verso casa con le provviste per la cena che avrebbero cucinato sul focolare centrale, dove in un grande calderone nero il cibo bolliva in continuazione su un fuoco scoppiettante. E improvvisamente Vladyka Andronik capì perché amava tanto il popolo giapponese. Egli aveva condiviso il dolore di Mitsuko per la perdita del Servo di Dio Takimatsu "Yuri" Yoshie. Ma ora ricordava un'altra sera nel rigido inverno del 1905. Il console russo a Kyoto, un uomo dai baffi rossi e dai modi molto gentili, aveva bussato alla sua porta. Un servitore era venuto all'entrata ad accogliere il console nel cortile. L'aspetto tetro dell'uomo diceva tutto. Il console si diresse lentamente e deliberatamente verso la casa. Vladyka Andronik uscì in vesti episcopali e benedisse il console, che gli baciò la mano destra.

"Vladyka," disse il console lentamente. "Ho il dovere doloroso di informarla della morte in battaglia di suo nipote, il conte Aleksandr Petrovich Bobrinskij. È morto valorosamente alla testa del suo reggimento il 24 Febbraio alla battaglia di Tsinketchen. Il Generale Rennenhampf lo ha elogiato con calore nei suoi dispacci. Voglia accettare a nome del nostro Sovrano le mie più profonde condoglianze per la sua perdita."

Dopo che il console ebbe preso il tè e si fu ritirato, Vladyka Andronik si recò al suo luogo preferito sulla veranda e fissò la luna che brillava. Iniziò a recitare le preghiere per il suo nipote morto, e rimase in silenzio. Mitsuko e gli altri servitori si avvicinarono con cautela al loro signore. Si misero tutti in ginocchio e si piegarono a terra.

"Sumimasen Vladyka-san!" gridò la servitù all'unisono.

Vladyka Andronik fu tanto toccato dalla loro dichiarazione congiunta di rimorso, dalla loro offerta di scuse per la morte del suo erede nella guerra contro l'Impero del Giappone, che gli scesero lacrime dalle guance. Rapidamente, Vladyka Andronik si alzò in piedi, raggiunse i suoi sorpresi servitori e mise attorno a loro le braccia permettendo alle lacrime di scendere.

"Vladyka-saaaaaan! Vladyka-saaaan!"

Il ricordo di Vladyka Andronik venne interrotto. Egli vide il piccolo Gorobei, il Servo di Dio Grigorij (chiamato così da San Gregorio di Nazianzo), che stava accanto a un albero di pesco. Il suo aquilone, con un feroce samurai dipinto, si era impigliato tra i rami.

Il bimbo guardava con aria implorante il suo amato vescovo.

"Vladyka-saaaaan! Il mio aquilone si è impigliato tra i rami! Mi puoi aiutare?

Vladyka Andronik si asciugò una lacrima ribelle e sorrise alla sua maniera gentile. "Arrivo, Grisha! Vladyka salverà il tuo aquilone!"

Il vescovo dai capelli grigi si alzò e saltò giù dalla veranda come un giovane ufficiale delle guardie, e camminò allegramente in direzione del bambino.


Ringraziamo Alphonse Vinh, di Washington D.C., che ci ha messo a disposizione la versione inglese di questo racconto

 
Come fare un Acatisto a casa

C'è un solo inno Acatisto che è assegnato alle funzioni della Chiesa, ed è l'Acatisto alla Madre di Dio, che si fa al quinto sabato di Quaresima. Tuttavia, ci sono molti acatisti che sono stati scritti per uso privato. I russi li amano in modo particolare.

Un grande vantaggio che hanno è che costituiscono un servizio di una certa portata per varie commemorazioni, e non dovete preoccuparvi troppo di come metterlo insieme.

Ma come si fa un acatisto a casa? Ci sono modi più elaborati per farlo e modi più semplici. Potete combinare un acatisto con un canone o diversi canoni. Di fatto, come parte della preparazione per la comunione del clero (e di molti pii laici) ci sono tre canoni e un acatisto. Il modo meno complicato per seguire questa pratica è quello di avere un testo completo, piuttosto che metterli insieme al volo. Il Monastero della Santissima Trinità a Jordanville, New York, pubblica un opuscolo in inglese a questo scopo. Potete anche trovare quel testo disposto nel loro Horologion.

Il complicato ordine di servizio per fare un acatisto a casa si può trovare nell'appendice del Libro di Preghiere di Jordanville, oppure qui. Tuttavia, un modo semplice con cui potete fare un acatisto è semplicemente quello di prendere la regola di san Pacomio, e invece di fare la preghiera di Gesù per 100 volte, inserire in quel punto l'acatisto che desiderate fare.

Non tutti gli acatisti possono essere cantati usando la stessa melodia, ma per la maggior parte gli acatisti sono scritti seguendo lo schema dell'Acatisto alla Madre di Dio, e così potete usare le stesse melodie che sono fatte per quelli.

In questo video potete sentire un adattamento comune in lingua inglese di ciò che si fa nella pratica russa.

Ci sono molti acatisti disponibili online, e in inglese due due volumi sono pubblicati da Jordanville:

Libro degli Acatisti, Volume I: Al nostro Salvatore, Madre di Dio e vari Santi

Libro degli Acatisti, Volume II: Al nostro Salvatore, allo Spirito Santo, alla Madre di Dio e ai vari Santi

Questi volumi in appendice hanno anche una musica che funziona per la maggior parte degli acatisti che vi sono contenuti.

Gli acatisti sono particolarmente utili se non potete frequentare le funzioni di una festa o della commemorazione di un santo, a causa della distanza, o forse perché la vostra parrocchia non ha servizi per una commemorazione particolare. Ci sono molti acatisti che non sono ancora stati tradotti, e molti sono in corso di traduzione... se ne compongono anche di nuovi, e quindi se cercate con attenzione, è probabile che possiate trovare un acatisto per le più importanti commemorazioni e se non ce n'è uno ora, ce ne potrebbe essere uno in futuro.

 
Il martirio di Pietro l'Aleuta: storia o leggenda?

I santi ortodossi “recenti” dei paesi occidentali costituiscono un fenomeno di enorme interesse per i fedeli che vivono in questi paesi: infatti non solo collegano le proprie culture con l’Ortodossia di tutti i tempi, ma sono la prova che la santità è un cammino aperto a tutti, anche a chi testimonia la propria fede in situazioni di relativa debolezza e irrilevanza.

Riconoscere figure di santi ortodossi può essere difficile in luoghi dove il cristianesimo ortodosso è minoritario, o è appena arrivato. In tal caso, il principio degli agiografi ortodossi deve essere la rigorosa massima che San Dimitri di Rostov aveva posto sulla prima pagina del suo testo delle Vite dei santi: POSSA IO NON RACCONTARE ALCUNA BUGIA RIGUARDO A UN SANTO.

Negli ultimi anni, si è acceso un certo dibattito intorno a una figura canonizzata di recente: il martire Pietro l’Aleuta, canonizzato nel 1980 dalla Chiesa Russa all’Estero e dalla diocesi d’Alaska della Chiesa Ortodossa in America.

Icona di San Pietro l’Aleuta

Per quelli che ancora non conoscono la storia di San Pietro l’Aleuta, rimandiamo ai dati biografici e storiografici essenziali contenuti nelle pagine italiane di Wikipedia, che offre un resoconto abbastanza dettagliato e in linea di massima corretto.

pagina su Pietro l'Aleuta da Wikipedia

Molti dubbi storici sulla storia del santo sono circolati negli anni successivi alla canonizzazione, e hanno preso forma in un recente studio storiografico di padre Oliver Herbel (prete della Chiesa Ortodossa in America), che si è spinto addirittura a negare l’esistenza del martire.

Il sito Orthodox History ha esaminato la vicenda di San Pietro l’Aleuta con molta attenzione. A beneficio dei lettori italiani, riportiamo un breve sunto dei dati storici a nostra disposizione, e delle argomentazioni contrarie e favorevoli alla veridicità del racconto del martirio.

FONTI PRIMARIE

Le fonti primarie a noi disponibili si riducono a due rapporti fatti un anno dopo la trascrizione della storia del martirio fatta dall’indiano Kykhklai (o per usare il nome russificato, Keglii Ivan), unico testimone oculare della vicenda. Non abbiamo la trascrizione originale del 1819, ma abbiamo i due rapporti del 1820, uno dell’ufficiale Simeon Yanovsky ai suoi superiori a San Pietroburgo, e uno del capo della compagnia russo-americana allo Zar. Il successivo documento presentato come fonte primaria è la lettera del 1865 di Yanovsky all’abate Damaskin del monastero di Valaam.

CONTRO

La lettera del 1865 è una vera agiografia, a differenza del rapporto fatto da Yanovsky nel 1820, che si limita a una breve narrazione del racconto di Keglii Ivan. La lettera dimostra da certi dettagli (per esempio, l’autore non riesce a ricordare il nome alaskano di Pietro) che Yanovsky non aveva più il testo del suo rapporto originale a disposizione.

PRO

La tendenza a colorire le narrazioni di un alone romantico in tarda età è una costante del comportamento umano, ed è naturale che Yanovsky – a distanza di 45 anni e senza il rapporto originale a sua disposizione – abbia abbellito i propri ricordi. Resta il fatto che nel rapporto del 1820 Keglii Ivan è descritto come persona che merita fiducia.

FONTI ORALI

CONTRO

A differenza di altre storie dell’Alaska ortodossa (per esempio il martirio di san Yuvenalij), la storia di san Pietro l’Aleuta non ha il sostegno di tradizioni orali (di grande importanza nelle culture dell’Alaska).

PRO

Nel caso del martirio di san Yuvenalij, testimoniato da un intero villaggio, la memoria comune ha permesso la tradizione orale. Nel caso di Pietro e di Keglii Ivan, un singolo testimone vissuto in prigionia per cinque anni dopo l’episodio del martirio può non essere stato sufficiente a creare nel villaggio nativo di Kodiak le basi per un racconto tramandato.

DATI RIPORTATI

L’area dei dati relativi al martirio è quella che ha fatto sorgere le maggiori obiezioni negli ultimi anni.

CONTRO

Il racconto di Keglii Ivan presenta alcuni dati incoerenti o addirittura impossibili: parla di missionari gesuiti in California (l’ordine dei gesuiti, soppresso da alcuni decenni, era stato reintegrato solo l’anno prima del martirio di Pietro l’Aleute, e in quegli anni non ci sono resoconti di alcuna presenza di gesuiti in California o nei dintorni); l’uso della tortura sui nativi era contrario alle leggi spagnole del tempo, con riferimenti specifici alle conversioni forzate di nativi; infine, è citata una missione di San Pedro, di cui non si ha alcun resoconto storico.

PRO

La distinzione tra gesuiti e francescani poteva non sfuggire a un ufficiale russo, ma certamente poteva creare confusione in un prigioniero indiano recentemente convertito. La proibizione della tortura non escludeva certamente che qualche elemento delle colonie spagnole in California ricorresse ad abusi. San Pedro è un effettivo toponimo dei dintorni di Los Angeles, e all’epoca dei fatti contestati era un porto: un luogo del tutto plausibile – a prescindere dall’effettiva presenza di una missione – per la custodia di prigionieri catturati lungo la costa.

STORIOGRAFIA

CONTRO

Lo storico dell’Alaska ortodossa, padre Michael Oleksa, ignora virtualmente il martirio di san Pietro L’Aleuta nelle sue opere storiografiche.

PRO

padre Michael Oleksa menziona appena di passaggio san Pietro nel libro Alaskan Missionary Spirituality. Tuttavia ha parlato a lungo di san Pietro l’Aleuta in conferenze pubbliche, teorizzando che la responsabilità della morte del santo sia da attribuire a ufficiali del governo spagnolo, piuttosto che a missionari cattolici romani.

AMBIENTE STORICO

CONTRO

La storia del martirio non è corroborata da racconti di torture sui nativi, né da specifici resoconti di atti di ostilità tra russi e spagnoli in California.

PRO

Esiste un singolo caso, riportato da un articolo del padre gesuita Raymond Bucko su san Pietro l’Aleuta (che peraltro mette in seria questione il martirio) di un assalto spagnolo del 1815 a una nave della compagnia russo-americana, da cui alcuni nativi dell’Alaska furono presi prigionieri dagli spagnoli. Non ci sono ulteriori dati, ma l’anno e le circostanze generali corrispondono a quelle del racconto di Keglii Ivan.

FONTI CATTOLICHE

CONTRO

Una lettera del 1816 tra due missionari cattolici indica che l’approccio cattolico romano ai nativi alaskani era di relativa tolleranza e indifferenza, piuttosto che di persecuzione, e fa apparire insostenibile l’idea di missionari dediti a convertire con la tortura un prigioniero ortodosso dall’Alaska.

PRO

La lettera del 1816 è una singola fonte, e si dovrebbero cercare più a fondo negli archivi delle missioni cattoliche e delle autorità secolari spagnole prove che verifichino se questa attitudine fosse davvero prevalente. Se i missionari cattolici possono essere scagionati dalla responsabilità del martirio, si dovrebbero cercare altrettante prove a discapito per le autorità secolari.

DIVARIO LINGUISTICO

CONTRO

Non ci sono prove che san Pietro l’Aleuta e i suoi presunti persecutori potessero conversare nella stessa lingua.

PRO

I due rapporti del 1920 non parlano di lunghe conversazioni, ma solo del fatto che a Pietro fu detto di accettare il battesimo cattolico, e che egli rifiutò. Nel secondo dei rapporti si accenna anche al fatto che i missionari spagnoli si erano serviti di esuli dall’isola di Kodiak come intermediari quando ebbero a che fare con Pietro e Keglii Ivan.

MOTIVAZIONI DEI RESOCONTI

CONTRO

Come tutti i resoconti che si basano sulla testimonianza di una sola persona, dobbiamo mettere tutta la nostra fiducia in chi ha trascritto il resoconto, in particolare il giudizio di Yanovsky su Keglii Ivan, “Non è il tipo di persona che si inventa le cose”. Non si possono escludere anche motivi conflittuali degli ufficiali russi per ottenere aiuto contro gli interessi spagnoli nell’America del nord.

PRO

Le tensioni riguardo al commercio delle pellicce giustificano difficilmente una storia di martirio tanto dissonante dai dati più comunemente registrati in quel periodo. Ancor minori sembrano le ragioni di mentire che avrebbe avuto il presunto testimone del martirio: proprio per la stranezza del racconto, Yanovsky sembra voler fare uno sforzo speciale per convincere i suoi superiori del fatto che il testimone è degno di fede.

LA CANONIZZAZIONE

Questo settore è quello che ha fatto sorgere il più profondo senso di autocritica tra gli ortodossi.

CONTRO

Il 1980 coincide con la beatificazione della prima santa nativa dell’America del Nord da parte dei cattolici, Caterina Tekakwitha (1656-1680). La figura di Pietro l’Aleuta, riscoperta recentemente nel corso degli articoli agiografici sul beato monaco Herman dell’Alaska (+1837), apparsi negli anni ‘70 sulla rivista The Orthodox Word, sembra essere stata usata per affiancare di prepotenza un santo “nativo” per non sfigurare rispetto ai cattolici.

PRO

Una canonizzazione prematura non è una procedura meritevole nella Chiesa ortodossa; in quegli anni le due chiese che proclamarono santo il nuovo martire (Chiesa Russa all’Estero e Chiesa Ortodossa in America) erano ai ferri corti l’una con l’altra, e a diverso titolo non potevano contare sull’apporto della Chiesa madre in Russia. La mancanza di approfondimento nella canonizzazione ha quanto meno una motivazione nelle difficoltà del periodo storico contingente.

Come si può vedere, il dibattito è complesso e profondo e, anche se si possono muovere tutte le legittime obiezioni a una canonizzazione che poteva non essere tra le più “sicure” per dati di attendibilità storica, bisogna essere molto cauti a scartare l’intera questione come una leggenda, arrivando perfino a sostenere – piuttosto dogmaticamente – che san Pietro l’Aleuta non è mai esistito.

Certamente, la storia del martire di Kodiak ha anche una fortissima ricaduta nel campo delle relazioni tra i cristiani. Vi si parla di un innocente forzato ad accettare un battesimo a lui estraneo con la tortura e la morte. Ci troviamo di fronte a uno di quei casi di “santi contestati” come Giosafat Kuntsevich e Andrej Bobola (da parte cattolica) o Atanasio di Brest e i 23 martiri di Zografou (da parte ortodossa) che certamente suscitano perplessità (quand’anche non conflitti) in ogni cammino di dialogo tra Roma e l’Ortodossia.

Ci auguriamo di poter approfondire ulteriormente questo tema delle canonizzazioni, sia perché esso può offrire un ambiente di autentico confronto tra cristiani, sia perché – come insegna il caso di san Pietro l’Aleuta – prima o poi sarà richiesto a tutti gli ortodossi dei paesi occidentali lo sviluppo di una mentalità sana per riconoscere e venerare i propri santi locali.

 
Slujba pentru împăraţi la începutul Utreniei

Rânduiala Utreniei de astăzi începe cu un „prolog”, care are structura unei slujbe aparte, şi care în mod evident constituie o rugăciune pentru împărat. Mai mult decât atât, aceasta este o rugăciune pentru un împărat în viaţă, în comparaţie cu ultima parte a Miezonopiticii, care este o rugăciune pentru împăraţii-ctitori adormiţi. Studiul istorico-liturgic al maicii Vassa Larin ne va ajuta să înţelegem sensul acestei părţi a Utreniei, care a devenit pentru tot spaţiul ortodox o relicvă anacronică. 

Fără îndoială, „slujba pentru împărat”, plasată înaintea Hexapsalmului matinal, a devenit o introducere care acompaniază cădirea mare a bisericii, fără ca cineva să se mai gândească la sensul pentru care au fost aleşi psalmii 19 şi 20 sau acele tropare „ale Crucii” care, în originalul grecesc, se referă tot la împărat. În perioada pascală cădirea este însoţită de intonarea imnului „Hristos a înviat” (cântat de 3 sau mai multe ori), iar în cazul unirii Vecerniei cu Utrenia (în cadrul Privegherii) „slujba împărătească” este suprimată în primul rând pentru că nu este nevoie de vreo cădire în acel moment; adică nu este nevoie de acel „ceva” care să însoţească cădirea bisericii, întrucât, la Priveghere, se fac 4-5 cădiri mari ale Bisericii plus alte cădiri mai mici.

Şi dacă tot nu putem fără acel „ceva” care să însoţească cădirea înainte de Hexapsalm (atunci când nu avem Priveghere), cred că ar fi mult mai potrivit să se citească primii doi sau chiar toţi trei psalmi ai Ceasului I (uitat definitiv în multe parohii), mai ales că şi ora cea mai potrivită pentru Ceasul I este anume începutul Utreniei şi nu sfârşitul ei. Cel puţin psalmii 5 şi 89 fac referire clară la rugăciunea de dimineaţă şi sunt în permanenţă actuali şi potriviţi.

Iar psalmii 19 şi 20, împreună cu acele tropare „ale Crucii” şi ectenia întreită, aşa cum observăm din studiul maicii Vassa şi din explicaţiile noastre, pot fi „arhivate”, întrucât sunt lipsite de sens în contextul actual. (Un pic diferită este situaţia ultimei părţi a Miezonopticii, care demult şi-a pierdut uzanţa strict „imperială”, devenind o slujbă generală pentru ctitori şi pentru toţi cei din veac adormiţi.)  

În prezent, nici o ţară ortodoxă nu are monarh „uns” (împărat, rege, ţar sau domnitor), ci toate sunt republici, al căror conducător politic este ales de popor sau de parlament. Mai mult decât atât, statele Europei, inclusiv cele ortodoxe, se declară a fi laice şi separate de Biserică, chiar dacă unele dintre ele au careva relaţii speciale cu Biserica locală.

Cu toate acestea, cultul ortodox abundă de menţiuni şi chiar slujbe speciale referitoare la împăratul Noii Rome (Constantinopolul), iar Bisericile locale mai tinere au preluat aceste texte şi rânduieli pentru a arăta că ţările lor sunt moştenitoare şi continuatoare ale Bizanţului; adică un fel de „Bizanţ după Bizanţ”, după expresia lui Nicolae Iorga. Între timp, chiar şi această continuitate a dispărut…

Biserica, însă, dintr-o inerţie şi o sfidare crasă a realităţii, încă se roagă pentru împăraţi şi domnitori care nu mai există de multe secole, adaptând doar unele cereri ecteniale, deşi am auzit preoţi greci şi ieromonahi aghioriţi, care încă pomenesc basileul, de parcă nici n-ar fi auzit că Bizanţul a căzut deja de şase secole. Şi mă întreb: toate acestea sunt manifestări ale unei nostalgii lipsite de realism sau, mai degrabă, rezultatul ignoranţei şi al incapacităţii de a ne adapta la realităţile istorice în care Dumnezeu ne-a rânduit să trăim?

 
Un'icona miracolosa della Madre di Dio in visita a Torino

il 26 dicembre 2012 ha fatto un tappa presso la nostra chiesa un'icona miracolosa che in questi giorni sta viaggiando in diverse località dell'Europa occidentale.

L'icona è una riproduzione della tipologia della Madre di Dio detta "Umilenie" (tenerezza), nota perché san Serafino di Sarov (che la chiamava "gioia di tutte le gioie"), pregò tutta la vita di fonte a una di queste icone (oggi nota come Seraphimo-Diveevskaja) e morì di fronte ad essa nel 1833.

L'icona che ci ha visitato ha iniziato a effondere miro nel novembre 1999 nel villaggio di Lokot' nella regione di Brjansk in Russia, e da allora effonde miro in continuazione, in un modo non dissimile da quello delle ossa di san Nicola a Bari. Sul retro dell'icona è apparsa un'immagine speculare della madre di Dio, e la teca dell'icona è stata sistemata in modo da permettere la venerazione anche a questa seconda immagine.

Nel corso degli anni recenti, ci sono stati casi di guarigione di fedeli che hanno pregato davanti all'icona.

Foto di Alexander Budkevich e di Tatjana Mrkic

 
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Despre legătura dintre spovedanie şi împărtăşire

Întrebare din partea revistei „Kifa” (Moscova): Părinte, Petru! În ultima perioadă, în blogosfera ortodoxă rusă, tot mai intens se discută problema legăturii dintre mărturisirea păcatelor şi împărtăşirea euharistică. Cum au ajuns să fie legate aceste Taine între ele? De ce, după părerea Dumneavoastră, problema a ajuns să fie atât de intens discutată? 

Discuţiile pe marginea acestui subiect, în mediul bisericesc rusesc, se poartă cel puţin din anul 2006 şi acest lucru este îmbucurător. Am urmărit cu atenţie tot ce s-a scris la această temă şi, după părerea mea, majoritatea teologilor care s-au pronunţat la acest subiect pun problema foarte corect şi vin cu propuneri care se înscriu destul de reuşit în duhul Tradiţiei Bisericii, precum şi în realitatea vieţii bisericeşti de astăzi.

După cum vom vedea mai jos, grecii nu au o astfel de problemă, dar la noi, unde împărtăşirea sistematică abia este restabilită pe ici-pe colo, se constată că aceasta este împiedicată de „regula” mărturisirii laicilor înainte de fiecare împărtăşire. De multe ori, mărturisirea este făcută în mare grabă sau formal, transformându-se, în cel mai bun caz, într-o simplă binecuvântare pentru împărtăşire. Preoţii sinceri şi conştienţi pe bună dreptate ridică această întrebare, mai ales că ei înşişi nu se spovedesc înainte de fiecare împărtăşire, iar „ipocrizia dublului standard” nu poate continua la nesfârşit. Aşa cum spun Sfinţii Ioan Gură de Aur şi Nicodim Aghioritul, regulile privind pregătirea pentru împărtăşire (post, rugăciune, spovedanie – dacă este cazul) trebuie să fie identice atât în cazul clericilor, cât şi al credincioşilor. Clericii nu au și nu pot avea nici un fel de privilegii la primirea împărtăşirii, ci numai obligaţii suplimentare legate de învăţare şi slujire. Sper că acest lucru va fi înţeles mai bine din abordarea istorico-liturgică şi duhovnicească pe care ne-am propus să o facem în cele ce urmează. 

1.     Din punct de vedere istoric, putem spune că practica mărturisirii păcatelor şi a dezlegării lor de către un urmaş al apostolilor (episcop sau un preot delegat) este de origine apostolică (sec. I) şi ea a existat dintotdeauna în Biserică, numai că în decursul timpului această practică a avut înţelesuri şi forme diferite. Mărturiile istorice din primele trei-patru secole sunt lacunare şi confuze, dar deja din sec. IV-V atestăm existenţa a două tipuri total diferite de mărturisire a păcatelor, care mai târziu „au fuzionat”, rezultând practica spovedaniei de astăzi. Mai exact:

a)   Exista o mărturisire care se făcea doar în cazul păcatelor mari: idolatrie, apostazie, curvie, ucidere, furt şi alte păcate considerate „mari” sau „de moarte” (I Ioan 5:16). O astfel de mărturisire era acceptată o singură dată după Botez (cf. Păstorul Herma, Tertulian ş.a.) sau cel mult de 2-3 ori în viaţă, iar creştinii care-şi luau în serios viaţa de după Botez, deşi se împărtăşeau la fiecare Liturghie duminicală sau chiar zilnică, practic nu se mărturiseau niciodată. Până spre sfârşitul sec. IV, în cazul păcatelor ştiute de toţi, această mărturisire se făcea public, iar în cazul păcatelor necunoscute comunităţii, acestea erau mărturisite în taină episcopului sau unui preot delegat de acesta. În urma mărturisirii, episcopul sau chiar sinoadele locale (cf. Canonul 5, Sin. I Ecumenic) hotărau oprirea de la împărtăşirea cu Sfintele Taine a penitentului respectiv pentru o perioadă determinată de timp (de la câteva luni până chiar la 15-20 de ani). În funcţie de pocăinţa penitentului, termenul de oprire de la împărtăşire putea fi scurtat sau prelungit. Primirea la împărtăşire se făcea automat, după expirarea termenului care a fost rânduit prin epitimie, fără careva rugăciuni sau formule speciale de dezlegare, iar în unele tradiţii locale – prin punerea mâinilor episcopului sau prin ungerea cu untdelemn sfinţit. 

b)  Exista şi o spovedanie monahală, care era făcută în faţa părintelui duhovnicesc („stareţ /gheronda”), de cele mai multe ori nehirotonit (monahie-stareţă, în cazul mănăstirilor de maici), în vederea mărturisirii gândurilor şi a primirii unor sfaturi personale privind lupta duhovnicească. Această mărturisire nu viza păcatele mari, care ar fi implicat oprirea de la împărtăşire, şi care țineau de competenţa episcopului locului.

Conform izvoarelor istorico-liturgice, nici una din cele două practici de mărturisire nu a avut vreo rânduială liturgică până în sec. XI. Mai mult decât atât, abia în sec. XII, mai întâi în Apus, apoi şi în Răsărit, s-a răspândit ideea că mărturisirea păcatelor în prezenţa episcopului/preotului ar fi singura formă de pocăinţă şi că păcatele nedezlegate de episcop/preot nu se iartă. Ambele idei sunt greşite şi periculoase, şi ele au constituit cauza principală a „fuziunii” celor două tipuri de mărturisire, care erau practicate nu doar de monahi, ci şi de oamenii din lume. Suprapunerea celor două tipuri de mărturisire au denaturat sensul fiecăreia dintre ele, iar efectul nu a fost totdeauna pozitiv.   

2.    În primele trei secole, admiterea la Botez se făcea după o catehizare îndelungată, iar candidaţii trebuiau să dea dovada unei vieţi curate încă înainte de Botez. Era inadmisibil ca un creştin botezat să mai săvârşească păcate grave (I Ioan 3:9, 5:18; Evrei 6:4-6), iar dacă se întâmpla ca cineva dintre ei să săvârşească vreun păcat grav, acesta era excomunicat din comunitatea euharistică (I Cor. 5:1-5), iar după un timp, dacă aducea dovada pocăinţei, era iarăşi primit (II Cor. 2:3-11). Acest lucru nu înseamnă că primii creştini nu au aveau conştiinţa păcătoşeniei, ba din contră (I Ioan 1:8-10), numai că pocăinţa pentru păcate era văzută ca un proces continuu, care are o etapă radicală înainte de Botez, apoi devine o lucrare duhovnicească permanentă pentru restul vieţii. Un accent deosebit se punea pe „cercetarea conştiinţei” (I Cor. 11:28), iar păcatele mici pe care le făcea fiecare „le mărturiseau unii altora” şi „se rugau unii pentru alţii” (Iacov 5:16; I Ioan 5:16-17). Bineînţeles, cel mai mare accent se punea pe pocăinţa zilnică adusă înaintea lui Dumnezeu, în special înainte de împărtăşirea cu Sfintele Taine (cf. Didahia 4:14), iar iertarea pentru acele păcate se dădea prin însăşi împărtăşirea cu Trupul şi Sângele lui Hristos, care este „spre iertarea păcatelor şi spre viaţa de veci”. Dacă aţi observat, în această scurtă descriere am folosit verbe la trecut nu pentru că cele expuse n-ar mai fi valabile, ci pentru că înţelesul de odinioară a fost în mare parte pierdut şi cu greu mai poate fi recuperat.

După Edictul de la Milan (anul 313), în sânul Bisericii au început să fie primiţi toţi doritorii, deşi viaţa multora nu corespundea Evangheliei. Şi chiar dacă pregătirea pentru botez continua să fie făcută cu multă acrivie, numărul creştinilor care săvârşeau păcate opritoare de împărtăşanie era tot mai mare, iar Biserica s-a văzut nevoită să dea diferite canoane care să reglementeze disciplina penitenţială. Dar chiar şi în această situaţie, mărturisirea păcatelor în prezenţa episcopului/preotului nu era o condiţie necesară împărtăşirii, ci fiecare mergea la mărturisire după cum îi dicta conştiinţa. Sf. Ioan Gură de Aur, supranumit şi „dascălul pocăinţei”, deseori face apel la cercetarea conştiinţei şi pocăinţa sinceră pentru păcate, dar rareori când prin aceasta el are în vedere mărturisirea păcatelor la preot şi, este foarte probabil, ca însuşi Sf. Ioan Gură de Aur sau Vasile cel Mare, să nu să se fi mărturisit niciodată (în înţelesul de atunci). Aceasta ar fi însemnat că au avut impedimente la slujirea clericală, dar vieţile lor afirmă contrariul, mai ales că toţi marii ierarhi din acele vremuri au fost botezaţi la maturitate şi în deplină cunoştinţă faţă de chemarea creştină căreia i-au fost fideli.  

Din păcate, prin secolul al VI-lea, dar mai ales după perioada iconoclastă, condiţiile pentru botez aproape că au dispărut, iar acest lucru a dus la introducerea unor condiţii (iniţial inexistente) pentru primirea împărtăşirii. Odată cu aceasta, a scăzut drastic şi frecvenţa împărtăşirii euharistice. Dacă în primele secole era inadmisibil ca cineva să participe la Liturghie fără să se împărtăşească(!), după secolul al VI-lea Liturghia este văzută tot mai des ca o înfăţişare de simboluri şi imagini mistice, care te pot înălţa duhovniceşte şi fără împărtăşirea euharistică. Odată cu introducerea pomenirilor nominale la Proscomidie (sec. XI-XII) şi dezvoltarea unor idei greşite despre „spălarea păcatelor” celor pomeniţi, esenţa Liturghiei a fost şi mai mult diluată, mai ales că pentru a fi pomenit la Liturghie nu era nevoie nici să posteşti şi nici să te spovedeşti, pe când pentru împărtăşire deja se cereau ambele şi încă multe altele.

În aceeaşi perioadă rânduielile monahale ale slujbelor şi posturilor devin tot mai răspândite în mediile laice, până când, în sec. XIII, tipicul monahal savait va deveni normativ pentru întreaga Biserică, iar influenţa monahală asupra vieţii întregii Biserici va culmina în perioada disputelor isihaste. Acest context istoric intern al Bisericii, suprapus cu invazia musulmană din Răsărit şi influenţa scolastică din Apus, au făcut ca oamenii să se împărtăşească tot mai rar, iar dacă doreau să o facă, ei trebuiau să urmeze practica monahală privind primirea euharistiei, mărturisindu-şi TOATE păcatele, inclusiv cele cu gândul. Monahii au început să scrie şi diferite ghiduri de spovedanie, învăţându-i pe mireni cum să se spovedească „corect”. Abia în sec. XIX, şi doar în spaţiul grecesc, forma şi frecvenţa mărturisirii au încercat o revenire la practica veche a Bisericii, aşa încât grecii de astăzi se împărtăşesc relativ des, dar merg la mărturisire doar atunci când simt nevoia, fără a fi obligaţi să se mărturisească înainte de fiecare împărtăşire. Nimeni nu neagă existenţa unor abuzuri în practica grecească actuală, dar ea corespunde mai bine vechii practici a Bisericii.

În Sfântul Munte, de exemplu, există mai multe mănăstiri în care „mărturisirea sacramentală” se practică doar de 2 sau 4 ori pe an, iar călugării se împărtăşesc de la 2 la 7 ori pe săptămână. Dacă fraţii au nevoie de anumite sfaturi de la stareţ sau vor să-şi mărturisească careva gânduri, o pot face chiar şi în fiecare zi, dar aceasta nu mai este mărturisire sacramentală, ci o simplă discuţie duhovnicească sau, dacă e cazul, una pur omenească. Nici mărturisirea sacramentală şi nici discuţiile duhovniceşti nu au loc în timpul slujbelor şi nici măcar nu în biserică. Stareţul şi fiul duhovnicesc stau de vorbă aşezaţi pe scaun, iar în cazul mărturisirii sacramentale, abia la sfârşit, stareţul ia epitrahilul şi-i citeşte rugăciunile cuvenite. Totul este foarte simplu şi personal; iar în mănăstirile de maici (dintre care multe sunt metoace ale mănăstirilor athonite), mărturisirea gândurilor se face în faţa maicii stareţe şi doar în cazul păcatelor mai grave stareţa poate trimite sora la preotul duhovnic pentru a i se citi şi rugăciunile necesare. Unii se pot întreba: dar ce fel de „Taină a Mărturisirii” este aceasta?

Trebuie neapărat să amintim că în primul mileniu creştin noţiunea de „taină sacramentală” era atribuită doar Botezului şi Euharistiei (iar toate celelalte „ierurgii” erau legate şi pecetluite de Euharistie; cf. Dionisie Areopagitul). Abia scolastica apuseană, apoi şi teologia ortodoxă (abia în sec. XIII-XIV), include în rândul „tainelor” şi pocăinţa/mărturisirea; iar prin „taina mărturisirii” nu trebuie să înţelegem „secretul mărturisirii”, care e cu totul altceva. Prin urmare, mărturisirea poate fi numită „taină” doar în sensul larg al termenului (aşa cum este şi sfinţirea apei, de exemplu), însă la modul concret ea precede toate „tainele” şi tocmai de aceea rânduiala ei nu se începe cu „Binecuvântată este Împărăţia…”, iar unele rânduieli prescriu săvârşirea ei în pridvorul bisericii sau în încăperi speciale, nu în biserică şi categoric nu în timpul Liturghiei. Dacă penitentul nu are păcate mari, mărturisirea poate fi o simplă discuţie duhovnicească, într-o atmosferă „extra-liturgică”, iar de mărturisirea sacramentală (cu rugăciuni şi dezlegări) au nevoie doar cei care prin păcate grave s-au rupt de Biserică şi doresc împăcarea cu Hristos şi Biserica.

3.   Sfânta Scriptură şi Tradiţia patristică a Bisericii noastre pune un mare accent pe creşterea noastră spirituală, lucru posibil doar printr-o maturizare a conştiinţei duhovniceşti. Bineînţeles, mărturisirea mai deasă ajută la acest lucru, dar numai pe cei din „clasa de mijloc”. Cei care vin ocazional la Biserică nu înţeleg de ce ar trebui să se mărturisească mai des sau chiar se sperie de aşa ceva, iar pe cei care sunt cât de cât înaintaţi în trăirea duhovnicească, acest lucru îi oboseşte sau le încetineşte avântul lor firesc. Mărturisirea nu trebuie să fie percepută ca o posibilitate de a primi iertare pentru păcate pe care nici nu le înţelegi sau nu lupţi în nici un fel pentru a scăpa de ele. O astfel de mărturisire devine în scurt timp un formalism amăgitor! Practica duhovnicească arată că o persoană care se împărtăşeşte câteva săptămâni la rând  cu o singură spovedanie este mai atentă la viaţa sa duhovnicească, decât cea care este chemată să se spovedească înainte de fiecare împărtăşire. Cei din prima categorie vor creşte şi vor spori duhovniceşte, înţelegând corect sensurile împărtăşirii  şi spovedaniei, pe când cei din a doua categorie vor percepe spovedania doar ca un ghişeu în care se dau (sau chiar se vând!) bilete pentru împărtăşire. Aşa se întâmplă de cele mai multe ori, deşi pot exista şi multe excepţii.

Creştinii noştri trebuie să înţeleagă că pocăinţa nu se reduce la mărturisirea păcatelor şi primirea dezlegării. Orice rugăciune şi trăire duhovnicească este pocăinţă. Aceasta nu exclude mărturisirea păcatelor în prezenţa episcopului/preotului, ci o completează şi o desăvârşeşte. Putem spune că pocăinţa este „un exerciţiu terapeutic permanent”, iar mărturisirea este „o operaţie chirurgicală”. Noi însă am ajuns să-i operăm pe oameni la tot pasul, ţinându-i într-o anestezie continuă, dar nu-i mai învăţăm cum să trăiască sănătos. Sf. Apostol Pavel îndeamnă, ca înainte de împărtăşirea cu Sfintele Taine „să se cerceteze omul pe sine însuşi şi aşa să mănânce din Pâine şi să bea din Pahar” (I Corinteni 11:28). Aici se are în vedere o cercetare a propriei conştiinţe, care trebuie educată în aşa fel încât omul să-şi vadă păcatele sale şi să se pocăiască pentru ele, iar dacă păcatele sale constituie impedimente canonice pentru împărtăşirea cu Sfintele Taine, atunci el trebuie să meargă să se mărturisească şi să-şi asume epitimia rânduită până la reintegrarea în comunitatea euharistică a Bisericii de care s-a rupt prin păcat.

Cred că în decursul vieţii, omul poate avea doar câteva spovedanii care să fie adevărate întoarceri de la păcat sau „înnoiri ale Botezului”, iar unii nu ajung să experimenteze niciodată o astfel de întoarcere, chiar dacă se spovedesc relativ des. Orice s-ar spune, o spovedanie făcută în fiecare săptămână sau chiar şi în fiecare lună nu poate avea intensitatea pocăinţei adevărate şi „râurile de lacrimi” despre care vorbesc Sfinţii Părinţi cu referire la pocăinţă. Deci suntem nevoiţi să recunoaştem că nu toate spovedaniile sunt spovedanii în sensul deplin al cuvântului, iar spovedania şi pocăinţa sunt noţiuni care se intersectează, dar nu sunt identice.

Pentru a ne împărtăşi cu Sfintele Taine trebuie să avem o permanentă stare de pocăinţă şi o zdrobire a inimii, fără de care nu putem să ne apropiem de Potirul euharistic. Dar aceasta nu înseamnă că de fiecare dată trebuie să mergem să ne mărturisim, dacă conştiinţa noastră nu ne îndeamnă la aceasta. Iar dacă simţim nevoia mărturisirii şi acest lucru este posibil de făcut, atunci trebuie să-l facem neapărat: fără grabă, fără stereotipuri, fără a transforma mărturisirea în „şedinţe la psiholog”, fără a discuta probleme care ar putea fi discutate în afara mărturisirii şi, bineînţeles, fără a obosi preotul în mod exagerat. Există persoane (în special femei) care, dacă ar fi posibil, ar sta la mărturisire şi câte o oră în fiecare zi, ajungând la înşelări periculoase. Dar o astfel de abordare nu este una duhovnicească, ci una sentimentală, iar uneori chiar drăcească. Se pare că diavolului îi este mai interesant atunci când îţi dă impresia că tu faci ceva bun, decât atunci când nu te lasă să faci nimic. De aceea, mai ales preoţii tineri, trebuie să fie atenţi la mărturisirile îndelungate şi detaliate, dar să se păzească şi de formalismul dezlegărilor pe bandă rulantă, care numai spovedanii nu sunt.

Fenomenul spovedaniilor formale se observă mai ales în oraşe şi în unele mănăstiri, unde practica mărturisirii, mai ales în posturi, trebuie revizuită urgent şi radical. Altfel, îndrăznesc să spun că multe din spovedaniile care se fac pur şi simplu nu sunt valabile. Iar nevalabilitatea lor se vede şi din faptul că cei mai mulţi (ne)credincioşi, care vin o dată pe an pentru a se spovedi şi împărtăşi, imediat după aceasta continuă să ducă un mod de viaţă păcătos şi străin de Evanghelie. Preoţii consideră că, fiind mai îngăduitori cu astfel de oameni, îi câştigă, dar de fapt se amăgesc, pentru că ei tot în afara Bisericii rămân, iar împărtăşirea, chiar şi după rugăciunea de dezlegare, s-a făcut cu nevrednicie. Dumnezeu poate să ierte şi pe ucigaşul, şi pe curvarul care aduc pocăinţă sinceră şi-şi schimbă viaţa, dar a dezlega şi a da Trupul și Sângele Domnului tuturor beţivilor şi curvarilor care apar o dată pe an la Biserică, iar în zilele imediat următoare continuă viaţa lor pătimaşă, e un lucru periculos şi fără urmări pozitive. Nu vorbim aici de excepţii…

4.    În concluzie aş dori să punctez câteva idei practice, pe care nu le impun, ci doar le propun spre discuţii:

a)  Din cauza lipsei de cateheză în Biserică, deseori oamenii trăiesc în păcate deosebit de grave, pe care le consideră o normalitate. Mă refer aici în special la concubinaj, dar şi la alte păcate trupeşti devenite la modă. De aceea, pentru cineva care vine să se împărtăşească o dată sau de 3-4 ori pe an, mărturisirea înainte de fiecare împărtăşire este obligatorie, mai ales dacă preotul nu cunoaşte viaţa acelei persoane. De fapt, mărturisirea înainte de fiecare împărtăşire a apărut anume în acest context, când oamenii au început să se împărtăşească doar de câteva ori pe an.

b)  Apare întrebarea dacă trebuie sau nu să dăm împărtăşania celor care deja mulţi ani la rând se împărtăşesc o singură dată pe an, ca un obicei, neavând dorinţa sinceră de a fi mădulare vii ale Bisericii. De ce să-i amăgim pe aceşti oameni şi să ne amăgim şi pe noi înşine? Minimul euharistic fixat de Biserică este împărtăşirea o dată la trei duminici (Canonul 80 Trulan), nu o dată pe an. Celor care se împărtăşeau o dată pe an eu le-am dat voie să se împărtăşească numai dacă acceptau condiţia (cred eu justificată) de a veni cel puţin 2-3 duminici la rând la împărtăşire. Aşa au ajuns unii, pentru prima dată în viaţă, să se împărtăşească câteva duminici la rând şi chiar să ţină tot Postul Mare. Unii dintre aceia continuă să se împărtăşească şi acum, iar pe alţii nu i-am mai văzut. Dar chiar şi aşa, cel puţin am încercat să-i scot din minciuna că dacă te împărtăşeşti o dată pe an e OK şi cel care face aceasta este ortodox în toată regula.

c)  Cei care încep să vină mai des la Biserică şi înţeleg necesitatea şi folosul împărtăşirii mai dese, cred că într-o primă fază (durata căreia depinde de fiecare om în parte) trebuie să fie spovediţi înainte de fiecare împărtăşire, apoi cu o singură spovedanie să se împărtăşească de 2 ori, apoi de 3 ori, până când vor ajunge la o maturitate duhovnicească, când vor depăşi matematica şi vor veni să se mărturisească de fiecare dată atunci când va fi nevoie, iar viaţa lor duhovnicească să fie una echilibrată. Apare întrebarea dacă în astfel de situaţii credincioşii trebuie să treacă să ceară binecuvântare pentru fiecare împărtăşire sau nu. Eu cred că în cazul unora da, iar în cazul altora nu este nevoie.

d)  Creştinii care sunt membri vii ai Bisericii, citesc Sfânta Scriptură şi alte cărţi duhovniceşti, îşi fac rugăciunile de dimineaţă şi seară, ţin cele 4 posturi + miercurile şi vinerile, sunt împăcaţi cu toţi şi se mărturisesc o dată la 3-4 săptămâni, cred că se pot împărtăşi la fiecare Liturghie fără prea multe condiţii suplimentare. În toate, însă, e bine să se urmeze sfatul duhovnicului, care nu trebuie să cultive în om ascultarea de el, ci să arate drumul corect spre Hristos şi să educe în el o conştiinţă trează şi sănătoasă. Un duhovnic bun niciodată nu va impune fiilor săi duhovniceşti condiţii pentru împărtăşire pe care el însuşi nu le îndeplineşte, deşi poate are o mai mare nevoie.

Bunul Dumnezeu să ne ajute să ieşim din stereotipurile bolnăvicioase în care ne-am împotmolit, iar episcopilor şi preoţilor să le dea înţelepciune şi putere de a-i apropia pe oameni de Hristos.

 
Incredibile per molti, ma vero

Qui sotto riproduciamo la descrizione di un individuo ritornato in vita dopo la morte clinica, pubblicato da K. Uekskuell nel "Giornale di Mosca" verso la fine del XIX secolo. Nel 1916 l'Arcivescovo Nikon, un membro del Santo Sinodo, ristampò l'articolo nella sua pubblicazione "Pagine della Trinità" con i seguenti commenti: "riguardo a questo racconto, abbiamo avuto a suo tempo una corrispondenza con l'autore, che, dopo avere verificato la sua validità, ha testimoniato che il protagonista del racconto, dopo avere narrato la sua esperienza, è entrato in monastero. Tenuto conto del fatto che niente in questo racconto è in contraddizione con la posizione della Chiesa sul mistero della morte e della vita dopo la morte, crediamo utile ristampare questo articolo come pubblicazione separata." 

Traduzione dalla versione inglese in Orthodox Life, Vol. 26, No. 4 (Luglio-Agosto, 1976), pp. 1-36.

 

Non mi dedicherò qui a una descrizione generale della mia personalità, poiché ciò non ha a che fare con la storia che presento, ma cercherò di descrivere me stesso al lettore solo in termini della mia relazione alla religione.

 

I

Cresciuto in una famiglia cristiana ortodossa e piuttosto devota, e dopo avere studiato in un'istituzione in cui la mancanza di fede non era rispettata come segno del genio di uno studente, non finii per essere un veemente, famigerato miscredente, come era la maggioranza dei giovani del mio tempo. Essenzialmente, finii per essere qualcosa di molto indefinito: non ero un ateo, e in nessun modo potevo considerarmi in alcun grado come un uomo religioso, e dato che entrambi questi stati mentali non erano il risultato delle mie convinzioni, ma per così dire erano come passivamente imposti su di me da determinate forze ambientali, chiederò al lettore di trovare da sé una classificazione appropriata per la mia personalità rispetto a questa situazione.

Ufficialmente portavo il nome di cristiano, ma senza dubbio non pensavo mai se avessi davvero il diritto a un nome del genere. Non ebbi mai neppure la minima inclinazione a ricercare ciò che la vocazione di un cristiano mi richiedeva, e se soddisfacevo queste richieste. Avevo sempre detto che credevo in Dio; ma se mi avessero chiesto come credevo - o come la Chiesa Ortodossa a cui appartenevo insegna a credere, senza dubbio mi sarei trovato in difficoltà. Se mi fosse stato chiesto in maggiori dettagli se credevo, per esempio, nella nostra salvezza attraverso l'Incarnazione e la sofferenza del Figlio di Dio, nella sua seconda venuta come Giudice, quale fosse la mia relazione con la Chiesa, se credessi nella necessità della sua fondazione, santità e salvezza per noi tramite i suoi sacramenti, e così via, posso solo immaginare quali assurdità avrei detto come risposte. Ecco un esempio:

Un giorno mia nonna, che osservava sempre strettamente i digiuni, mi rimproverava perché io non li seguivo.

"Sei ancora forte e sano, hai un buon appetito, ne consegue che sei in grado di adattarti molto bene al cibo da digiuno. Perché non segui quelle leggi della Chiesa che non sono difficili neppure per noi?"

"Ma nonna, questa è una legge del tutto irragionevole," obiettai. "Tu infatti mangi, per così dire, meccanicamente, per abitudine, e nessun essere intelligente deve assoggettarsi a una tale abitudine."

"Perché irragionevole?"

"Ebbene, che differenza fa a Dio se mangio prosciutto o pesce affumicato?"

(Ditemi se non è vero - che esempio abbiamo qui di profondità di comprensione dell'essenza del digiuno da parte di un uomo istruito!).

"Com'è che parli in questo modo?" continuò la nonna. "Si può definire una legge irragionevole, quando il Signore stesso la seguiva?"

Fui colpito da questa risposta, e solo con l'aiuto di mia nonna fui in grado di ricordare il racconto evangelico che parla di questa condizione. Ma il fatto che l'avessi dimenticato, come vedete, non mi ostacolava in alcun modo dal gettarmi a capofitto in un'opposizione che prendeva un carattere alquanto altezzoso.

E non pensare, lettore, che io fossi più sciocco o di mente più volubile degli altri giovani del mio gruppo.

Ecco un altro esempio.

A uno dei miei colleghi, che era considerato colto e serio, fu chiesto se credesse in Cristo come Dio-uomo. Rispose di sì, ma subito dopo la conversazione rivelò che negava la Risurrezione di Cristo.

"Mi permetta, perché dice queste stranezze?", obiettò un'anziana signora. "Secondo la sua fede, che ne è stato di Cristo? Se crede in lui come Dio, com'è che può concedere allo stesso tempo che Egli sia morto completamente, ovvero che abbia terminato per sempre la sua esistenza?"

Aspettammo qualche tipo di risposta arguta da nostro intelligente collega, qualche tipo di sottigliezza sulla concezione della morte o una nuova spiegazione dell'argomento in questione. Nulla del genere, egli si limitò a rispondere: "Oh! Non ci avevo pensato. Avevo detto ciò che provavo."

 

II

Uno stato esattamente identico di incompatibilità di idee prese dimora in me, e per negligenza da parte mia, si costruì un solido nido nella mia mente.

Sembravo credere debitamente in Dio, vale a dire, lo riconoscevo come un Essere personale, onnipotente, eterno; riconoscevo l'uomo come sua creazione, ma non credevo nella vita dell'aldilà.

Un buon quadro della volubilità delle nostre relazioni sia alla religione che al nostro stato spirituale si vede nel fatto che io non sapessi di questa mia seria mancanza di fede, finché, come nel caso del mio collega summenzionato, una certa circostanza la portò alla luce.

Il fato mi portò a essere amico di un uomo serio e molto ben istruito; era anche molto simpatico, e dato che viveva da solo, mi piaceva fargli visita di tanto in tanto. Un giorno, arrivando la lui, lo trovai a leggere il catechismo.

"Che succede, Prochor Alexandrovich," - questo era il nome del mio amico - "ti stai preparando a diventare un pedagogo?" Gli chiesi stupito, indicando il libro.

"Caro mio, che vuoi dire, con pedagogo! Sarebbe già bene se potessi diventare un passabile studente. È ben lontana da me l'idea di insegnare ad altri. Devo prepararmi per gli esami. Guarda come mi diventano grigi i capelli, vedi, aumenta di giorno in giorno, e prima che te l'aspetti ti chiamano a render conto di tutto," disse con il suo solito sorriso cordiale.

Non presi le sue parole alla lettera, e pensai che dato che era un uomo di vaste letture, aveva sentito il bisogno di una certa correzione tramite la catechesi. Egli, evidentemente desideroso di spiegarmi la lettura a me estranea, disse:

"Si leggono tutti i tipi di spazzatura contemporanea, ebbene, ora sto controllando di non essere andato nella direzione sbagliata. Sai, l'esame che ci aspetta è severo, ed è severo anche per il fatto che non si ammettono ripetizioni.

"Ma ci credi veramente?"

"Di fatto, come si può non crederci? Che ne sarà di me, dimmi un po'? Pensi davvero che sarò ridotto in polvere? E se non sarò polvere, non c'è dubbio che sarò chiamato a rispondere. Non sono schiuma, ho una volontà e una mente, ho vissuto consciamente e... ho peccato..."

"Non so, Prochor Alexandrovich, come e da cosa possa essere sorta la tua fede nella vita dell'aldilà. È naturale pensare che un uomo muoia - e, bene, tutto termina qui. Lo vedi immobile e senza respiro, tutto si decompone, che idee di qualche genere di vita ci possono essere in questo stato?" dissi, esprimendo esattamente ciò che provavo, nell'ordine in cui queste idee dovevano essere sorte in precedenza e avere formato la mia comprensione.

"Permettimi, cosa pensi che dovremmo concludere di Lazzaro di Betania? Sai che questo è un fatto autentico, e anch'egli era un uomo, modellato con la mia stessa argilla."

Guardai il mio interlocutore con franca sorpresa. Era possibile che questo uomo colto credesse a cose così incredibili?

E Prochor Alexandrovich a sua volta mi guardò fisso per circa un minuto; poi, a voce più bassa, disse:

"Sei forse un miscredente?"

"No, perché dici così? Io credo in Dio," risposi.

"E negli insegnamenti divinamente rivelati, non ci credi? Ma oggi Dio lo si capisce in modi differenti, e praticamente ogni individuo inizia a rimodellare gli insegnamenti divinamente rivelati per venire incontro alle proprie necessità personali, e stabilisce classifiche; a questo, dunque, devi credere, ma in questo puoi credere o no, e in quell'altro non devi assolutamente credere! Come se vi fossero diverse verità, e non solo una. E non capiscono che nel fare così stanno già credendo nei prodotti della loro mente e immaginazione, e se così è, allora, naturalmente, qui non c'è posto per la fede in Dio."

"Ma uno non può credere a tutto. Talvolta si incontrano cose tanto strane."

"Vale a dire, non capite nel modo adeguato? Allora cerca di capire come si deve. Se non ci riesci, allora devi ammettere che la colpa è tua, e a tal punto ti devi arrendere. Inizia a ragionare come un uomo ordinariamente incolto riguardo alla quadratura del cerchio, o riguardo a qualche altro problema di alta matematica, e vedrai che anch'egli non ne capisce nulla, ma da questo non ne consegue che si deve rinnegare lo studio stesso della matematica. Naturalmente è più facile rinunciare, ma non è sempre... conveniente.

"Pensa con cura a quanto hai detto, che in essenza è un'assurdità: dici che credi in Dio, ma che non c'è vita dopo la morte. Ma Dio non è un Dio dei morti, ma dei viventi. Altrimenti che tipo di Dio è? Cristo stesso ha parlato di vita dopo la morte: pensi davvero che abbia detto falsità? Neppure i suoi più accaniti nemici furono in grado di provarlo. E perché egli venne tra noi e soffrì, se tutto il nostro futuro di riduce a finire in polvere?

"No, questo non è giusto. Devi con ogni mezzo, con ogni mezzo" - e parlò all'improvviso con intensità - "correggerti. Devi comprendere quanto sia importante. Una simile fede dovrebbe gettare una luce del tutto nuova sulla tua vita, darle un proposito differente, dare una direzione completamente nuova a tutto il tuo lavoro. Questa sarà per te una completa rivoluzione morale. In questa fede ci carichiamo di un fardello, ma allo stesso tempo abbiamo una fonte di consolazione e di sostegno per le lotte contro le avversità della vita che sono inseparabili da ciascuno.

 

III

Compresi l'intera logica nelle parole di Prochor Alexandrovich, ma naturalmente una conversazione di pochi minuti non poteva impiantare in me una fede in ciò a cui ero abituato a non credere, e la mia conversazione con lui essenzialmente servì solo a manifestare il mio punto di vista su una certa questione importante - un punto di vista che fino a quel momento io stesso non conoscevo bene perché non avevo avuto occasione di esprimerlo, e ancor meno occasione di pensarci a fondo.

La mia mancanza di fede evidentemente preoccupò in modo serio Prochor Alexandrovich: diverse volte nel corso della serata ritornò su questo tema, e mentre mi stavo preparando per partire, prese velocemente diversi libri dalla sua ampia biblioteca e, dandomeli, disse:

"Leggili, leggili senza esitazione, perché non si possono lasciare le cose così come stanno al presente. Sono certo che presto capirai razionalmente e ti convincerai della completa mancanza di fondamento della tua diffidenza, ma è necessario portare questa convinzione dalla mente al cuore, è necessario che il cuore comprenda, altrimenti un giorno o l'altro evaporerà e sarà dimenticata - la mente infatti è un setaccio attraverso al quale i diversi pensieri si limitano a passare, e non è lì il loro deposito."

Lessi i libri. Non ricordo ora se li lessi tutti, ma l'abitudine risultò essere più forte della ragione. Riconobbi che tutto quanto era scritto in quei libri era molto convincente, e a causa della superficialità della mia comprensione di questioni religiose, non fui in grado di sollevare la più piccola seria obiezione alle argomentazioni in essi contenute - ma la fede, nondimeno, non appariva in me. Riconoscevo che ciò non era logico, credevo che tutto quanto scritto nei libri fosse vero, ma non c'era alcuna sensazione di fede in me, e così continuai nella mia comprensione della morte come la fine assoluta dell'esistenza umana, dopo la quale seguiva solo la decomposizione.

Sfortunatamente, accadde che poco dopo la summenzionata conversazione con Prochor Alexandrovich, dovetti lasciare la città in cui vivevamo, e non ci vedemmo più. Non lo so, forse come persona intelligente e dotata del fascino di un uomo intensamente convinto, egli sarebbe riuscito almeno fino a un certo punto ad approfondire le mie vedute e i miei rapporti con la vita e le cose in generale, e in tal mondo a introdurre anche certi cambiamenti nella mia comprensione della morte, - ma lasciato a me stesso e alla natura e non essendo un giovane particolarmente serio, non ero in alcun modo interessato a tali questioni, e per la mia spensieratezza, dopo poco tempo non prestai più neppure un minimo di attenzione alle parole di Prochor Alexandrovich, che riguardavano la seria insufficienza della mia fede e la necessità di porvi rimedio.

In seguito a ciò, cambiamenti di residenza e incontri con nuove persone non solo fecero svanire tale questione dalla mia memoria, ma la pure conversazione con Prochor Alexandrovich, e persino la sua immagine mentale e la nostra breve conoscenza.

 

IV

Passarono molti anni. Per mia vergogna, devo ammettere che moralmente cambiai ben poco nel corso di questi anni. Anche se già ero un uomo alla metà del cammino della mia vita, vale a dire un uomo di mezza età, né nella mia relazione con la vita né in me stesso c'era stato un guadagno di serietà. Non comprendevo il senso della vita, una sorta di conoscenza stupefatta di me stesso rimaneva per me allo stesso livello di "chimerica" invenzione, come i ragionamenti del metafisico (1) nella ben nota favola dallo stesso nome, e vivevo, trascinato dagli stessi interessi grossolani e vuoti, dalla stessa concezione falsa e avara dello scopo della vita, con cui viveva la maggior parte della gente del mondo della mia classe e livello di istruzione.

Anche la mia relazione con la religione era rimasta immutata, vale a dire, come prima non ero né un ateo, né in qualsiasi grado una persona religiosa con una comprensione cosciente. Come prima, per abitudine andavo di tanto in tanto in chiesa, andavo alla confessione per abitudine una volta all'anno, mi segnavo per abitudine, quando era appropriato farlo - e questo per me era tutto quanto riguardava la religione. Non mi interessava alcuna questione religiosa e non comprendevo neppure che vi fosse qualcosa di interessante, a parte, ovviamente, le concezioni più elementari. Non ne sapevo nulla, e mi sembrava di sapere e comprendere tutto, e che tutto fosse così semplice e "privo di malizia", che un uomo "istruito" non avesse nulla di cui caricarsi la mente. Un'ingenuità che raggiunge proporzioni risibili, ma, sfortunatamente, molto caratteristica delle persone "istruite" dei nostri tempi.

È piuttosto ovvio che con la manifestazione di tali fatti, non ci poteva essere alcuna possibilità di un mio progresso nei sentimenti religiosi, né un allargamento degli orizzonti delle mie concezioni in questa materia.

 

V

Capitò che in questo periodo della mia vita il lavoro mi portò alla città di K., dove mi ammalai gravemente.

Poiché non avevo parenti né persone di servizio a K., dovetti andare in ospedale. I dottori mi trovarono una polmonite.

Dapprima mi sentivo così bene che nemmeno una volta ritenni necessario stare in ospedale per una simile sciocchezza; ma con lo sviluppo della malattia e la temperatura che iniziò a salire rapidamente, compresi che con una simile "sciocchezza" non sarebbe stato affatto saggio stare a letto da solo in una camera di qualche albergo.

Le lunghe notti invernali in ospedale erano per me particolarmente fastidiose; la febbre non mi lasciava affatto dormire, a volte mi era perfino impossibile stare sdraiato, e sedere nel letto era scomodo e stancante: non mi sentivo o non ero in grado di alzarmi e camminare lungo il reparto; e perciò continuavo a girarmi nel letto, mi sdraiavo, mi sedevo, allungavo le gambe e le rialzavo, e nel mentre continuavo ad ascoltare attentamente: quando inizierà a battere l'orologio! Aspettavo, aspettavo, e l'orologio sembrava battere di proposito solo due o tre volte, - e questo significava un'eternità prima dello spuntare del giorno. E quanto è deprimente su un malato l'effetto di questo sonno comune di molte persone, assieme alla quiete della notte. Uno si sente letteralmente in un cimitero in compagnia dei morti.

Mentre la mia malattia si avvicinava a una crisi, in egual misura le mie condizioni peggiorarono e io mi sentii peggio. A volte avevo tali fitte da non notare le condizioni spiacevoli ordinarie, né l'effetto stancante delle interminabili notti. Ma non so davvero a cosa attribuire la causa di tutto questo: forse perché ero e mi consideravo un uomo molto forte e sano, o forse perché fino a quel momento non ero mai stato neppure una volta seriamente malato, e i pensieri tristi che sono talvolta prodotti dalle malattie serie erano alieni alla mia mente - tuttavia, per quanto mi sentissi male, o per quanto all'improvviso arrivassero le fitte della mia malattia, neppure una volta mi entrò in mente l'idea della morte.

Attesi con confidenza che oggi o domani avvenisse un cambiamento per il meglio, e chiedevo con impazienza la mia temperatura ogni volta che il termometro era rimosso da sotto al mio braccio. Ma dopo aver raggiunto un certo livello, si bloccò letteralmente a quel punto, e alle mie domante sentivo costantemente la risposta: "40 e 9," "41," "40 e 8."

"Ahimè, che lungo processo!" dissi un giorno con disappunto, e in seguito chiesi al dottore se si aspettava che la mia convalescenza continuasse allo stesso passo da tartaruga.

Vedendo la mia impazienza, il dottore mi calmò dicendo che con la mia età e la mia salute non c'era nulla da temere, che la convalescenza non sarebbe durata a lungo, che con circostanze così favorevoli si può ricuperare la salute in un arco di pochi giorni.

Gli credetti di tutto cuore, e rafforzai la mia pazienza con il pensiero che rimaneva ancora poco alla crisi conclusiva, e che tutto in seguito sarebbe tornato completamente normale.

 

VI

Una notte mi sentii particolarmente male; mi rigiravo per la febbre e respirare mi era estremamente difficile, ma verso il mattino tutto migliorò così rapidamente, che fui perfino in grado di addormentarmi. Al risveglio, il mio primo pensiero al ricordo della sofferenza notturna fu: "Bene, questa deve essere stata la crisi finale, e ora è passata. E ormai ci sarà una fine a questo boccheggiare e a questa febbre insopportabile."

Avendo visto un giovane infermiere che entrava in un reparto vicino, lo chiamai e gli chiesi di prendermi la temperatura.

"Bene, signore, ora le cose hanno preso una svolta al meglio," disse con gioia, rimuovendo il termometro al momento stabilito. "La sua temperatura è normale."

"Davvero?" chiesi con gioia.

"Guardi lei stesso: 37 e 1. E sembra che la sua tosse non l'abbia disturbata tanto."

Realizzai solo in quel momento che di fatto non avevo tossito dalla mezzanotte fino al mattino, e anche se mi ero mosso e avevo preso alcuni sorsi di tè caldo, non avevo tossito neppure allora come risultato.

Il dottore arrivò alle nove. Gli dissi che mi ero sentito male, trassi la conclusione che evidentemente questa doveva essere stata la crisi conclusiva, e dissi che ora non mi sentivo male e che prima del mattino ero anche stato in grado di dormire qualche ora.

"Bene, questo è certamente un buon segno," disse, e andò al tavolo a consultare qualche sorta di tabella o nota che si trovava là sopra.

"Vuole prendergli la temperatura?" gli chiese l'infermiere. "La sua temperatura è normale."

"Cosa intende per normale?" gli chiese il dottore, sollevando in fretta la testa dal tavolo e guardando l'infermiere con perplessità.

"Esattamente quello che ho detto, l'ho appena provata."

Il dottore mi fece di nuovo prendere la temperatura, e questa volta sorvegliò egli stesso che fosse rilevata nel modo appropriato. Ma questa volta la temperatura non raggiunse neppure i 37 gradi: venne fuori che era più bassa di due linee.

Il dottore prese il proprio termometro dalla tasca laterale del suo camice, lo scrollò, lo controllò, ed evidentemente certo della sua correttezza mi prese di nuovo la temperatura.

Questo secondo risultato fu uguale al primo.

Con mia sorpresa, il dottore non mostrò alcun segno di felicità riguardo alla mia condizione, e non fece, per amor di buona educazione, la minima espressione di soddisfazione nel proprio aspetto, e dopo essersi girato in un modo un po' nervoso, lasciò il reparto: circa un minuto dopo udii un telefono che iniziava a suonare nella camera.

 

VII

Ben presto arrivò il primario: entrambi mi auscultarono e mi esaminarono - e mi fecero praticamente ricoprire la schiena di sanguisughe; in seguito, dopo aver prescritto una medicina, non me la diedero insieme alle altre, ma inviarono un infermiere a farla preparare prima delle solite altre medicine.

"Mi ascolti, che cosa pensa di farmi ora che non mi sento affatto male, per bruciarmi con le sanguisughe?" chiesi al primario.

Mi sembrò che la mia domanda confondesse o scoraggiasse il dottore, ed egli rispose con impazienza:

"Oh, Dio mio! Lei non può essere abbandonato così al libero corso della malattia solo perché si sente meglio. Dobbiamo estrarle tutto il pasticcio che si è accumulato in lei in questo tempo."

Tre ore dopo il dottore più giovane mi venne di nuovo a vedere; esaminò come erano piazzate le sanguisughe, mi chiese quanti cucchiai di medicina avessi preso. Dissi, "Tre."

"Ha tossito?"

"No," risposi.

"Neppure una volta?"

"Neppure una volta."

"Per favore, mi dica," mi volsi all'infermiere che era continuamente presente nel mio reparto, "che sorta di schifezza hanno miscelato in questa medicina. Mi fa vomitare."

"Ci sono vari tipi di espettoranti," spiegò.

In questo caso agii esattamente come spesso fanno i negatori contemporanei della religione, vale a dire, senza capire nulla di quanto stava accadendo, davo un giudizio mentale e rimproveravo la procedura del dottore nella mia mancanza di comprensione: mi danno espettoranti quando non ho nulla da espettorare.

 

VIII

Nel frattempo, un'ora e mezza o due dopo l'ultima visita dei dottori, tutti e tre apparvero di nuovo nel mio reparto: due dei nostri e un terzo, che aveva un'aria di importanza e di imponenza, che non era del nostro reparto.

Mi auscultarono a lungo; quindi apparve una tanica d'ossigeno. Questa mi fece in qualche modo stupire.

"E questa a che serve?" chiesi.

"Ebbene, dobbiamo filtrare un poco i suoi polmoni. Si sono quasi distrutti," disse il terzo dottore, quello di un altro reparto.

"Ma mi dica, dottore, che cos'è che vi affascina della mia schiena, da esserne tanto preoccupati. Ora è la terza volta che me la percuotete e la me coprite tutta di sanguisughe."

Mi sentivo tanto meglio rispetto a quei giorni precedenti, e perciò nei miei pensieri ero ben lungi dall'avere una natura pessimistica, così che nessuno strumento medico era in grado di portarmi a desumere le mie vere condizioni; persino l'apparizione di un dottore importante e dall'aspetto strano, me la spiegavo come un cambio di personale o qualcosa di simile, senza sospettare in alcun modo che egli fosse stato chiamato apposta per me, perché il mio caso richiedeva un consiglio. Feci l'ultima domanda in un tono così libero e felice, che evidentemente nessuno dei miei medici ebbe appena il coraggio di accennare alla prossima catastrofe. E in verità, come si può dire a un uomo pieno delle più liete speranze che forse gli restano ancora solo poche ore da vivere!

"È proprio ora che dobbiamo percuoterla," mi ripose il dottore in modo indeterminato.

Ma anche questa risposta la interpretai nel modo che desideravo, ovvero che ora, che la crisi era passata, e la forza dell'infermità si stava indebolendo, evidentemente era necessario e più conveniente applicare tutti i mezzi possibili per scacciare il resto del male e aiutare a rimettere in sento tutto quanto era stato colpito dalla malattia.

 

IX

Ricordo che circa alle quattro provai una sorta di debole senso di freddo, e desiderando scaldarmi, mi coprii comodamente con la coperta e mi sdraiai nel letto, ma improvvidamente mi sentii molto stordito.

Chiamai l'infermiere, che venne a sollevarmi dal cuscino e alzò la borsa dell'ossigeno. Udii da qualche parte il suono di un campanello, e in pochi minuti il primario entrò affrettato nel mio reparto, e poco dopo, uno dopo l'altro, entrambi i nostri medici.

In un'altra occasione un tale insolito raduno di massa del personale medico e la rapidità con cui si riuniva mi avrebbero stupefatto e confuso, ma ora mi era interamente indifferente, come se non avesse nulla a che fare con me.

Uno strano cambiamento ebbe luogo all'improvviso nel mio umore! Un minuto prima ero pieno di ottimismo, ora anche se vedevo e capivo appieno tutto ciò che mi stava accadendo attorno, spuntò d'un tratto una sorta di incomprensibile indifferenza, una lontananza che, come pare ora, è completamente aliena ai viventi.

Tutta la mia attenzione era concentrata su me stesso, ma anche qui c'era una qualità particolare e sconvolgente, un certo stato di divisione in me: sentivo ed ero conscio di me stesso con completa chiarezza e certezza, e allo stesso tempo avevo un senso di tale indifferenza verso me stesso, che sembrava come se avessi perso anche la capacità di percepire le sensazioni fisiche.

Per esempio, vidi come il dottore stendeva la mano e sentiva la mia pulsazione - vedevo e capivo ciò che faceva, ma non sentivo il suo contatto con il mio corpo. Vedevo e capivo che i dottori, dopo avermi sollevato, continuavano a fare qualcosa e continuavano a fare qualcosa preoccupandosi della mia schiena, dove evidentemente aveva avuto inizio l'edema, ma cosa facessero, non lo percepivo, e questo non perché avessi di fatto perduto la capacità di percepire queste sensazioni, ma perché questo non attirava affatto la mia attenzione, e perché, essendomi in qualche modo ritirato in profondità entro me stesso, non ascoltavo né osservavo quanto mi stavano facendo.

Sembrò come se all'improvviso due esseri o essenze si fossero manifestati in me: uno - nascosto da qualche parte nel profondo dell'intimo, e questa era la mia parte principale; l'altro - esterno ed evidentemente meno significativo; e ora sembrava come se il legame tra i due si fosse bruciato o dissolto, e queste due essenze separate, con la più forte che si faceva sentire più vividamente e con maggior certezza, mentre la più debole diventava una questione di indifferenza. Questa parte o essere più debole era il mio corpo.

Posso immaginare come, forse anche pochi giorni prima, sarei stato colpito dalla manifestazione in me di questo essere interno finora a me ignoto, e dalla realizzazione della sua superiorità su quell'altra parte di me, che secondo le mie convinzioni precedenti costituiva la totalità dell'essere, ma che ora non notavo neppure.

Questo stato era per me del tutto sorprendente: vivere, vedere, udire e comprendere tutto, e allo stesso tempo apparentemente non vedere né comprendere nulla, e sentire una tale alienazione da tutto.

 

X

Così, per esempio, il dottore mi fa una domanda; io ascolto e capisco ciò che dice, ma non replico, non do una risposta, perché sento che non ho ragione di parlargli. E tuttavia egli si preoccupa di me, ma di quella metà di me, che ora ha perso per me ogni significato, e con cui sento di non avere nulla a che fare.

Ma improvvisamente l'altra metà si fece sentire, e in modo così forte e insolito!

Mi sentii all'improvviso attratto verso il basso da una forza irresistibile. Durante i primi minuti questa sensazione era simile all'avere dei pesi massicci legati a tutte le membra del corpo; ma poco più oltre questo paragone non poteva descrivere in modo appropriato le mie sensazioni. Tale rappresentazione di una simile attrazione sembrava ora relativamente insignificante.

No, qui era all'opera qualche tipo di legge di attrazione gravitazionale di enorme potenza.

Mi sembrava che non solo il mio insieme, ma ogni arto, ogni capello, il tendine più fine, ogni cellula del mio corpo fossero attratti separatamente da qualche parte in modo altrettanto irresistibile, di come un forte magnete attrae a sé dei pezzi di metallo.

Eppure, a prescindere da quanto fosse forte tale sensazione, non mi ostacolava dal pensare e dall'essere cosciente di ogni cosa; ero pure conscio della stranezza di questo fenomeno. Ricordavo ed ero conscio della realtà, vale a dire che giacevo a letto, che il mio reparto era al secondo piano, [e] che sotto di me c'era una stanza identica; ma allo stesso tempo, secondo la forza della sensazione, ero certo che se sotto di me ci fossero state non una, ma dieci stanze accatastate l'una sull'altra, queste di sarebbero aperte all'improvviso per lasciarmi passare... verso dove?

Da qualche parte in profondità, giù nella terra.

Sì, proprio nella terra, e volevo giacere sul suolo; mi scossi e iniziai a muovermi.

 

XI

"Agonia," udii questa parola pronunciata su di me dal dottore.

Poiché non parlavo, essendo completamente concentrato in me stesso, e il mio sguardo esprimeva una completa assenza di interesse per il mondo circostante, i dottori evidentemente decisero che io ero in uno stato inconscio e parlavano di me in modo udibile e senza ritenzioni. Nel frattempo, non solo capivo tutto in modo eccellente, ma mi era impossibile non pesare e osservare a fondo.

"Agonia, morte!" Pensai, avendo sentito le parole del dottore. "Sto davvero morendo?" Volgendomi a me stesso, dissi a voce alta; ma come? Perché? Non so spiegarlo.

Mi ricordai all'improvviso un dotto discorso a proposito della questione se la morte sia o no dolorosa, che avevo letto tanto tempo prima, e, dopo avere chiuso gli occhi, mi esaminai riguardo a ciò che stava avendo luogo in me a quel tempo.

No, non provavo alcun dolore fisico, ma senza dubbio stavo soffrendo. Mi sentivo pesante e stanco all'interno. Da cosa veniva questa sensazione? Sapevo di che malattia stavo morendo; che accadeva ora, era l'edema che mi soffocava, o stava rallentando l'attività del cuore e questo mi affaticava? Non lo so. Forse questa era la spiegazione della mia morte ormai prossima secondo le idee di quelle persone, e del mondo, che ormai sentivo così alieno e remoto. Io, tuttavia, provavo solo un'insormontabile moto, un'attrazione verso qualcosa, come ho già detto.

Sentivo questa attrazione crescere a ogni istante, come se fossi appena arrivato molto vicino a quel magnete che mi attirava, e che se avessi toccato, si sarebbe interamente fuso con il mio corpo, diventando uno con esso in tal modo che nessuna forza avrebbe poi potuto separarli, e quanto più sentivo arrivare questo momento, tanto più impaurito e depresso diventavo, e simultaneamente provavo con crescente chiarezza una resistenza, sentivo che non potevo unirmi del tutto, che qualcosa in me doveva separarsi e che questo qualcosa stava cercando di allontanarsi dall'oggetto sconosciuto dell'attrazione con la stessa intensità con cui l'altra parte di me vi si avvicinava. Era questo sforzo che mi causava stanchezza e sofferenza.

 

 

XII

 

Il significato della parola "agonia," che avevo udito, mi era del tutto chiaro, ma ora tutto in me si allontanava in qualche modo da ricordi, sensazioni e concetti.

 

Senza dubbio, se avessi udito questa parola anche nel momento in cui i tre dottori mi stavano esaminando, mi sarei spaventato in modo allarmante. Allo stesso modo, se un simile strano cambiamento non avesse avuto luogo nella mia malattia, se fossi rimasto nello stato ordinario di un malato, anche ora, sapendo della morte imminente, avrei compreso e spiegato tutto ciò che aveva luogo in me in modo differente; ma nello stato presente le parole del dottore non fecero che stupirmi, senza provocare la paura caratteristica di chi pensa alla morte, e diedi un'interpretazione completamente inaspettata, a paragone delle mie concezioni precedenti, dello stato che stavo ora sperimentando.

 

"Ebbene, ecco che cos'è! È la terra che mi sta attirando in questo modo," improvvisamente mi venne da pensare. "Vale a dire, non me, ma ciò che appartiene a essa, ciò che mi ha imprestato per un certo tempo. Ed è la terra stessa che la attira, oppure è la materia che torna alla terra?"

 

E ciò che prima mi sembrava così naturale e vero, e cioè che dopo la morte mi sarei trasformato interamente in polvere, ora appariva innaturale e impossibile.

 

"No, non sparirò del tutto, non posso," urlai quasi ad alta voce, e feci un tentativo di liberarmi, di strapparmi a quella forza che mi attraeva, e all'improvviso mi sentii calmo.

 

Aprii gli occhi, e tutto ciò che vidi nel corso di quel minuto, fino ai minimi dettagli, si registrò nella mia memoria con chiarezza completa.

 

Mi vidi in piedi in una stanza; alla mia destra, disposto a semicerchio, l'intero gruppo dei medici era riunito assieme: con le mani dietro alla schiena e lo sguardo fisso a qualcosa che non riuscivo a vedere dietro alle figure dei dottori, stava il primario; dietro di lui, leggermente chinato in avanti, c'era il medico più giovane; il vecchio infermiere, con una sacca di ossigeno nelle mani, si spostava indeciso da una gamba all'altra, evidentemente senza sapere cosa fare con quell'apparato, se metterlo via o no, poiché poteva ancora essere utile; e il dottore giovane, chino in avanti, stava reggendo qualcosa, ma a causa delle sue spalle, vedevo solo i cuscini.

 

Questo gruppo mi fece stupire: stavano attorno a un letto. Che cosa c'era che attirava la loro attenzione, cosa stavano guardando, quando io ero lì in piedi, in mezzo alla stanza?

 

Mi avvicinai e guardai nella direzione in cui guardavano tutti:

 

Là, sul letto, c'ero io.

 

 

XIII

 

Non mi ricordo di aver sperimentato qualcosa di simile alla paura alla vista del mio doppio; ero solo perplesso: come può essere? Mi sentivo allo stesso tempo in due posti.

 

Guardai me stesso in piedi nel mezzo della stanza. Senza dubbio, ero io, esattamente come avevo sempre saputo di essere.

 

Provai a prendere la mano sinistra con la destra, e una mano passò attraverso l'altra; cercai di afferrarmi alla cintola - e di nuovo le mie mani passarono attraverso il mio corpo come attraverso uno spazio aperto.

 

Colpito da un così strano fenomeno, volevo che qualcuno lì vicino mi aiutasse a capire che cosa accadeva, e dopo aver fatto qualche passo, estesi la mano, desiderando toccare la spalla del dottore; ma sentii che camminavo stranamente, senza sentire un contatto con il pavimento; e la mia mano, per quanto provassi, non riusciva a raggiungere il dottore; mancavano forse pochi centimetri, ma non ero in grado di toccarlo.

 

Mi sforzai di stare fermo sul pavimento, ma, anche se il mio corpo obbediva ai miei tentativi e si abbassava, non riusciva lo stesso a toccare il pavimento, così come prima non riusciva a toccare la figura del dottore. Anche qui restava uno spazio insignificante, ma non riuscivo in alcun modo a superarlo.

 

Mi ricordo vivamente come diversi giorni prima l'infermiera del nostro reparto, che desiderava proteggere la mia medicina, mise la fiala dentro un vaso d'acqua fredda. Tuttavia il vaso era profondo, e la fiala leggera ritornò a galla; ma la vecchia infermiera, senza capire ciò che accadeva, tentò con insistenza una, due, tre volte di abbassarla sul fondo del vaso, sperando che alla fine rimanesse lì; ma appena rimuoveva il dito, la fiala tornava di nuovo alla superficie.

 

Evidentemente, in modo simile, l'aria circostante doveva essere divenuta troppo densa per me.

 

 

XIV

 

Che cosa mi era accaduto?

 

Chiamai il dottore, ma l'atmosfera in cui mi trovavo risultò completamente inadatta; non riceveva né trasmetteva i suoni della mia voce, e io comprendevo di essere in uno stato di totale dissociazione da tutto ciò che mi stava attorno. Capivo questo mio strano stato di solitudine, e un senso di panico mi ricoprì. C'era davvero qualcosa di indicibilmente orribile in questa straordinaria solitudine. Se uno si perde in una foresta, annega nelle profondità del mare, è presa dal fuoco, o siede in un confino solitario, non perde mai la speranza che qualcuno lo possa ascoltare. Sa che verrà capito se il suo richiamo di aiuto giunge alle orecchie di qualcuno; comprende che un altro essere vivente lo vede, che il soccorritore camminerà verso di lui, che potrà iniziare a parlargli, esprimere il suo desiderio ed essere compreso dall'altro.

 

Ma vedersi persone intorno, udire e comprendere la loro conversazione, e allo stesso tempo sapere che per quanto ti succeda, non hai assolutamente alcuna opportunità di informarli della tua presenza e di aspettarti aiuto se hai bisogno - per un simile stato di solitudine mi si rizzarono i capelli, e mi si intorpidì la mente. Era peggio che stare su un'isola disabitata, perché là almeno la natura avrebbe manifestato segni positivi di recettività della mia individualità; ma qui, in questa privazione della capacità di interagire con il mondo circostante, in questa esperienza innaturale per un essere umano, c'era così tanta paura mortale, un tale orribile riconoscimento di impotenza, da non poter sperimentare in alcun'altra situazione, né da poter trasmettere a parole.

 

Naturalmente, non mi arresi subito; cercai in tutti i modi possibili di rendere nota la mia presenza, ma questi tentativi non facevano che portarmi alla completa disperazione. È davvero possibile che non mi vedano? - Pensavo disperato, e mi avvicinavo ripetutamente al gruppo di persone che stava attorno al mio letto, ma nessuno di loro si voltava o mi dava attenzione, e ora guardavo me stesso con perplessità, e non capivo come fosse loro possibile non vedermi, quando ero lo stesso di sempre. Cercai di toccarmi, e la mia mano di nuovo attraversò l'aria.

 

"Ma io non sono un fantasma. Provo sensazioni e sono cosciente di me stesso, e il mio corpo è un corpo reale, e non qualche tipo di 'miraggio' deludente," pensai, e di nuovo mi guardai con attenzione, e mi convinsi che il mio corpo era davvero un corpo, poiché potevo osservarne i dettagli più minuti, anche una macchia, con completa chiarezza. La sua apparenza esterna rimaneva la stessa di ciò che era stato in precedenza, ma evidentemente le sue qualità erano cambiate. Era divenuto inaccessibile al tatto, e l'aria circostante era divenuta troppo densa, tanto che non era possibile un contatto completo con gli oggetti.

 

"Un corpo astrale. Mi sembra che lo chiamino così?" il pensiero mi passò in un lampo per la mente. "Ma perché, che cosa mi è accaduto?" mi chiesi, cercando di ricordare se avessi mai udito descrizioni di simili stati, di strane trasfigurazioni durante una malattia.

 

 

XV

 

"No, qui non possiamo fare più nulla! Tutto è finito," disse il dottore giovane, agitando la mano senza speranza, e si allontanò dal letto su cui giaceva l'altro me stesso.

 

Mi sentivo inspiegabilmente maltrattato, perché stavano continuando a ragionare e a fare confusione su quel me stesso che io non sentivo affatto, che per me non esisteva, e lasciavano privo di attenzione l'altro me reale, conscio di ogni cosa e tormentato dalla paura dell'oscurità, che cercava, che pretendeva il loro aiuto.

 

"È possibile che non vedano? È possibile che non capiscano che io non sono lì?", pensavo con disappunto, e, camminando verso il letto, guardavo quel me stesso, che a spese del me reale, attraeva l'attenzione della gente nel reparto.

 

Diedi un'occhiata, e lì per la prima volta emerse il pensiero: è possibile che ciò che mi è accaduto, nella nostra lingua, la lingua dei viventi, sia ciò che si definisce "morte"?

 

Il pensiero mi venne perché il corpo che giaceva sul letto aveva tutto l'aspetto di un cadavere: senza alcun movimento, senza respiro, il volto coperto da una sorta di pallore, con labbra compresse, leggermente cianotiche, mi ricordava vivamente i defunti che avevo visto. Può sembrare strano a prima vista, che solo nel vedere il mio corpo privo di vita avessi compreso ciò che mi era davvero accaduto, ma se uno considera attentamente e percepisce completamente ciò che io sentivo e sperimentavo, una simile perplessità, a prima vista strana, da parte mia, diventa comprensibile. Alla nostra comprensione della parola "morte" è legata in modo inestricabile l'idea di un certo tipo di distruzione e di cessazione di vita, e come potevo pensare di essere morto quando non avevo perso consapevolezza di me stesso per un solo momento, quando mi sentivo altrettanto vivo, vedendo tutto, udendo tutto, conscio di tutto, capace di movimento, pensiero, parola. Quale deterioramento potevo prendere in considerazione, quando mi vedevo splendido quanto mai, e allo stesso tempo riconoscevo perfino la stranezza della mia condizione?

 

Nemmeno le parole del dottore, quel "tutto è finito," avevano attratto la mia attenzione, né mi avevano fatto indovinare cos'era successo - tanto era diverso ciò che mi era capitato dalle nostre concezioni della morte!

 

La dissociazione da tutto quanto mi riguardava, la scissione nella mia personalità mi avrebbe potuto far capire più di ogni altra cosa ciò che era accaduto, se avessi creduto nell'esistenza di un'anima, se fossi stato religioso; ma non era il mio caso, e io ero guidato solo da ciò che provavo, e la sensazione di vita era così chiara, che lo strano fenomeno mi portava solo perplessità, dato che ero completamente incapace di collegare ciò che provavo al concetto tradizionale della morte, vale a dire, mentre sento e sono cosciente di me stesso, di pensare che non esisto.

 

In seguito ho avuto spesso l'opportunità di ascoltare da persone religiose, vale a dire, quanti non negano l'esistenza di un'anima e di una vita dopo la morte, la seguente opinione o supposizione: che appena l'anima umana si è liberata dalla sua carne corruttibile, diviene immediatamente una sorta di esistenza onnisciente, che per essa non c'è nulla di sconosciuto, ed è sconvolgente come nel nuovo regno di realtà, nella nuova forma di esistenza, essa non solo entra immediatamente nel campo delle nuove leggi che le sono rivelate dal nuovo mondo e dal suo nuovo stato d'essere, ma tutto ciò le è così familiare, e questa transizione è come un ritorno alla vera patria, al suo stato naturale. Tale supposizione si fonda soprattutto sull'idea che l'anima sia qualcosa di spirituale, e che per lo spirito non esistano quelle limitazioni che ha la parte fisica dell'uomo.

 

 

XVI

 

Tale ipotesi, naturalmente, è del tutto erronea.

 

Da quanto è stato descritto sopra, il lettore può vedere che io ero arrivato in questo nuovo mondo esattamente nelle condizioni in cui avevo lasciato l'altro, ovvero praticamente con le stesse capacità, concezioni e conoscenza che avevo mentre vivevo sulla terra.

 

Per esempio, quando volevo rendere nota in qualche modo la mia presenza, facevo ricorso a quei mezzi che sono comunemente usati in questi casi da tutte le persone viventi; vale a dire, chiamavo, mi avvicinavo, cercavo di toccare o di spingere qualcuno; avendo notato una nuova qualità del mio corpo la ritenevo strana: di conseguenza, le mie concezioni precedenti rimanevano in me; altrimenti questo stato non mi sarebbe apparso strano, - e desiderando convincermi dell'esistenza del mio corpo, facevo nuovamente ricorso ai metodi usuali a cui ero abituato in tali casi come essere umano terrestre.

 

Anche dopo avere capito che ero morto, non compresi per mezzo di qualche nuovo senso il cambiamento che aveva avuto luogo in me, ed essendo perplesso, Definivo il mio corpo "astrale," e alla mia attenzione si presentava l'idea seguente: il primo uomo creato non aveva forse ricevuto un simile corpo? E in seguito, con la caduta nella sua tunica sacerdotale di pelle, che è menzionata nella Bibbia, non era forse questa il corpo corruttibile che ora giaceva nel letto e che presto si sarebbe mutato in polvere? In breve, poiché desideravo comprendere ciò che mi era accaduto, proponevo le spiegazioni che mi erano note e accessibili secondo i miei concetti mondani.

 

E c'era da aspettarselo. L'anima naturalmente è spirito, ma lo spirito è creato per la vita in un corpo; perciò in che modo il corpo può essere per l'anima una sorta di prigione, un qualche tipo di legame che lo incatena a qualche presunta forma estranea di esistenza?

 

No, il corpo è un legittimo luogo di dimora che è stato, per così dire, posto a disposizione dello spirito, che pertanto apparirà nell'altro mondo al livello di sviluppo e perfezione raggiunto nella sua esistenza congiunta con il corpo, nella sua forma legittimamente stabilita di esistenza. Naturalmente, se nel corso della vita una persona è stata spiritualmente sviluppata, allora la sua anima sentirà una più profonda relazione e le cose le appariranno più comprensibili in questo nuovo mondo, rispetto all'anima della persona che ha vissuto senza mai pensare all'altro mondo, e mentre la prima sarà in grado, per così dire, di leggere questa nuova lingua, per quanto non rapidamente e non senza errori, la seconda, come capitò nel mio caso, deve imparare a partire dai rudimenti. C'è bisogno di tempo per capire sia i fatti a cui non aveva mai pensato, sia il nuovo regno nel quale viene a trovarsi e nel quale non ha mai fatto una visita mentale durante la sua esistenza terrena.

 

In seguito, cercando di ricordarmi e di ripensare al mio stato di essere in quel tempo, ho notato solo che le mie capacità mentali funzionavano con una così forte energia e rapidità, che sembrava non rimanere la minima traccia di tempo trascorso dopo che avevo fatto lo sforzo di comprendere, paragonare o ricordare qualcosa. Non appena mi appariva davanti qualcosa, la mia memoria penetrava immediatamente nel passato e scavava riguardo a quel dato argomento i minimi dettagli, che giacevano dimenticati e senza cura; e ciò che in altri momenti mi avrebbe fatto indubbiamente sorgere un senso di perplessità, ora appariva come se fosse piuttosto evidente.

 

Talvolta, grazie a qualche infusione di forza, riuscivo anche a indovinare ciò che prima mi era ignoto; ma questo, nondimeno, avveniva non prima che la cosa mi apparisse di fatto davanti agli occhi. E fu quest'ultima condizione che risultò essere la più straordinaria delle mie capacità, oltre a quegli altri cambiamenti, per così dire, attesi, che risultavano dal mio stato di essere alterato.

 

 

XVII

 

Procedo ora con la narrazione delle altre circostanze del mio incredibile episodio.

 

Incredibile! Ma se finora era apparso incredibile, allora queste ulteriori circostanze sembreranno storie tanto "ingenue" agli occhi dei miei dotti lettori, da dare l'impressione che non valga la pena raccontarle; ma forse per quanti vorranno vedere in modo differente la mia narrazione, la stessa ingenuità e pochezza del materiale presentato serviranno come prova della sua veracità; poiché se io stessi inventando questa narrazione - immaginandola - allora si aprirebbe qui uno spazio per la fantasia personale tanto ampio che, naturalmente, avrei potuto pensare qualcosa di più sottile ed efficace.

 

Che cos'altro mi accadde, dunque? I dottori uscirono dal reparto, entrambi gli infermieri erano in piedi lì vicino e cercavano di spiegare gli stadi della mia malattia e morte, e l'anziana infermiera si rivolse all'icona, si fece il segno della croce ed espresse in modo udibile il desiderio consueto in tali casi:

 

"Possa ereditare il regno dei cieli, pace eterna su di lui."

 

E non aveva ancora finito di pronunciare queste parole, che due Angeli apparvero al mio fianco; per qualche ragione riconobbi in loro il mio Angelo Custode, ma l'altro mi era ignoto. (2)

 

Dopo avermi preso per le braccia, gli Angeli mi portarono attraverso il muro del reparto, nella strada.

 

 

XVIII

 

Era già scesa l'oscurità. La neve cadeva in silenzio a grossi fiocchi. Vedevo queste cose, ma non sentivo il freddo né in generale la differenza di temperatura tra la stanza e l'esterno. Evidentemente fenomeni del genere avevano perso il loro significato per il mio corpo trasformato. Iniziammo a salire velocemente. E quanto più salivamo, tanto più ampia era l'espansione di spazio rivelata ai nostri occhi. E alla fine questo spazio giunse a proporzioni tanto vaste e terrificanti, che fui preso da paura alla comprensione di quanto ero insignificante a paragone di questo deserto di infinito. Qui mi divennero pure evidenti certe peculiarità della mia visione. Dapprima, era scuro e io vedevo chiaramente ogni cosa nel buio; di conseguenza la mia visione aveva ricevuto la capacità di vedere nel buio; in secondo luogo, ero in grado di includere nel campo della mia visione un'area così vasta di spazio, che indubbiamente non sarei stato in grado di vedere con la mia visione ordinaria. E a quel tempo non ero cosciente di queste peculiarità, ma notavo che non riuscivo a vedere tutto, per quanto ampio fosse il mio campo di vista. Tutto sommato, esso aveva un limite. Comprendevo questo molto chiaramente, e la cosa mi atterriva. Sì, a che punto è caratteristico dell'essere umano dare una sorta di valore permanente alla sua individualità: riconoscevo che ero così poco importante, un atomo insignificante, la cui comparsa o scomparsa non sarebbe stata notata in questo spazio illimitato, ma invece di trovare in ciò qualche sorta di consolazione, un certo tipo di sicurezza si sentì minacciato ... che mi potessi perdere del tutto, che questa illimitata vastità mi avrebbe inghiottito come una trista particella di polvere. Una mirabile confutazione, da parte di un'insignificante particella, della comune (come alcuni credono) legge di distruzione, e una straordinaria manifestazione del riconoscimento che l'uomo fa della propria immortalità, dello stato eterno di essere della sua individualità!

 

 

XIX

 

La concezione del tempo era in quei momenti assente dal mio stato mentale, e non so per quanto tempo abbiamo continuato a muoverci verso l'alto, quando all'improvviso si udì dapprima un rumore indistinto. In seguito, emersa da qualche parte, con urla e risa scalmanate, una folla di esseri orrendi iniziò ad avvicinarsi rapidamente a noi.

 

"Spiriti maligni!" - Compresi subito, con una valutazione insolitamente rapida risultante dall'orrore che provavo in quel momento, un orrore di un tipo speciale che finora mai avevo sperimentato. Spiriti maligni! Oh, quanta ironia, quante risate del tipo più sincero mi avrebbe fatto sorgere questo pensiero anche pochi giorni prima. Anche poche ore prima, il resoconto di qualcuno che dicesse non solo di avere visto spiriti maligni con i propri occhi, ma appena di credere nella loro esistenza come qualcosa di fondamentalmente reale, avrebbe suscitato una simile reazione! Come conveniva a un uomo "istruito" della fine del diciannovesimo secolo, vedevo queste cose come sciocche inclinazioni, o come passioni di un essere umano, ed ecco perché lo stesso termine aveva per me non il significato di esseri reali, ma della definizione di un certo concetto astratto. E all'improvviso questo "certo concetto astratto" mi apparve davanti come personificazione vivente. Tuttora non sono in grado di dire come e perché a quel tempo, senza la minima traccia di dubbio, ho riconosciuto la presenza di spiriti maligni in quella brutta visione. Senza dubbio, solo a causa di una simile definizione si trattava di qualcosa di completamente al di fuori del normale ordine delle cosa e della logica, poiché se una simile visione orrenda mi fosse apparsa in un altro momento, indubbiamente avrei detto che si trattava di qualche tipo di fantasia personificata, un capriccio abnorme dell'immaginazione. In breve, non avrei mai chiamato questa cosa con un nome che rimanda a qualcosa che non può essere visto. Ma in quel tempo, questa designazione della sua natura ebbe luogo con tanta rapidità, che apparentemente non c'era ragione di pensarci, come se avessi visto qualcosa che mi era già ben noto da lungo tempo; e poiché. come ho spiegato, in quel momento le mie capacità mentali funzionavano con incomprensibile intensità, compresi dunque altrettanto rapidamente che l'aspetto esterno di questi esseri non era la loro esteriorità reale, ma che era una sorta di abominevole spettacolo concepito probabilmente con lo scopo di procurarmi una paura più intensa; e per un momento qualcosa di simile all'orgoglio si agitò in me. Mi vergognai quindi di me stesso, dell'uomo in generale, perché per suscitare paura in un uomo, un essere che pensa tanto in grande di se stesso, altre forme di vita fanno ricorso ai metodi che noi stessi usiamo con i bambini piccoli.

 

Dopo averci circondato da ogni parte, gli spiriti maligni con urla e suoni sguaiati pretesero che io fossi consegnato loro, quindi cercarono in qualche modo di afferrarmi e strapparmi agli Angeli, ma evidentemente non osavano farlo. Nel mezzo dei loro biechi ululati, inimmaginabili e altrettanto ripugnanti all'udito quanto la loro vista era ai miei occhi, riconobbi alcune parole e intere frasi.

 

"È nostro: ha rifiutato Dio," gridarono all'improvviso quasi all'unisono. E qui si avventarono su di noi con tanto ardore che per un momento la paura congelò ogni flusso di pensiero nella mia mente.

 

"È una bugia! Non è vero!" Volevo urlare una volta ritornato in me, ma un ricordo mi bloccava la parola. In qualche modo a me ignoto, ricordai all'improvviso un leggero, insignificante episodio, che per di più era legato a un periodo così remoto della mia gioventù che, pare, non sarei stato in grado in alcun modo di richiamarlo alla mente.

 

 

XX

 

Ricordai come durante i miei anni di studio, un giorno in cui ero a casa di amici, dopo aver parlato di questioni di studio, continuammo a discutere di vari temi astratti ed elevati - un tipo di conversazioni che facevamo spesso.

 

"In via generale, non amo le astrazioni," dice uno dei miei compagni, "ma qui abbiamo già un'assoluta impossibilità. Sono in grado di credere in qualche tipo di forza della natura sulla quale, diciamo, non si è ancora investigato. Vale a dire, posso accettarne l'esistenza, anche se non ne vedo le sue chiare e definite manifestazioni, perché queste possono essere piuttosto insignificanti o combinate con gli effetti di altre forze; ma credere in Dio, come essere individuale e onnipotente, crederci - quando non vedo da nessuna parte manifestazioni chiare di questa Individualità - diventa già assurdo. Mi si dice di credere. Ma perché devo credere, quando sono ugualmente in grado di credere che non c'è alcun Dio. Perché crederci, se non fosse vero? Non è forse possibile che Dio non esista?" A questo punto il mio compagno si rivolse a me per chiedere sostegno.

 

"Forse no," mi lasciai sfuggire dalle labbra.

 

Questa frase era nel pieno senso del termine un "pensiero ozioso": il discorso irragionevole del mio amico non avrebbe potuto far sorgere in me un dubbio sull'esistenza di Dio. Io non ascoltavo neppure le sue parole in modo particolare; e ora si scopriva che questa mia affermazione oziosa non era scomparsa senza lasciare una traccia nell'aria; dovevo giustificarmi, difendermi dall'accusa diretta contro di me, e in tal modo il detto del Nuovo Testamento trovava conferma nella pratica: dovremo veramente rendere conto do tutte le nostre parole vane, se non per volontà di Dio, che conosce i segreti del cuore dell'uomo, almeno per l'ira del nemico della salvezza.

 

Questa accusa evidentemente era il più forte appiglio che gli spiriti maligni avevano per la mia perdizione. Sembravano trarne nuova forza per attaccarmi, e ora con boati furiosi giravano attorno a noi, impedendoci di proseguire.

 

Rammentai una preghiera e iniziai a pregare, chiedendo l'aiuto di quei Santi dei quali conoscevo i nomi e dei quali mi venivano i nomi alla mente. Ma questo non spaventava i miei nemici. Da triste e ignorante cristiano solo di nome, ora, a quanto pare, mi ricordai forse per la prima volta nella vita di Colei che è chiamata l'Avvocata dei cristiani.

 

Ed evidentemente il mio appello a Lei fu intenso. Evidentemente la mia anima era colma di terrore, ma avevo appena ricordato e pronunciato il suo nome, quando attorno a noi apparve all'improvviso una sorta di nebbia bianca che presto iniziò ad avvolgere la brutta ressa di spiriti maligni. Li nascose ai miei occhi prima che si potessero ritirare da noi. I loro boati e schiamazzi furono ancora udibili a lungo, ma mentre diminuivano poco a poco di intensità e si attutivano, ero in grado di giudicare che il terribile inseguimento era stato gradualmente lasciato alle spalle.

 

 

XXI

 

Il senso di paura che provai ebbe così tanta presa su di me che non sapevo neppure dire se avessimo continuato il nostro volo durante questo terribile incontro, o se ci avesse fermati per un certo tempo. Mi accorsi che ci stavamo muovendo, che stavamo continuando a salire in alto, solo quando l'immensa estensione dello spazio si aprì di nuovo di fronte a me.

 

Dopo avere percorso una certa distanza, vidi al di sopra di me una luce brillante che mi sembrava simile alla nostra luce del sole, ma molto più intensa. Là, evidentemente, si trovava qualche tipo di regno della luce.

 

"Sì, proprio un regno, colmo del potere della luce," pensai, tirando a indovinare per mezzo di un certo tipo di sensazione che ancora non comprendevo. Infatti, non si proiettavano ombre di alcun tipo in questa luce. "Ma come può esserci una luce senza ombre?" Immediatamente le mie concezioni perplesse fecero la loro comparsa.

 

E all'improvviso fummo rapidamente trasportati nel campo di questa luce, che letteralmente mi accecava. Chiusi gli occhi, mi portai le mani al volto, ma questo non mi aiutava, dato che le mie mani non davano ombra. E che cosa significava comunque una simile protezione in questo luogo?

 

"Dio mio, cos'è questo, di che tipo di luce si tratta? Per me è proprio come l'oscurità! Non riesco a vedere, e come nel buio, non scorgo nulla," imploravo, paragonando la mia visione terrena a quella del mio stato presente, e dimenticando, o forse senza neppure capire, che ora un simile paragone non era di alcuna utilità, dato che ora riuscivo anche a vedere nel buio.

 

Questa incapacità di vedere, di guardare, faceva crescere in me la paura dell'ignoto, naturale in questo stato sconosciuto in cui mi trovavo, e pensai allarmato: "Che cosa verrà in seguito? Passeremo tra poco oltre questa sfera di luce, e ci sarà un limite, una fine?"

 

Ma accadde qualcosa di differente. Maestosamente, senza collera, ma in modo fermo e colmo di autorità, risuonarono dall'alto le parole: "Non è pronto!"

 

E subito la nostra rapida salita terminò, e subito iniziammo a discendere.

 

Ma prima di lasciare questo regno, mi fu data la capacità di comprendere un fenomeno quanto mai meraviglioso.

 

Erano appena risuonate dall'alto le suddette parole, che apparentemente ogni cosa in quel mondo, ogni particella di polvere, fino al più piccolo atomo, ripose alle parole di proprio accordo, come se un eco in molti milioni di forme le stesse ripetendo in una lingua che l'orecchio non poteva percepire, ma che la mente e il cuore percepivano e comprendevano, esprimendo il proprio parere unisono con la decisione appena decretata. E in questa unità di volontà v'era una tale meravigliosa armonia, e in questa armonia così tanta inesprimibile, esaltata felicità, che di fronte ad essa tutte le nostre seduzioni ed estasi mondane apparivano come un giorno tetro privo di luce solare. Questo eco multiplo risuonava sotto forma di un inimitabile accordo musicale, e tutta l'anima gli si tendeva incontro, rispondendo pienamente in uno stato privo di alcun affanno e in un ardente trasporto di zelo per essere una cosa sola con questa onnipresente, mirabile armonia.

 

 

XXII

 

Non compresi il senso reale delle parole che mi erano state rivolte, vale a dire, non capii che dovevo ritornare sulla terra e riprendere a vivere proprio come prima. Pensai che sarei stato portato da qualche altra parte, e un senso di timida protesta mi si risvegliò dentro, quando davanti a me, dapprima vaghe come nella nebbia del mattino, apparvero le linee di una città, e in seguito divennero chiaramente visibili strade a me ben note.

 

Qui vidi l'edificio dell'ospedale che conoscevo. Esattamente nello stesso modo di prima, attraverso le mura dell'edificio e le porte chiuse, fui condotto in una stanza a me completamente ignota. In questa stanza c'era una fila di tavoli coperti di vernice scura; e su uno di questi, coperto con qualcosa di bianco, vidi me stesso sdraiato, o più precisamente, il mio corpo morto, irrigidito.

 

Non lontano dal mio tavolo un omino dai capelli grigi vestito con una giacca marrone leggeva il Salterio, muovendo una candela ricurva di cera lungo le linee dagli ampi caratteri, e sull'altro lato, su un banco nero appoggiato al muro, sedeva mia sorella, che evidentemente era arrivata dopo che le era stata notificata la mia morte, e chino su di lei, intento a dirle qualcosa sottovoce, stava suo marito.

 

"Hai udito la decisione di Dio?" mi disse accompagnandomi al tavolo il mio Angelo custode, che fino a quel momento non aveva parlato. E dopo avere indicato con la sua mano il mio corpo morto, disse: "Entra e preparati."

 

E in seguito, entrambi gli Angeli divennero invisibili.

 

 

XXIII

 

Ricordo con piena chiarezza ciò che accadde dopo queste parole.

 

Dapprima mi sentii come se qualcosa mi schiacciasse; seguirono quindi una sensazione spiacevole di freddo, e il ritorno della capacità (che finora era assente) di provare simili sensazioni mi riportò vivamente in mente le concezioni precedenti della vita. Mi prese un senso di profonda tristezza, come se avessi perso qualcosa (devo notare qui che questo senso mi è sempre rimasto, dopo questa esperienza).

 

Il desiderio di ritornare alla mia forma di vita precedente, anche se finora non c'era nulla di particolarmente triste associato a essa, non mi si risvegliò affatto; in nessun modo vi ero attratto, nulla di essa mi interessava.

 

Caro lettore, hai mai avuto occasione di vedere una fotografia che sia rimasta per un tempo prolungato in un luogo umido? L'immagine si conserva, ma vaga, offuscata dall'umidità, e al posto di un'immagine bella e definita si vede una specie di continua nebbia grigia. Nello stesso modo la vita di quaggiù mi sembrava sbiadita, come una sorta di dipinto acquoso e monotono, e così appare ai miei occhi ancora al momento presente.

 

Come e perché io abbia improvvisamente avuto queste sensazioni, non lo so, ma una cosa è certa: non provavo in alcun modo attrazione per questo mondo. L'orrore che avevo sperimentato in precedenza riguardo alla mia separazione dal mondo circostante, ora, per qualche ragione, perse per me il suo strano significato. Per esempio, vedevo mia sorella e sapevo di non poter comunicare con lei, ma ciò non mi disturbava in alcun modo. Ero contento di vederla e di sapere tutto di lei. A differenza di prima, non avevo neppure il desiderio di annunciare in qualche modo la mia presenza.

 

E inoltre, questa non era la mia principale preoccupazione. La sensazione di pressione da tutte le parti mi creava una sofferenza sempre crescente. Mi sembrava di essere schiacciato in un paio di pinze, e questa sensazione cresceva con il passare del tempo. Da parte mia, non rimasi passivo. Non sono in grado di ricordare con sicurezza se cercai di liberarmi da questa sensazione, o se non feci sforzi specifici per contrastarla. Ricordo solo di avere provato una sensazione di costrizione sempre crescente attorno a me, e alla fine, di avere perso conoscenza.

 

 

XXIV

 

Quando ripresi conoscenza, mi trovai sdraiato su un letto in un reparto dell'ospedale.

 

Aprendo gli occhi, mi vidi circondato quasi da una folla di persone curiose, o che parlavano tra loro: volti che mi osservavano con una forzata attenzione.

 

Al mio capezzale il primario sedeva su uno sgabello che era stato spostato accanto al mio letto, e cercava di mantenere la sua consueta aria di grandezza. La sua postura e i suoi modi sembravano dire che tutto questo era solo un avvenimento comune, e che non v'era nulla di sconvolgente a proposito; ma allo stesso tempo, una tesa attenzione e confusione si potevano vedere nei suoi occhi fissi su di me.

 

Gli occhi del dottore più giovane, naturalmente, senza alcuna riserva erano letteralmente attaccati a me, come se egli cercasse di attraversarmi con lo sguardo.

 

Ai piedi del mio letto, vestita a lutto e con un volto pallido ed eccitato, stava mia sorella, e accanto a lei mio cognato; alle spalle di mia sorella il volto relativamente più calmo dell'infermiera; e ancora alle sue spalle, era visibile la fisionomia completamente atterrita del nostro giovane assistente chirurgo.

 

Riprendendomi completamente, salutai prima di tutti mia sorella, che venne verso di me, mi abbracciò e iniziò a piangere.

 

"Bene, mio caro, certamente ci ha fatto prendere un bello spavento!" disse il dottore più giovane, con l'impazienza di condividere prima possibile le impressioni e le osservazioni straordinarie che sono caratteristiche della giovinezza. "Se solo sapesse quello che le è capitato!"

 

"Ebbene, mi ricordo tutto quello che mi è capitato," dissi:

 

"Com'è possibile? Può essere che lei non abbia perso conoscenza?"

 

"Apparentemente no!"

 

"Questo è molto strano, è estremamente strano," disse, gettando un'occhiata al primario; "È strano perché lei era immobile come un guscio vuoto, senza il minimo segno di vita, non ne dava nemmeno un cenno. nemmeno uno. Com'è possibile mantenere la consapevolezza in un simile stato?"

 

"Evidentemente lo è, dato che ho visto ed ero conscio di tutto".

 

"Per quanto riguarda la vista, non poteva vedere nulla, ma solo udire e provare sensazioni. E ha davvero udito e compreso tutto? Ha udito come l'hanno lavato e vestito...?"

 

"No, non ho provato nulla di simile. In genere, ero del tutto insensibile a quello che accadeva al mio corpo."

 

"Come può essere? Dice che ricorda tutto ciò che le è accaduto, ma dice di non aver provato nulla?"

 

"Dico che non sentivo ciò che facevano al mio corpo, essendo sotto la forte influenza di ciò che sperimentavo in quel momento," dissi, pensando che una spiegazione del genere fosse del tutto sufficiente a far comprendere le mie parole.

 

"Ebbene?" ... disse il dottore, vedendo che mi fermavo.

 

Qui esitai un attimo, non sapendo che altro mi si chiedeva. Mi sembrava che tutto fosse così chiaro, e mi limitai a ripetere:

 

"Vi ho detto che non sentivo il mio corpo, e quindi tutto ciò che aveva relazione con questo. Ora, il mio corpo non è tutto il mio essere, vero? Perché non era tutto il mio essere che giaceva come un guscio vuoto. Il resto di me era vivo e continuava a funzionare." Pensavo che quella divisione, o più propriamente divisibilità nella individualità, che per me era ora più chiara del sole, fosse altrettanto evidente alle persone con cui parlavo.

 

Evidentemente non ero ancora ritornato del tutto alla mia vita precedente, non mi mettevo al livello del loro punto di vista, e parlando di ciò che ora sapevo e provavo, non capivo che le mie parole sembravano piuttosto il delirio di un matto, alle orecchie di persone che non avevano provato le stesse cose, e che le scartavano come bugie.

 

 

XXV

 

Il dottore più giovane voleva ancora replicare o chiedermi qualcosa, ma il primario gli fece un cenno di lasciarmi solo. Non so davvero perché, se questa quiete mi fosse di fatto necessaria, o perché dalle mie parole avesse concluso che la mia mente non era ancora ritornata a funzionare regolarmente, e pertanto non c'era ragione di continuare a discutere con me.

 

Dopo essersi convinti che il meccanismo organico del mio corpo era tornato più o meno in buone condizioni, mi auscultarono con lo stetoscopio. Non c'era segno di edema nei polmoni. In seguito, dopo avermi dato, a quanto mi ricordo, una tazza di brodo da bere, uscirono tutti dal reparto tranne mia sorella, a cui fu permesso di rimanere con me ancora per un certo tempo.

 

Apparentemente pensarono che ricordarmi quanto era successo avrebbe potuto suscitare in me solo ansietà, facendomi sorgere alla mente ogni tipo di terribile congettura e ansietà, come la paura di essere sepolto vivo, o cose del genere. Tutti quelli che mi circondavano evitavano di parlarmene. Solo il dottore giovane faceva eccezione e non si comportava con questa riserva.

 

Evidentemente era estremamente interessato a ciò che mi era capitato; e diverse volte nel corso della giornata mi veniva a trovare, sia per darmi una semplice occhiata e vedere come andavano le cose, sia per pormi alcune domande che gli venivano in mente. A volte veniva da solo, a volte portava qualche amico, nella maggior parte dei casi uno studente, per vedere l'uomo che era finito nella camera mortuaria.

 

Al terzo o al quarto giorno, trovandomi apparentemente abbastanza in forze, o forse solo perché aveva perso la pazienza di aspettare più a lungo, venne alla sera nel mio reparto ed ebbe con me una conversazione più prolungata.

 

Dopo avermi sentito il polso per un po', disse:

 

"Straordinario. In tutti questi giorni la sua pulsazione è stata totalmente regolare, senza alcuno sbalzo o deviazione, ma se solo sapesse ciò che le era capitato! Un miracolo, è l'unica spiegazione possibile!"

 

A questo punto mi ero di nuovo abituato a me stesso come essere terreno, ero rientrato nella cornice della mia vita precedente, ed ero giunto a comprendere la natura straordinaria di ciò che mi era capitato. Comprendevo anche che solo io ne ero a conoscenza, e che quei miracoli di cui parlava il dottore erano, come concetto, solo un tipo di manifestazione esterna di ciò che mi era di fatto accaduto, ovvero dal punto di vista medico qualche tipo di rarità patologica prima d'ora non compresa, e chiesi:

 

"Quando ha avuto luogo in me questo miracolo? Prima che tornassi in vita?"

 

"Sì, prima che tornasse in vita. Non parlo solo per me stesso. Non ho che poca esperienza, e finora non ho mai visto un caso di letargia; ma a qualsiasi medico anziano io racconti questo caso, vedo che tutti restano sbalorditi, e immagino che rifiutino di credere alle mie parole.

 

"Penso che lei sappia, e per di più non è necessario sapere. È evidente da sé che quando una persona soffre anche di un semplice svenimento, tutti gli organi funzionano dapprima molto debolmente. È a mala pena possibile percepire una pulsazione, il respiro è completamente impercettibile, non so sente il battito del cuore. Ma con lei si è verificato qualcosa di inimmaginabile: i polmoni hanno iniziato all'improvviso a soffiare come mantici giganti, il cuore ha preso a battere come un martello contro l'incudine. No, uno non può proprio esprimerlo a parole. Bisogna averlo visto. Lei, vede, era in un tipo di stato che somiglia a quello di un vulcano prima dell'eruzione. Faceva venire i brividi alla schiena, ed era pauroso per quanti stavano attorno. Sembrava che in un breve momento lei sarebbe scoppiato a pezzi, perché nessun organismo può sopportare una così intensa attività.

 

"Hmm... non mi meraviglio allora di avere perduto conoscenza prima di riprendere conoscenza" - pensai.

 

E allo stesso modo, prima del rapporto del dottore, continuavo a essere perplesso, e non sapevo spiegare quella strana - così allora mi sembrava - condizione, che mentre stavo morendo, vale a dire, mentre tutto mi stava gradualmente abbandonando, non avevo perso consapevolezza neppure per un istante, ma quando ritornai in vita, caddi in uno stato di svenimento. Ora tutto mi diveniva chiaro: mentre morivo, anche se avevo la sensazione di essere schiacciato da ogni lato, al momento dell'estrema agonia, tutto si risolse quando abbandonai ciò che causava questa sensazione; l'anima da sola, invece, è apparentemente incapace di svenire. Tuttavia, quando mi fu necessario ritornare a questa vita, al contrario, mi toccò riprendere su di me ciò che era soggetto a tutte le sofferenze fisiche, inclusi gli svenimenti.

 

 

XXVI

 

Nel frattempo, il dottore continuò:

 

"E non dimentichi che questo non è accaduto dopo qualche tipo di svenimento, ma dopo una letargia di trentasei ore! Può giudicare la forza di questo processo dal fatto che era praticamente congelato, e dopo 15-20 minuti i suoi arti erano già flessibili, ed entro un'ora anche le estremità erano tiepide. E questo è incredibile, come se fosse una storia inventata. E così, quando ne parlo, si rifiutano di credermi."

 

"E sa, dottore, perché sembra così straordinario?", dissi.

 

"Perché?"

 

"Secondo le sue concezioni mediche, sotto la classificazione di letargia, si trova qualcosa di simile agli svenimenti?"

 

"Sì, ma portato ai livelli estremi..."

 

"Ebbene, ne consegue che la mia non era letargia."

 

"E cos'era allora?"

 

"Ne consegue che di fatto sono morto e sono tornato in vita. Se ci fosse stato solo un indebolimento delle funzioni vitali nell'organismo, allora, naturalmente, queste sarebbero tornate senza causare lo 'sconvolgimento' che ha avuto luogo; ma dato che era necessario che il mio corpo si preparasse in un modo straordinario a ricevere la mia anima, allora anche tutte le membra dovevano lavorare in un modo straordinario."

 

Il dottore mi aveva ascoltato attentamente in ogni momento, ma dopo queste parole il suo volto assunse un'espressione di indifferenza.

 

"Lei sta scherzando; ma per noi medici, questo è un caso estremamente interessante."

 

"Lasci che la rassicuri, non ho alcuna intenzione di scherzare. Io stesso credo fermamente a quanto sto dicendo, e vorrei che anche lei ci credesse... ebbene, almeno allo scopo di indagare seriamente un fenomeno così eccezionale. Lei dice che non ero in grado di vedere nulla, ma vuole che le descriva tutto l'ambiente della camera mortuaria, dove non ero mai stato da persona vivente? Vuole che le racconti chi di voi si trovava lì intorno, e ciò che stavate facendo al momento della mia morte e subito dopo?"

 

Il dottore apparve interessato a quanto gli avevo detto, e quando gli raccontai i miei ricordi di tutto ciò che aveva avuto luogo, sembrò una persona gettata nello squilibrio, e passando dal suo stato consueto di equanimità alla confusione, balbettò:

 

"N.. n.., bene, s.. s.. sì, strano; qualche sorta di chiaroveggenza..."

 

"Ora, dottore, c'è qualcosa che non quadra nei suoi pensieri: uno stato di esistenza simile a quello di un guscio congelato - e la chiaroveggenza!"

 

Ma la mia narrazione di quello stato in cui mi trovai immediatamente dopo la separazione tra la mia anima e il mio corpo produsse estrema sorpresa: come vidi tutto, vidi che si muovevano attorno al mio corpo, che, a causa della sua insensibilità, per me aveva il significato di un abito smesso; di come volevo toccare o spingere qualcuno per attirare l'attenzione su me stesso; e di come l'aria, che in quel momento era divenuta per me troppo densa, non mi permetteva di entrare in contatto con gli oggetti attorno a me.

 

Il dottore ascoltò tutto quasi a bocca aperta e con gli occhi spalancati; e avevo da poco finito, quando si affrettò a congedarsi da me e se ne andò, correndo apparentemente a condividere con gli altri questa mia narrazione estremamente interessante.

 

 

XXVII

 

Sembra che ne avesse parlato al primario, perché questi, durante il giro di visita del giorno seguente, dopo avermi esaminato, si soffermò al mio capezzale e disse:

 

"Sembra che lei abbia avuto allucinazioni nel corso della letargia. Cerchi pertanto di liberarsene, altrimenti..."

 

"Potrei diventare pazzo?" Suggerii.

 

"No, questo sarebbe troppo, ma potrebbe trasformarsi in una mania."

 

"Possono esserci davvero allucinazioni durante la letargia?"

 

"Perché lo chiede? Lei lo sa meglio di me."

 

"Un caso singolo, anche se riguarda me stesso, non mi sembra una prova sufficiente. Mi piacerebbe conoscere le osservazioni generali riguardo a questa condizione."

 

"E che ne faremmo del suo caso? Non è forse un fatto reale?"

 

"Sì, ma se tutti i casi sono ricondotti a un solo tipo, non si chiude la porta all'indagine di fenomeni diversi, di diversi sintomi di malattia, radicando attraverso simili attitudini un indesiderabile pregiudizio nelle diagnosi mediche?"

 

"Ma qui non è possibile nulla del genere. Che lei sia stato in letargia - questo è al di là di ogni dubbio. Di conseguenza, dunque, dobbiamo accettare ciò che le è successo come una cosa possibile in questo stato."

 

"E mi dica, dottore, c'è qualche causa per l'apparizione della letargia in una malattia come la polmonite?"

 

"La medicina non può indicare quali elementi esatti ne siano la causa, poiché appare in ogni tipo di malattia; e vi sono stati anche casi di persone cadute in sonno letargico senza il previo concorso di alcun tipo di malattia, mentre erano in apparenza completamente sani."

 

"E può un edema polmonare passare da solo durante la letargia, vale a dire nel tempo in cui il cuore è inattivo, e di conseguenza, una crescita progressiva di un edema non incontra alcun ostacolo?"

 

"Dato che così è accaduto a lei, ne consegue che è possibile, anche se, mi creda, il suo edema è passato quando ha ripreso i sensi."

 

"Nel corso di parecchi minuti?"

 

"Ebbene, dunque, in diversi minuti... e magari anche prima. Un'attività del cuore e dei polmoni come quella che ha avuto luogo al momento del suo risveglio può, a quanto sembra, persino spezzare il ghiaccio del Volga, e non solo disperdere in breve tempo qualsiasi tipo di edema in un breve arco di tempo."

"E potrebbero i polmoni edemici e compressi funzionare in questo modo anche in casi come il mio?"

"Ne consegue che potrebbero."

 

"Perciò, non c'è nulla di sorprendente o di insolito in ciò che mi è capitato?"

 

"No, perché? Questo, in ogni caso, è un fenomeno che si osserva raramente."

 

"Raramente, o in tali condizioni, in tali circostanze - mai?"

 

"Hmm. Come potremmo dire mai, quando è capitato nel suo caso?"

 

"Di conseguenza un edema può passare da solo, anche quando tutti gli organi sono inattivi; e un cuore compresso da un edema, e un paio di polmoni edemici, possono, se è il caso, funzionare a puro scopo di gloria. Mi sembra che non ci sia ragione per morire di edema polmonare. Ma mi dica, dottore, si può guarire da una letargia che è arrivata durante un edema polmonare, vale a dire, uscire allo stesso tempo da due malanni così gravi?"

 

Un sorriso ironico apparve sul volto del dottore.

 

"Vede a che punto siamo arrivato: non l'ho avvertita invano riguardo all'apparizione di una mania," replicò. "Sta continuamente cercando di attribuire ciò che le è successo ad altre cause, ma non alla letargia, e sta facendo queste domande con uno scopo preciso..."

 

"Con lo scopo di convincermi," pensai, "di chi di noi due sia un maniaco: io, che desidero mettere alla prova, attraverso le conclusioni della scienza, le basi della classificazione che lei ha fatto del mio stato, o lei, che contro ogni possibilità, mette ogni spiegazione sotto la singola classificazione che ha nella sua science."

 

Ma dissi queste parole:

 

"Le faccio queste domande per mostrarle che non è detto che ogni uomo che vede volare un fiocco di neve sia in grado, nonostante le indicazioni del calendario e gli alberi in fiore, di affermare in ogni caso che è inverno. Infatti ricordo io stesso che una volta cadde la neve e il calendario segnava il dodici di maggio, e gli alberi nell'orto di mio padre erano in fiore.

 

Questa mia risposta apparentemente convinse il dottore che era arrivato troppo tardi con il suo avvertimento, che io già ero in preda a una mania, e non replicò più; e io smisi di fargli domande (...).

 

(1) Il metafisico, di Hemnitzer. Una favola che racconta di un uomo che lascia la sua patria e va all'estero a studiare. Qui la sua mente viene riempita di dati fuorvianti, e ritornando in patria cade in una buca nel terreno da cui non riesce a uscire da solo. I suoi compaesani gli gettano una corda, ma invece di prenderla e arrampicarsi fuori dalla buca, egli si perde in pensieri sulla natura della corda, la sua utilità, e in altri argomenti correlati. I compaesani si stancano di aspettarlo, e lo lasciano a sedere nella buca.

 

(2) E tale resta per me fino a oggi, anche se in seguito feci domande a molti padri spirituali, se ci fosse negli insegnamenti della nostra Chiesa o nelle opere dei Santi Padri una qualunque indicazione della sua apparizione al letto di morte di un essere umano. Ma fino al presente ho udito qualcosa solo da un semplice viaggiatore, che uno dovrebbe pregare il proprio "angelo dell'incontro"; alla mia domanda, 'che cos'è un angelo dell'incontro', si è limitato a dirmi brevemente: "Ma è l'angelo che da là viene incontro alla tua anima." Di lui non ho saputo più nulla.

 

 
Un'obiezione cristiana ortodossa al suicidio assistito

I cristiani ortodossi non cercano la sofferenza per se stessa, ma sanno che vivere fedelmente in un mondo di corruzione richiede spesso dolore e lotte di vario genere.

Ho sentito qualcosa alla radio nazionale del mattino, che l'altro giorno che ha ottenuto la mia attenzione. Un rapporto su un disegno di legge sul suicidio assistito in California ha dichiarato che la proposta di legge avrebbe permesso ai malati terminali di porre fine alla loro vita. Quel modo di presentare le cose oscurava totalmente il fatto che tale normativa avrebbe coinvolto medici, e presumibilmente altri operatori sanitari, a prendere misure per porre intenzionalmente fine alla vita dei loro pazienti. In questo modo la pratica della medicina sarebbe radicalmente distorta dal perseguire la salute dei pazienti a perseguire la loro morte in nome del porre fine alla sofferenza. A volte, terminare la sofferenza richiede il terminare la vita del malato, e questa non è semplicemente parte della pratica della medicina, così come la conosciamo nella cultura occidentale.

No, questa non è un'affermazione filosofica astratta, ma qualcosa che nasce da quello che medici, infermieri e altri guaritori fanno ogni giorno. Per esempio, quando vado dal mio medico, ho fiducia che sia unilateralmente focalizzato sulla mia salute. Se si limita ad aiutarmi a commettere suicidio, non avrei più fiducia in lui perché la sua identità morale e il nostro rapporto cambierebbero profondamente. Quando i medici prescrivono farmaci letali o comunque agiscono intenzionalmente per facilitare la morte dei loro pazienti, anche su richiesta del paziente, non praticano più la medicina così come l'abbiamo conosciuta.

Per esempio, i medici non somministrano iniezioni letali per la pena di morte, perché questo è antitetico all'arte della guarigione. Se la nostra società perde l'identità morale unica dei medici, perderemo molto. Un seria vocazione richiede lo sviluppo di un carattere distinto attraverso una pratica distinta. Contrariamente alle tendenze popolari, non tutto e non tutti possono essere ridotti a individui autonomi che servono i desideri di altri individui autonomi. Il cliente non ha sempre ragione, tranne che in una società materialistica depravata in cui le persone diventano poco più che unità economiche anonime o fasci di diritti senza volto che non servono nulla di più profondo dei propri desideri immediati. E se il cliente non ha sempre ragione, certamente ne ha ancora meno il paziente che entra in ua struttura orientata alla salute, e non necessariamente a tutto ciò che desidera il paziente.

Il suicidio assistito invita all'abuso di anziani, malati e morenti da parte di coloro che stanno per ereditare le loro proprietà. Queste sono spesso le stesse persone che giocano un ruolo dominante nell'influenzare le decisioni di trattamento dei pazienti debilitati. Allo stesso modo, non dovrebbe sorprendere nessuno che enti governativi, compagnie di assicurazione e istituzioni sanitarie saranno probabilmente inclini a trovare soluzioni per ridurre le loro spese per i pazienti alla fine della vita, incoraggiando le soluzioni letali per porre fine alla loro sofferenza e risparmiare denaro sui loro bilanci. Probabilmente a questi sviluppi seguiranno maggiori aspettative della società, causando un'aspettativa sociale che i nostri vicini più deboli esercitino la loro libertà di uccidersi. I nostri cittadini più vulnerabili saranno considerati scomodi e incoraggiati a porre fine alla loro sofferenza mettendo fine alla loro vita. Le competenze di cura paziente per i malati e gli aziani diminuiranno di conseguenza. Il culto dei giovani e sani fiorirà in nome della liberazione a scapito degli anziani e malati. No, non è una bel quadro.

Il movimento degli hospice, i praticanti di cure palliative, e altri intimamente coinvolti nella cura dei malati e morenti sanno che il trattamento per dare più conforto possibile ai malati terminali è sottosviluppato nella medicina americana. Siamo appassionati di tecnologia di trattamento ad alta sostegno vitale, anche se è abbastanza gravosa e fa ruotare l'intera esistenza di un paziente intorno alle procedure mediche. Sicuramente, molti pazienti che vogliono il suicidio assistito non vi ricorrono se hanno ricevuto adeguate cure palliative per aiutarli a vivere più comodamente possibile i loro ultimi giorni. E se sono a casa loro, sostenuti dai loro cari in ambienti familiari, saranno molto più propensi ad abbracciare le lotte di questo ultimo segmento del loro viaggio di quanto lo sarebbero in un contesto istituzionalizzato con priorità diverse dalla comodità.

Forse alla base di questi dibattiti è il significato della sofferenza. L'atteggiamento dominante oggi sembra essere che la sofferenza è un affronto inutile alla propria dignità. Beh, per quelli che si formano nella nostra cultura sempre più individualistica e edonista, questa  non è una conclusione sorprendente. In netto contrasto, i cristiani ortodossi non cercano la sofferenza per se stessa, ma sanno che vivere fedelmente in un mondo di corruzione spesso richiede dolore e lotte di vario genere. Queste sfide ci danno l'opportunità di crescere in dipendenza da Dio, in umiltà e amore per i nostri vicini, compresi quelli che ci hanno a cuore quando siamo malati e deboli. Sono opportunità di prendere la nostra croce, seguire Cristo, e crescere nella santità.

Anche se dovremmo rifiutare le cure mediche che rendono la nostra esistenza semplicemente una funzione di tale trattamento come se fosse un falso dio, dovremmo accettare le cure che ci aiutano a offrire la nostra vita al Signore e al nostro prossimo al meglio possibile, date le circostanze che abbiamo di fronte. Per coloro che adorano un Signore che ha guarito i malati, ha risuscitato i morti, ed è risorto vittorioso sull'Ade il terzo giorno, questo non potrà mai significare scegliere la morte come fine a se stessa. Vorrà dire, tuttavia, rifiutareo le forme eccessivamente onerose e, in definitiva, inutili di trattamento al fine di prepararsi a una partenza tranquilla, indolore, e irreprensibile da questa vita.

Quanto più i nostri familiari e medici conoscono le nostre intenzioni a questo proposito, tanto meglio per tutti gli interessati. E quanto meno la pratica della medicina viene danneggiata dalla ricerca intenzionale della morte, tanto meglio sarà per tutti gli interessati, in particolare per i pazienti.

Padre Philip LeMasters è il parroco della chiesa ortodossa di san Luca ad Abilene, Texas. È autore di diversi libri e tiene conferenze introduttive sulla Chiesa ortodossa, e gestisce il blog Eastern Christian Insights

 
San Kevin di Glendalough

San Kevin di Glendalough (+618)

Icona di San Kevin di Glendalough,

dipinta dall’iconografo serbo-australiano Petar Stefanovic

Festa: 3/16 giugno

Tropario (Tono 8°)

Hai avuto il privilegio di vivere in un'epoca di santi, o padre Kevin, e sei stato battezzato da un santo, educato da un altro e sepolto da un terzo. Prega Dio affinché Egli faccia sorgere dei santi ai nostri giorni per aitarci, sostenerci e guidarci verso la salvezza.

Tropario di san Glunshallaich (Tono 1°)

O san Glunshallaich, dopo essere stato convertito dal santo abate Kevin, sei stato suo collaboratore e costante compagno, non allontanandoti da lui neppure nella tomba; assieme a lui intercedi presso Dio per la salvezza delle nostre anime.

 

San Kevin nacque senza dolori di parto dalla moglie di un nobile di Leinster, come segno che avrebbe portato a compimento la profezia di san Patrizio, riguardo a un uomo che avrebbe evangelizzato la regione dell'Irlanda a sud di Dublino. Alla nascita gli fu dato il nome di Coemgen, che significava "nascita risplendente." Fu battezzato da san Cronan di Roscrea (28 aprile / 11 maggio) con il nome di Kevin, che significa "nobile" (= Eugenio). Fu portato in monastero a Cell na Manach (oggi Kilmanach) vicino a Dublino, all'età di sette anni per essere educato da san Petroc di cornovaglia (+ 594, 4/17 giugno). Divenuto adulto, fu ordinato prete. Si ritirò in solitudine in una caverna delle alte colline sopra a Glendalough, nella Contea di Wicklow, dove usò come altare una tomba dell'età del bronzo. Visse per sette anni vestendosi di pelli e mangiando foglie di ortica e di acetosella. Un contadino di nome Dima lo trovò nella sua grotta e lo convinse a uscirne. Kevin, che era tanto indebolito da dover essere trasportato in barella, accettò quella chiamata come un ordine divino, e iniziò a radunare alcuni discepoli. In seguito evangelizzò gran parte della regione, scontrandosi spesso con stregoni pagani, e sconfiggendoli in modo miracoloso. Fondò a Glendalough un comunità monastica tanto grande che fu definita una città monastica. La sua chiesa esiste ancora oggi. Secondo una delle vite dei santi d'Irlanda, fece un pellegrinaggio a Roma da dove portò molte reliquie di santi. Assistito dal suo compagno di ascesi san Glunshallaich, Kevin fu abate della sua comunità fino alla morte in età estremamente avanzata, intorno all'anno 618. La sua comunità di Glendalough divenne uno dei quattro maggiori centri di pellegrinaggio in Irlanda; san Kevin è uno dei principali patroni della città di Dublino, ed è venerato in tutta l'Irlanda.

 
Padre Vsevolod Chaplin: “Frammenti”

L'arciprete Vsevolod Anatolyevich Chaplin, nato il 31 marzo 1968, è il direttore del Dipartimento sinodale del Patriarcato di Mosca per la Cooperazione tra Chiesa e società. I “Frammenti” da lui raccolti sono pensieri su vari argomenti, a partire dalla vita della Chiesa alla politica internazionale, pubblicati negli scorsi anni su Interfax-Religion. In modo istruttivo e divertente, spesso satirico, padre Vsevolod ci porta a considerare il grande lavoro fatto dalla Chiesa ortodossa russa negli ultimi decenni, e ancora in atto oggi. Presentiamo la nostra traduzione italiana dei “Frammenti” nella sezione “Figure dell’Ortodossia contemporanea” dei documenti.

 
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Come sistemare in casa un angolo delle icone

I parrocchiani chiedono spesso come si dovrebbe sistemare una cappella domestica, o angolo di preghiera. Offriamo alla vostra attenzione l'articolo di Serge Alexeev, e speriamo che i nostri lettori vi potranno trovare le risposte alle domande poste più frequentemente. L'articolo è stato abbreviato.

Quantità e qualità sono due cose diverse. Sarebbe ingenuo pensare che quante più immagini sacre ci sono in casa di un cristiano ortodosso, tanto più pia è la sua vita. Una collezione disorganizzata di icone, riproduzioni e calendari da parete che copre una notevole quantità di spazio in casa può avere spesso un effetto contrario sulla propria vita spirituale.

Una collezione mal congegnata di icone può trasformarsi in qualcosa di semplicistico e senza senso, in cui lo scopo di preghiera della icona non ha alcun posto.

Tuttavia, è essenziale avere icone nella propria casa, in numero sufficiente, ma entro limiti ragionevoli.

In passato, sia in una fattoria sia in città, in casa di ogni famiglia ortodossa c'era sempre una mensola con le icone, o un'intera iconostasi da casa, che si trovava nel luogo più visibile. Il luogo in cui erano installate le icone era conosciuto come l'angolo frontale, l'angolo bello, l'angolo sacro, il luogo di Dio, o il kiot (chiosco).

Per i cristiani ortodossi, un'icona non è solo una raffigurazione del Signore Gesù Cristo, della Madre di Dio, dei santi, o di eventi della storia sacra e della Chiesa. Un'icona è un'immagine sacra, è quindi è al di fuori del regno della realtà ordinaria, ma non è da confondere con la vita quotidiana, ed è destinata esclusivamente alla comunione con Dio. Pertanto, lo scopo primario delle icone è la preghiera. L'icona è una finestra dal nostro mondo, il mondo terreno, sul mondo di sopra. E' la rivelazione di Dio nella forma e nel colore.

In questo modo, l'icona non è semplicemente una reliquia di famiglia da tramandare di generazione in generazione, ma una cosa sacra che unisce tutti i membri della famiglia durante la preghiera comune - la preghiera comune infatti può aver luogo solo se quelli che sono in piedi davanti alle icone si sono reciprocamente perdonati tutte le offese e hanno raggiunto l'unità.

Oggi, naturalmente, quando il televisore - che è esso stesso una sorta di finestra sul mondo variegato delle passioni umane - ha preso il posto delle icone nella casa, lo scopo dell'icona di famiglia, la tradizione della preghiera comune a casa e la consapevolezza della famiglia come "piccola Chiesa", sono andati perduti.

Pertanto, oggi un cristiano ortodosso potrebbe chiedere: Quali icone dovrei avere in casa mia? Come dovrebbero essere organizzate? Posso usare riproduzioni di icone? Cosa devo fare con le icone vecchie, fatiscenti?

Alcune di queste domande meritano una risposta inequivocabile, mentre altre non richiedono alcun tipo di raccomandazioni severe.

Dove si devono posizionare le icone a casa?

In un luogo libero e accessibile.

La natura concisa di tale risposta si ispira alla realtà della vita, piuttosto che all'assenza di requisiti canonici.

Naturalmente, è preferibile posizionare le icone sulla parete est di una stanza, perché "l'oriente" come concetto teologico ha un significato speciale nell'Ortodossia.

E il Signore Dio piantò un giardino a oriente in Eden, e vi collocò l'uomo che aveva plasmato (Genesi 2:8).

O Gerusalemme, guarda su di te verso est, ed ecco la gioia che viene a te da Dio (Baruc 4:36).

Poi lo spirito mi sollevò e mi portò fino alla porta orientale della casa del Signore, che guarda verso levante (Ezechiele 11:1).

Infatti, come il fulmine viene da levante e illumina fino a ponente, così sarà la venuta del Figlio dell'uomo (Matteo 24:27).

Ma cosa si dovrebbe fare se ci sono finestre o porte sul lato orientale della propria casa? In tal caso, si usano le altre mura.

Non si dovrebbero combinare le icone con oggetti decorativi di natura secolare, come statuette, vari tipi di quadri, ecc.

Non è opportuno mettere le icone su uno scaffale accanto a libri che non hanno nulla in comune con la fede ortodossa o che sono in conflitto con la dottrina cristiana sull'amore e sulla carità.

È assolutamente inammissibile avere accanto alle icone dei poster o calendari raffiguranti musicisti rock, atleti, o politici - gli idoli dell'epoca attuale. Questo diminuisce non solo il rispetto per le immagini sacre in misura inaccettabile, ma mette anche le icone sacre alla pari con gli idoli del mondo contemporaneo.

L'icona nell'angolo della casa può essere decorata con fiori naturali. Tradizionalmente, le icone più grandi sono spesso incorniciate con asciugamani. Questa tradizione risale all'antichità e ha un fondamento teologico. Secondo la tradizione, l'immagine del Salvatore è apparsa miracolosamente su un asciugamano durante la sua vita terrena, per aiutare un uomo sofferente. Dopo essersi lavato il volto, Cristo si asciugò il viso con un asciugamano pulito, su cui apparve l'immagine del suo volto. Il telo fu inviato a re Abgar, colpito da lebbra, nella città di Edessa, in Asia Minore. Dopo la guarigione, il sovrano e i suoi sudditi adottarono il cristianesimo e l'immagine "non fatta da mano umana" di Gesù Cristo fu posta su un "pannello permanente" e innalzato sopra le porte della città.

In tempi passati, il 29 agosto (nuovo calendario), giorno in cui la Chiesa commemora la traslazione dell'immagine "non fatta da mano umana" del nostro Signore Gesù Cristo da Edessa a Costantinopoli nel 944, era nota tra la gente come la festa del "telo" o del "lino del Salvatore", e in certo luoghi si benedicevano tessuti e asciugamani di stoffa filata in casa.

Questi asciugamani riccamente ricamati erano riservati per l'uso nell'angolo delle icone. Allo stesso modo, le icone erano incorniciate da asciugamani per essere usate durante i matrimoni e la benedizione delle acque. Così, per esempio, dopo il servizio della benedizione delle acque, quando il sacerdote aspergeva le icone con abbondante acqua santa, i fedeli pulivano le icone con teli speciali che poi incorporavano nell'angolo delle icone.

C'è una tradizione, dopo la celebrazione dell'ingresso del Signore in Gerusalemme (Domenica delle Palme), di conservare presso le icone i rami di salice benedetti in chiesa fino alla successiva Domenica delle Palme.

È consuetudine che a Pentecoste, il giorno della Santissima Trinità, le case e le icone siano decorate con rami di betulla come simbolo della Chiesa fiorente, munita del potere di grazia dello Spirito Santo.

Quali icone dovremmo avere in casa?

È essenziale avere icone del Salvatore e della Madre di Dio. L'immagine del Signore Gesù Cristo, che testimonia il mistero dell'Incarnazione e della salvezza del genere umano, e della Theotokos - la più perfetta di coloro che hanno vissuto sulla terra, degna della deificazione, e venerata come più onorabile dei cherubini e senza paragone più gloriosa dei serafini - sono una parte essenziale della casa cristiana ortodossa. L'icona di Cristo normalmente selezionata per la preghiera in casa è una raffigurazione a mezzo busto del Cristo Pantocratore.

Chi ha spazio per un maggior numero di icone in casa può integrare il loro angolo delle icone con raffigurazioni di vari santi venerati.

L'Ortodossia russa ha una forte tradizione di particolare venerazione per san Nicola il Taumaturgo, quasi ogni famiglia ortodossa ha una sua icona. Si deve notare che, insieme alle icone del Salvatore e della Madre di Dio, l'immagine di san Nicola il Taumaturgo ha sempre occupato un posto centrale nelle case dei cristiani ortodossi. Le persone venerano San Nicola come santo dotato di particolare grazia. Ciò deriva in gran parte dal fatto che, secondo il Tipico della Chiesa, ogni giovedì, quando la Chiesa offre preghiere ai santi apostoli, è dedicato anche a san Nicola il Taumaturgo, arcivescovo di Mira in Licia.

Tra le icone dei santi profeti di Dio, quella del profeta Elia ha un posto di rilievo, tra le icone dei Santi Apostoli spicca quella dei santi Pietro e Paolo, i capi tra gli apostoli.

Tra le immagini dei martiri per la fede cristiana, quelle che si trovano più frequentemente sono le icone del grande martire Giorgio il Portatore di trofei e del santo grande martire e guaritore Panteleimone.

Si raccomanda di avere raffigurazioni dei santi Evangelisti, di san Giovanni Battista, dei santi arcangeli Gabriele e Michele, così come le icone delle feste, per completare un angolo delle icone in casa.

La scelta di icone per la propria casa è sempre una questione individuale. La persona migliore per aiutare a fare queste scelte è un sacerdote - il padre spirituale della famiglia - ed è a lui o a qualcun altro del clero che ci si dovrebbe rivolgere per un consiglio.

Per quanto riguarda le riproduzioni fotografiche a colori delle icone, a volte ha più senso avere una buona riproduzione che non un'icona dipinta di scarsa qualità.

Un iconografo dovrebbe mantenere un atteggiamento molto esigente verso il suo lavoro. Proprio come un prete non serve la Liturgia senza la dovuta preparazione, l'iconografo deve accostarsi al suo servizio con piena consapevolezza della sua responsabilità. Purtroppo, sia nel passato sia oggi, si incontrano spesso esempi volgari di immagini che non hanno alcuna somiglianza con le icone. Così, se una data raffigurazione non evoca un senso di pietà e un senso di contatto con il sacro, o se è teologicamente sospetta o la sua esecuzione tecnica è poco professionale, sarebbe meglio non acquistarla.

Tuttavia, riproduzioni di icone canoniche montate su tavola e benedette in chiesa possono occupare un posto d'onore nell'iconostasi di casa.

Come devono essere organizzate le icone e in quale ordine?

Ci sono regole rigide in proposito?

In chiesa, sì. Per quanto riguarda l'angolo di preghiera a casa, si può limitare la discussione a poche regole principali.

Per esempio, una raccolta di icone appese senza un senso di simmetria, senza una disposizione ben congegnata, evoca un costante senso di insoddisfazione per la disposizione e un desiderio di cambiare tutto - cosa che spesso distrae dalla preghiera.

È altresì essenziale ricordare il principio della gerarchia: per esempio, non conviene posizionare l'icona di un santo venerato localmente sopra all'icona della santissima Trinità, del Salvatore, della Madre di Dio, o degli apostoli.

Proprio come su un'iconostasi classica, l'icona del Salvatore dovrebbe essere a destra, e quella della Madre di Dio a sinistra.

Quale dovrebbe essere il nostro atteggiamento verso gli oggetti sacri?

Essendo uno degli attributi di Dio (Isaia 6:3), la santità si riflette anche nei santi di Dio e negli oggetti fisici. Pertanto, il rispetto per le persone sante, gli oggetti sacri e le immagini, oltre alle persone che lottano per un'autentica comunione con Dio, sono manifestazioni di un unico ordine.

E sarete santi per me, perché io, il Signore, sono santo (Levitico 20:26).

Le icone familiari sono sempre state tenute in particolare venerazione. Dopo il battesimo, un bambino era portato di fronte a un'icona, dove il sacerdote o il padrone di casa avrebbe letto le preghiere. I genitori benedicevano i loro figli con un'icona alla prosecuzione degli studi, quando partivano per lunghi viaggi o si impegnavano nel servizio pubblico. Come segno della loro approvazione di un matrimonio, i genitori similmente benedicevano gli sposi con le icone. Inoltre, la partenza di una persona da questa vita si svolgeva alla presenza di icone.

È inappropriato litigare o comportarsi in modo chiassoso o comunque sconveniente di fronte alle immagini dei santi.

Si dovrebbe instillare la debita riverenza per le immagini sacre nei bambini a partire da un'età molto precoce.

Cosa si deve fare se la condizione di un'icona la rende inutilizzabile e non può essere restaurata?

In nessun caso una tale icona, anche se non è stata benedetta, deve essere semplicemente gettata via. Un oggetto sacro, anche se ha perso il suo aspetto originario, deve sempre essere trattato con riverenza.

Se la condizione dell'icona è deteriorata con l'età, dovrebbe essere portata in chiesa per essere bruciata nella fornace della chiesa. Se ciò non è possibile, si dovrebbe bruciare personalmente l'icona e seppellire le ceneri in un luogo che non sarà profanato o disturbato, per esempio, in un cimitero o sotto un albero in giardino.

I volti che ci guardano dalle icone appartengono all'eternità. Guardandoli, elevate a loro le vostre preghiere, chiedendo le loro intercessioni. Noi, abitanti del mondo terreno, non dovremmo mai dimenticare la chiamata eterna del nostro Salvatore al pentimento, alla perfezione, e alla deificazione di ogni anima umana.

 
Vita di Padre Paolo Florenskij

dell'Abate Herman e di Padre Damascene

Nota: Padre Paolo Florenskij viene definito santo in questo articolo, pubblicato su una rivista sorta nell'ambiente della Chiesa Russa all'Estero, che lo aveva già canonizzato come neomartire.

 

Paolo Florenskij, un martire della Chiesa Ortodossa, è stato chiamato "il Leonardo da Vinci russo." Maestro delle più svariate discipline, fu allo stesso tempo un genio matematico che divenne famoso nei campi dell'astronomia, della fisica e dell'ingegneria elettrica; un poeta di talento, musicista e storico dell'arte; un linguista ed etimologo versato in greco, latino, nella maggior parte delle lingue europee e in quelle del Caucaso, dell'Iran e dell'India; così come un originale pensatore religioso e metafisico. Era una personalità talmente rara da non essere a tutt'oggi pienamente compresa.  

1. I primi anni di Florenskij

Padre Paolo Florenskij nacque da una famiglia aristocratica in Transcaucasia il 9 gennaio 1882. Suo padre era un ingegnere di origine russa, e sua madre era armena. Anche se alcuni degli antenati di suo padre erano stati sacerdoti, il giovane Paolo non fu cresciuto in un'atmosfera religiosa, e non venne mai portato in chiesa. Le sue prime aspirazioni spirituali, pertanto, non furono il risultato di influenze esterne, ma di un risveglio interiore a una realtà più elevata. Attraverso un'esperienza della natura Paolo iniziò a provare meraviglia per l'insondabile sapienza di Dio, la bontà intrinseca della creazione, e la vastità dell'eternità.

Paolo completò la sua istruzione secondaria in Georgia, dove divennero evidenti le sue notevoli abilità in matematica .Dopo la laurea, subì una crisi spirituale che diede direzione alle sue aspirazioni giovanili. u in questo periodo, scrisse in seguito, che "le limitazioni della conoscenza fisica mi furono rivelate." Mentre fino ad allora aveva considerato la scienza come la chiave di tutti i segreti dell'esistenza, ora comprese l'esistenza di un livello di esistenza che essa non poteva arrivare a raggiungere. Abbastanza curiosamente, fu soltanto dopo essere giunto a questa conclusione che si sentì libero di usare la scienza in modo pratico, entro l'ordine inferiore - o materiale - dell'esistenza. "I miei sforzi verso l'applicazione tecnica della fisica," scrisse in seguito, "mi furono instillati da mio padre, ma si formarono solo quando la scienza cessò di essere [per me] un oggetto di fede. E in seguito, da quella stessa crisi, venne il mio interesse per la religione." (1)

Florenskij si iscrisse al Dipartimento di Fisica e Matematica dell'Università di Mosca, laureandosi nel 1904. In quest'epoca la sua conversione alla Fede dei suoi padri - il cristianesimo ortodosso - era ormai completa, e costituì il più importante elemento della sua vita.

Come scrisse uno dei suoi contemporanei, tutto il carattere di Florenskij divenne contrassegnato da "una rivolta interiore contro il mondo." Non poteva non detestare le norme prescritte che fossero determinate dal modo in cui il mondo pensa. Le considerava una maschera che rende chi la porta accettabile a tutti, trascinandolo in un'esistenza confortevole a spese della vendita delle sue più alte aspirazioni alla Verità. La sua ribellione alla "standardizzazione" e ai comportamenti prescritti non veniva tanto dalla sua volontà, quanto piuttosto dalla sua stessa natura, segnata fin dalla sua infanzia da un marchio di unicità.

2. L'anziano Isidoro

Nel 1904, Florenskij si iscrisse all'Accademia Teologica di Mosca, che a quel tempo era diretta da un grande gerarca che avrebbe in seguito condiviso il fato di martirio di Florenskij: l'Arcivescovo Teodoro Pozdeyev.

Mentre studiava all'Accademia, Florenskij venne in contatto con un uomo che avrebbe profondamente influenzato il suo atteggiamento verso il cristianesimo e la vita spirituale. Era l'anziano Isidoro, che allora viveva in una piccola capanna accanto alla Skiti del Getsemani, che era vicina all'Accademia. Molti dei monaci alla skiti consideravano Isidoro come un tipo eccentrico. La classe colta non prestava alcuna attenzione a persone come lui, che disprezzavano come mudzhik (contadini) illetterati. Erano soprattutto i mudzhik come Isidoro che apprezzavano che apprezzavano la semplicità delle sue parole e l'abbondanza dell'amore - la più alta delle virtù cristiane - che si rifletteva in ogni istante sul suo volto radioso. Florenskij, che amava più di tutto ciò che era genuino e sincero, vide Isidoro nello stesso modo in cui lo vedevano i paesani più semplici: ma come filosofo e metafisico era anche in grado di articolare le proprie impressioni e di trovarne la fonte. "L'ascetismo," scrisse, "non produce tanto una personalità buona, quanto una personalità bella; la caratteristica particolare dei grandi santi non è tanto la bontà di cuore, che hanno anche gli uomini carnali e persino i grandi peccatori, ma la bellezza dello spirito, la bellezza abbagliante di una personalità radiosa e luminosa, che non riescono a ottenere gli uomini carnali appesantiti dal mondo." (2) Si può ritenere che questo sia il modo in cui Florenskij considerava l'ascetico Padre Isidoro.

In Padre Isidoro, Florenskij vide anche l'incarnazione del suo ideale di monachesimo, un ideale caratterizzato da libertà di spirito, libertà di vivere secondo le leggi della vita spirituale, così tanto diverse dalle vie del mondo. Florenskij, che come abbiamo visto detestava tutte le forme di simulazione, sapeva bene che le figure di chiesa sono spesso molto più artificiali dei laici. Padre Isidoro, invece, era in ogni momento se stesso, in accordo con le antiche parole di Socrate: "E' meglio essere piuttosto che sembrare." Si rifiutava di essere governato da codici di comportamento mondani, e li infrangeva con accattivante genialità. Assolutamente privo di paura, era allo stesso tempo dotato di profonda umiltà. Era dolce, affettuoso, flessibile e innocente, come un bambino, eppure poteva sopportare di tutto. Per Florenskij, Padre Isidoro - un umile e dimenticato vecchio monaco - era un gigante che dimorava su di un altro piano, un uomo veramente spirituale che vedeva le cose da una prospettiva spirituale e portava testimonianza della realtà dell'altro mondo.

Padre Isidoro morì nel 1908, e per passare ad altri ciò che aveva ricevuto da lui, Florenskij scrisse il classico spirituale, Sale della terra, che sta per uscire in lingua inglese.  

3. Aspirazioni monastiche

La predisposizione naturale del carattere di Florenskij era fortemente attratta dal monachesimo, ma il suo padre spirituale, Antonio, un vescovo a riposo, lo sconsigliò di intraprendere questo sentiero. Il Vescovo Antonio, un uomo pratico e un acuto osservatore della psicologia umana, notò in Florenskij una genialità che avrebbe potuto essere soggiogata e ridotta a un comune denominatore sotto il rigorismo della vita monastica comune. La natura indagatrice e analitica di Florenskij e la sua illimitata creatività erano le sue maggiori spinte, ed erano anche più costrittive delle sue inclinazioni monastiche. Relegare questi impulsi in un monastero, percepiva il Vescovo Antonio, avrebbe un giorno causato problemi alla personalità di Florenskij, e pertanto egli deviò consapevolmente le energie di Florenskij verso studi teologici e scientifici.

La gente parla del genio naturale come di un dono. Come per la bellezza naturale, la nostra salvezza non dipende da esso, ma piuttosto da che cosa ne facciamo. Florenskij usò il suo "dono" per la propria salvezza portandolo come una croce, poiché era il suo stesso genio a impedirgli di realizzare il suo caro desiderio di diventare un monaco. Rese impossibile per lui diventare "come tutti gli altri," abbracciando l'oscurità personale che i monaci dovrebbero cercare. Ma che tortura era per lui! Il fatto era che egli voleva con tutto il suo cuore essere come quei semplici, umili monaci che non vengono notati dal mondo, non ottengono successo esteriore in alcunché, eppure piacciono a Dio per la bellezza delle loro vite quiete, e per questo ereditano il Regno. Ma non poteva cambiare se stesso; era differente dalla gente comune. Le parole che un tempo egli scrisse riferendosi a Pushkin avrebbero potuto essere egualmente applicate a lui: "Il fato della grandezza porta sofferenza dal mondo esterno, e sofferenza interiore che proviene da se stessi. Così era, così è, e così sarà." (3)

Portando la croce di una rara genialità, la sofferenza e la tensione di Florenskij non facevano altro che nutrire e rafforzare i suoi poteri creativi. Fu obbligato a trovare la sua bramata libertà monastica al di fuori della reclusione di un monastero, senza il beneficio di aiuti monastici esteriori, seguendo un arduo sentiero che alla fine lo condusse alla libertà di morire per Cristo.  

4. Sofferenza

Florenskij ottenne nel 1908 un posto alla Facoltà di Storia della Filosofia dell'Accademia Teologica di Mosca. Durante i suoi primi anni di insegnamento all'Accademia, cadde in un'acuta depressione. molti fattori vi contribuirono: la morte dell'Anziano Isidoro, il suo mancato ingresso in monastero, e la noia di essere "intrappolato" in un ruolo accademico standardizzato, insieme a studiosi che avevano perso il contatto con la Verità mistica della vita di chiesa. La causa dei suoi problemi, egli scrisse, "è un desiderio di qualcosa di reale, di qualche tipo di contatto totale, una garanzia della vita della chiesa. Non trovo questo contatto da nessuna parte, solo carta, niente oro. Non dico che non vi sia oro nella chiesa, ma io non lo trovo mai. Se non credessi, sarebbe stato più facile. Ma è proprio questo il difficile: io credo che il contatto esiste, e se non c'è contatto, allora significa che non c'è la Chiesa e non c'è cristianesimo. Mi ordinano di credere, e io credo. Ma quella non è vita." (4)

Così, per Florenskij, non era sufficiente passare per le tappe della vita della chiesa, considerandosi ed essendo considerato una buona persona di chiesa, sperimentando la grazia della Chiesa solo in maniera vicaria, sapendo che altri la hanno sperimentata in verità, e sapendo che tale grazia esiste oggettivamente. Florenskij aveva bisogno di conoscerla e di sperimentarla di persona. Come insegnante e scrittore, voleva che tutto quanto proveniva da lui derivasse dalla realtà della propria esperienza. La filosofia più elevata doveva essere umana, personale e vissuta, e non solo astratta e teorica. Fu la sua perseveranza in questo, anche più del suo genio personale, che lo rese eminente tra i pensatori del suo tempo.

Indizi importanti sul carattere di Florenskij al tempo della sua crisi sono stati forniti da Padre Alexander Elchaninov, che registrò le loro conversazioni. All'apice della sua sofferenza interiore, Florenskij disse a Elchaninov: "non è difficile uccidere molti aspetti di me stesso, ma quale ne sarebbe il risultato? Avrei potuto uccidere in me tutto quanto ha a che fare con il sesso, ma allora la mia creatività scientifica sarebbe stata la prima a morire. Mi dici che questa è la strada da percorrere: che tutti gli asceti dovettero passare attraverso una simile morte. Lo so, ma non mi è permesso entrare in un monastero: mi ordinano di tenere lezioni. Com'è che da molti scritti - libri di testo, e così via, soprattutto i testi del seminario - viene un odore di morte? Sembra che ci sia tutto: grande conoscenza e linguaggio dignitoso, pensieri; ma perché è impossibile leggerli? E' perché sono scritti da 'eunuchi'. Anche io avrei potuto scrivere in quel modo, ma chi ha bisogno di opere simili?" (5)

Nella sua miseria, Florenskij si sentì più vicino a Dio. "Sto notando ultimamente," disse a Elchaninov, che mi succede qualcosa di strano. Prima la mia preghiera non era mai così forte come ora che sembra che io sia meno degno che mai. Mi viene l'impressione che Dio esca deliberatamente a incontrarmi per vedere che fine voglio fare. A volte ho una strana sensazione, assurda da un punto di vista teologico, forse perché non posso esprimerla in modo appropriato: è come se a volte mi dispiacesse per Dio, perché sono nato così malvagio... Sì, posso esprimerla così. Quando uno si arrabbia davvero, allora gli altri iniziano a essere d'accordo con lui e a fare quel che vuole. E' così che Dio sta trattandomi ora. Naturalmente, solo nelle piccole cose. Ieri, per esempio, V. B. [che in seguito divenne lo suocero di Florenskij] non era tornato a casa ed era già tardi. Ero molto preoccupato. L'ora solita era passata: di solito rincasa attorno alle 11 di sera. Ero terribilmente allarmato e iniziai a pregare, e avevo appena finito di pregare, quando arrivò alla porta." (6)

A un certo punto, Elchaninov e Florenskij discussero di un certo Vescovo Gabriel. "Il giorno prima," scrive Elchaninov, "[il vescovo] aveva celebrato da noi, e io rimasi affascinato dalla solennità e dalla particolarità con cui celebrava. Ne parlai con Paolo. 'Conosci la mia opinione di lui,' iniziò a dirmi con irritazione. 'Tutto suona falso e teatrale. Egli pronuncia le parole, e si sente che il tono e la dizione sono preparati in partenza, e che si guarda intorno per vedere che tipo di impressione quelle parole creano negli altri. E' possibile che oggettivamente tutto ciò si possa spiegare in modo diverso. Ma io lo conosco, e non posso liberarmi da questa sensazione. Conosce bene il servizio della chiesa, lo ama; ma questa precisione e questa efficacia non è il modo ortodosso di fare le cose. C'è in te molto dell'occidentale, e per noi, al contrario, il servizio della chiesa è amato proprio quando viene condotto come in ogni parte della Russia, dove è goffo, caotico, e via dicendo. Amiamo l'aspetto degli schiavi, (7) mentre tu vorresti che perfino gli stracci sembrino irreali e abbiano i bordi di seta. Ciò che sto dicendo è evangelico, non solo ortodosso. Perché Cristo amava tanto la compagnia delle prostitute e dei pubblicani? Immaginale: erano vere puttane che litigavano, parlavano in modo indecente, imprecavano... e Cristo preferiva la loro compagnia a quella dei farisei. Pensaci, perché si dice, 'Il potere di Dio si vede nella povertà'? La povertà non è solo debolezza, non è qualche malattia poetica come la tubercolosi, ma peccaminosità, corruzione. Cristo stava con i peccatori non solo perché ne avevano più bisogno, ma perché per Lui era più piacevole stare con loro; li amava per la loro semplicità e umiltà." (8)

Le Parole di Florenskij toccano un tasto familiare per quelli di noi che vogliono cercare di essere ortodossi in Occidente. Mancandoci la giusta "sensazione" per tutto il mondo di pietà che si è sviluppato in secoli di esperienza pratica e umana nella Chiesa Ortodossa, siamo troppo proni a volere una Ortodossia che sembri "di prima qualità", e a farci attrarre dalla lucentezza, dalla correttezza e dalla precisione. Una sorta di vano artificio cerca di coprire il nostro vuoto. Ma il nostro amore per quello che brilla può anche venire dall'erronea e profondamente radicata credenza nel progresso: "dopo tutto, noi moderni siamo più sofisticati di quelli che ci hanno preceduti". Per noi occidentali, "l'aspetto degli schiavi," i brutti, i poveri, gli insignificanti, sono spesso repellenti, o per lo meno al di sotto della nostra dignità. Per la mentalità ortodossa di Florenskij, invece, sono affascinanti e toccano il cuore, poiché sono reali.  

5. Visite ai monasteri: Optina

"Sono nauseato dalla 'cultura' e dalla sofisticazione," disse Florenskij, "voglio la semplicità." (9) Accettava l'Ortodossia così com'era, e condivideva la medesima, 'radicale' fede delle masse. Altri filosofi religiosi, come Nicola Berdyaev (che sfortunatamente divenne più noto di lui in Occidente), volevano un'Ortodossia secondo i loro canoni, giocando con essa e modificandola per renderla in qualche modo "degna" della loro gonfiata stima di se stessi e delle loro comprensioni "superiori". Avevano un rispetto e un'ammirazione teorica per la gente semplice che costituiva il cuore della Russia, ma non erano parte di loro e della loro fede; e così si privavano di una spiritualità genuina. Di Berdyaev e di altri esponenti della "nuova comprensione religiosa," Florenskij scrisse: "...cessano di vedere quel che è di fronte ai loro occhi, che è loro dato, e che non conoscono e non comprendono interiormente; nel cercare di tutto, sono privati della sua essenza... Se soltanto tornasse loro per qualche tempo una calma sobrietà, allora forse vedrebbero, queste persone di falsa comprensione, che non hanno terreno solido sotto ai piedi e che pronunciano parole sterili, parole alle quali essi stessi stanno incominciando a credere." (10)

Un evento significativo, che accadde nel periodo della crisi di Florenskij nel 1910, illustra la disparità tra Florenskij e l'intellighenzia religiosa alla quale era associato nel suo lavoro. Berdyaev, con un'aria di dilettantismo tipica dell'intellighenzia, disse che voleva fare un "esperimento" in un viaggio all'Eremitaggio di Zosima per incontrare gli anziani. Capitò che uno degli anziani di quel tempo fosse lo Schima-Abate Herman, già discepolo dell'Anziano Isidoro. L'Anziano Herman era un uomo profondamente spirituale, che aveva acquisito la preghiera del cuore e aveva scritto un prezioso libro sulla Preghiera di Gesù. (11) Florenskij conosceva la statura dell'anziano, anche se questi esteriormente era solo un semplice contadino. (12)

L'amico di Berdyaev, Novoselov, cercò di portare con loro molti membri dell'intellighenzia per prendere parte all'"esperimento." Florenskij accettò di andare, anche se, come si seppe in seguito, avrebbe voluto andare da solo, senza tanti intrusi. Per molti degli altri, andare a vedere un anziano era una specie di novità, come andare allo zoo. Per Florenskij, era una questione di vita o di morte, di salvezza dell'anima.

Ricordando il suo viaggio all'eremitaggio, Berdyaev scrisse: "Mi recai là insieme a Novoselov e Sergio Bulgakov... Nella chiesa, dietro di me, stava P. A. Florenskij, allora non ancora sacerdote. Mi guardai indietro e vidi che stava piangendo. Mi dissero in seguito che stava passando un momento molto difficile." Quella notte Florenskij se ne andò via, evidentemente con l'intenzione di ritornare senza gli altri. Quanto a Berdyaev, era troppo pieno di sé per percepire il segreto della sapienza divina, nascosta in vesti semplici, senza sofisticazioni o retorica fasulla. Del grande Anziano Herman, non ebbe da dire altro che queste parole paternalistiche: "Era un semplice mudzhik, privo di qualsiasi cultura. Eppure, lasciava l'impressione di essere piuttosto gentile e benevolo." (13)

Più o meno al tempo di questo viaggio all'Eremitaggio di Zosima, Florenskij progettò di accompagnare il Vescovo Antonio in un pellegrinaggio al Monastero di Solovki, nell'estremo Nord della Russia. Non poté andarvi a causa del suo matrimonio con un'umile ragazza di nome Maria, sorella del suo compagno di stanza. Fu però in grado di compiere numerosi pellegrinaggi a un monastero più vicino a Mosca: il grande Monastero di Optina, che manteneva viva la tradizione ortodossa degli anziani, disseminava opere patristiche ed era in gran parte responsabile della fioritura spirituale della Russia del diciannovesimo secolo. A Optina, Florenskij si mise sotto la guida di un Anziano, Anatolio il Giovane, che a sua volta affidò Florenskij e i suoi altri figli spirituali all'Arciprete Alessio Mechiev, (14) un sant'uomo nel "lignaggio" di Optina che aveva una parrocchia a mosca. Florenskij sviluppò un forte legame con Padre Anatolio e Padre Alessio, e dopo la morte di quest'ultimo compose un'eulogia piena di profonda ispirazione. (15)  

6. La colonna e fondamento della verità

Nel 1911, un anno dopo il suo matrimonio, Florenskij fu ordinato al sacerdozio dal Vescovo Teodoro Pozdeyev. Mentre si occupava dei i suoi doveri pastorali e di insegnamento, completò la sua tesi di magistero Sulla Verità spirituale, che fu in seguito ampliata nel più voluminoso testo, La colonna e fondamento della Verità, il magnum opus di Florenskij. Quest'opera altamente originale, che egli dedicò alla Chiesa, combinava la sua la sua conoscenza di teologia, patristica, matematica, scienze, medicina, storia, linguistica e arte. Piena di ispirazione poetica, tratta di questioni complesse in un linguaggio chiaro e semplice, nello stile personale di Florenskij. E' composta di dodici capitoli, con titoli quali "Il dubbio," "La luce della Verità," "Il Consolatore," "La contraddizione," "Il peccato" e "L'amicizia." Ogni capitolo, in accordo con l'approccio esperienziale e personale alla filosofia che aveva Florenskij, è composto come una "lettera" a un amico.

Dalla prima edizione pubblicata de La colonna e fondamento della Verità, il Vescovo Teodoro Pozdeyev fece omettere la lettera sulla "Sophia," sostenendo l'Ortodossia del resto dell'opera. Anche se la lettera omessa fu inclusa nelle successive edizioni, la decisione iniziale del Vescovo Teodoro Pozdeyev fu forse la migliore. Florenskij, forse in un tentativo di formulare una base concettuale per la sua esperienza avuta da ragazzo della sapienza di Dio nella natura, fece nel capitolo sulla "Sophia" affermazioni che - anche se esplicitamente non panteistiche - potevano condurre gli incauti su posizioni vicine al panteismo.

Troppa enfasi è stata posta sulla "sofiologia" di Florenskij nel contesto di tutta l'opera della sua vita, sia per opera dei suoi detrattori che dei suoi ammiratori. Lo menzioniamo qui solo perché egli è spesso erroneamente messo da parte sulla base di questo singolo aspetto dei suoi primi scritti. Nel discutere la "sofiologia" in connessione con Florenskij, è importante tenere in mente due cose. Dapprima, fu Padre Sergio Bulgakov, e non Florenskij, che tentò di creare un sistema teologico completo basato sulla Sapienza di Dio, o "Sophia," come se questa costituisse una sorta di "Anima del Mondo" personale. Florenskij si limitò a offrire varie speculazioni schematiche, tratte da quanto già esisteva nella teologia, iconografia e tradizione liturgica ortodossa, lasciando molte domande senza risposta. Egli comprendeva che alcune delle cose che scrisse ne La colonna e fondamento della Verità erano "quasi indimostrabili." "E' proprio per questa ragione," dichiarò all'"amico" a cui indirizzava questo libro, "che ti scrivo 'lettere' anziché comporre 'articolo.' Ho timore di fare affermazioni e preferisco porre domande." (16)

Un'altra cosa da ricordare è che, dopo la pubblicazione de La colonna e fondamento della Verità, Florenskij cambiò di sua volontà alcune delle sue prime concezioni che erano potenzialmente pericolose per la purezza degli insegnamenti della Chiesa, e prese le distanze dalla sua "sofiologia" iniziale. (17) Più tardi nella sua vita, quando gli venne chiesto un parere di massima sul suo libro, rispose, "Oh, sono cresciuto parecchio da quel tempo!" (18) Questo, naturalmente, non vuol dire che il libro vada dunque rigettato come mero tentativo giovanile, ma piuttosto che la filosofia matura di Florenskij non debba essere giudicata solo sulla base dei meriti o mancanze di questo libro.

Non molti anni prima della sua morte, Florenskij guardò indietro alle indagini che avevano un tempo trovato un'espressione provvisoria e incompiuta ne La colonna e fondamento della Verità. Vide le sue indagini in varie discipline (scienza, teologia, etc.) come un tentativo di comprendere una singola realtà da tutti i differenti punti di vista. "che cosa ho fatto per tutta la mia vita?" si chiese. "Ho indagato il mondo come un intero, come un singolo quadro e una singola realtà. Ma feci questa indagine in ogni dato momento, o più precisamente in ogni periodo della mia vita, da un particolare angolo o prospettiva. Indagavo le relazioni del mondo sezionandolo in una direzione particolare, su di un piano particolare, e mi sforzavo di comprendere la realtà del mondo da questo piano che mi interessava. I piani erano differenti, ma uno non negava l'altro, bensì lo arricchiva. Ciò produceva una perpetua dialettica di pensiero, 'lo scambio dei piani di osservazione,' mentre allo stesso tempo vedevo il mondo come un tutto unico." (19)

In questa dichiarazione possiamo trovare l'essenza dell'importanza di Florenskij per l'uomo moderno. Nella nostra era, in cui tutte le verità sono considerate relative e la conoscenza è frammentata in compartimenti specializzati, ci vuole un uomo unico come Florenskij per padroneggiare le diverse discipline e collegare assieme le loro scoperte nella cornice di una coerente visione del mondo. La ricerca fatta da Florenskij di una singola prospettiva di vista del mondo come Verità assoluta lo condusse dapprima alla religione in genere, e infine alla Chiesa Ortodossa. E' là che trovò la "colonna e fondamento della Verità," e questo fondamento diede significato assoluto alla sua indagine di cose relative, poiché ogni cosa aveva ora un immutabile punto di riferimento. Giunse a essere considerato un "pensatore religioso" solo perché era un uomo onesto e fervoroso che non si accontentava di nulla di meno dell'interezza e della completezza nella sua visione filosofica.  

7. La Chiesa

Anche se Florenskij è ricordato nei circoli secolari come scienziato e nei circoli ecclesiastici come filosofo, non fu la scienza né la teologia che divenne alla fine il centro della sua vita, ma il suo sacerdozio. La sua personalità schiva ma potente, imbevuta di un timbro mistico, aiutò a portare molti alla fede in Cristo. Quando serviva la Liturgia, lo faceva con molta pace, pronunciando ogni parola chiaramente e non ad alta voce. Era un "celebrante del Divino," che richiamava la grazia dal cielo, in stato di timore riverenziale di fronte al mistero compiuto nell'Eucaristia. Si immergeva totalmente nei servizi della Chiesa, sapendo che essi sono il diretto incontro della Vita nella Chiesa, piuttosto che un ragionamento astratto che conduce alla Verità. "L'Ortodossia," disse un giorno, si manifesta; non si prova." Ed egli trovò tale manifestazione nel culto della Chiesa.

Florenskij credeva che il criterio di quanto è genuinamente "di chiesa" non potesse essere meramente concettuale, al di fuori dell'esperienza della vita umana. Non poteva essere il criterio giuridico del cattolicesimo romano, con la sua enfasi sulla gerarchia e sulla legalità, né poteva essere il criterio scientifico della scientifica Sola Scriptura del protestantesimo, che Florenskij riteneva allo stesso modo concettuale e pertanto aperto ad abusi. Per Florenskij, il criterio più sicuro di autenticità della vita nella Chiesa era ciò che chiamò Bellezza spirituale. Abbiamo già incontrato questa idea riguardo a ciò che Florenskij pensava degli asceti. Vedeva questa bellezza nell'Anziano Isidoro, del quale disse: "Egli ascoltava la creazione di Dio, e la creazione di Dio ascoltava lui. Fili invisibili lo univano al cuore nascosto della creazione. Non solo il mondo era un segno per l'Anziano Isidoro, ma l'anziano stesso era un segno per il mondo."

Così, la bellezza spirituale si manifesta quando uno è unito a tutta la creazione perché è unito nell'amore al Creatore di questa. Questa unione di amore al tempo stesso costituisce la vita nella Chiesa di Cristo, ed è resa possibile da essa. Senza di essa, pareva a Florenskij che l'esistenza temporale e perfino quella eterna fossero prive di significato. "Voglio il vero amore," scrisse. "Comprendo la vita soltanto come unione; senza questa 'unione,' non voglio nemmeno la salvezza. Non mi ribello, non protesto. E' solo che non provo gusto per la vita né per la salvezza della mia anima, finché sono da solo." (20) Altrove affermò: "Senza amore - e per amare è necessario come prima cosa amare Dio - la personalità di scinde in una molteplicità di frammentari aspetti ed elementi psicologici. L'amore di Dio è ciò che tiene insieme la personalità." (21)

"Ortodossia" significa letteralmente "retta glorificazione." Per Florenskij, tuttavia, essere "retto" può non avere nulla a che fare con l'essere ortodosso o con l'essere nella chiesa. Una persona può prendere precauzioni per essere "retta" solo per insicurezza, mentre continua a mancarle la fede in Cristo. In essenza, essere ortodosso significa salvare la propria anima e cambiare il proprio cuore, facendo uso delle "rette" forme per farlo. Non significa essere retto. Come affermò Florenskij: "La mezza fede, che teme di cadere nell'incredulità, si attacca con timore alle forme della vita religiosa. Incapace di vedere in esse le forme cristallizzate dello Spirito e della verità, le valuta come norme giuridiche di legge. Ha verso di loro un'attitudine esteriore, e non le tratta come finestre sulla luce di Cristo, ma come un requisito condizionale dell'autorità esterna. La coscienza cristiana, però, sa che le vie stabilite della Chiesa non sono accidentali, e che le sono offerte come condizioni favorevoli di salvezza." (22)  

8. Confessione della fede

Negli anni precedenti la Rivoluzione Russa, le enormi energie creative di Florenskij continuarono a essere impiegate in un certo numero di aree. Anche se amava stare in disparte, fu tuttavia messo a capo di numerose organizzazioni e fraternità promotrici di interessi spirituali. Dal 1911 al 1917, curò una rivista teologica, scrivendo per essa diversi articoli. Si mantenne in contatto con numerosi eccellenti pensatori ortodossi del tempo: Padre Valentino Sventitskij, (23) Padre Sergio Mechiev (figlio dell'Arciprete Alessio) e altri. Senza abbandonare i suoi altri interessi, fece ricerche e pubblicò trattati nel campo della matematica, delle scienze applicate e della linguistica.

L'Accademia Teologica di Mosca fu chiusa dopo la Rivoluzione Russa, e Florenskij fu costretto a intraprendere un altro corso di vita. Trovò lavoro in istituzioni scientifiche ufficiali, insegnando teoria della prospettiva in una scuola tecnico-artistica, e operando come uno dei principali ingegneri elettrici della sua regione. Diverse importanti scoperte scientifiche furono fatte da lui, inclusa l'invenzione di un famoso olio non coagulante per macchinari. Nei saggi da lui pubblicati anticipò lo sviluppo della cibernetica, e una delle sue opere, Dielettrica, divenne un libro di testo ufficiale.

Con la Rivoluzione, il Monastero di Optina divenne proprietà dello Stato, e le autorità sovietiche iniziarono a perseguitare i suoi monaci. L'Anziano Anatolio, dopo essere stato torturato e deriso, morì provvidenzialmente la notte prima del suo progettato arresto e deportazione. L'altro Anziano di Optina a quel tempo, l'Anziano Nektary, (24) fu inviato al villaggio di Kholmishcha, da dove rimase in contatto con Florenskij e gli fornì guida spirituale. Questo contatto terminò con la morte dell'anziano nel 1928.

Durante gli anni 1925-1927, i sovietici chiusero definitivamente Optina, cercando allo stesso tempo di tenere nascoste le loro gesta sanguinarie. Dimostrando il suo grande amore per questo monastero e per ciò che rappresentava, Florenskij pubblicò coraggiosamente un appello urgente intitolato "Salvate Optina!", che naturalmente non gli portò favore agli occhi delle autorità.

Benché molte delle sue precedenti attività fossero represse sotto il giogo del regime ateo, fu proprio questo giogo a rivelare la sua piena statura umana. La libertà di spirito che gli era stata inculcata attraverso Padre Isidoro e altri anziani ora venne alla superficie, ed egli diventò un confessore della Fede.

Le autorità sovietiche per le quali Florenskij lavorava, vedendo il suo valore come straordinario ricercatore scientifico, volevano che rinunciasse al suo sacerdozio. Non solo egli non accettò, ma era tanto ardito da indossare la sua tonaca, croce pettorale e cappello da prete mentre lavorava nella sua qualità ufficiale di scienziato, presentandosi perfino al Soviet Supremo dell'Economia Nazionale vestito da sacerdote. Camminando senza paura con la sua croce scintillante appesa al collo, tenne lezioni a gruppi di studiosi sovietici e di vecchi professori. Questo produsse l'ira delle autorità, che temevano che i giovani studenti sovietici potessero essere influenzati dall'"accademico pope" (un termine derogatorio per indicare un prete), come lo chiamavano.

I sovietici imprigionarono Florenskij numerose volte, solo per trovarlo ancora renitente alle loro pretese di rinunciare al sacerdozio. Anche se questo aiutò a produrre la sua incarcerazione finale, la ragione principale fu la indubbiamente la sua aperta e vigorosa protesta contro la politica ufficiale del Metropolita di Mosca, Sergio Starogorodskij. In questo metropolita, i sovietici avevano trovato una pedina disposta a sottomettere la Chiesa al controllo del regime ateo e a negare il martirio di milioni di cristiani. Sergio aveva persino emanato una dichiarazione nel 1927, nella quale affermava che le gioie e i dolori dello stato sovietico erano quelli della Chiesa Russa. Per Florenskij, era più che chiaro che questo fosse un atto di falsità. Tutta la sua natura reagì contro di esso. Dio non può essere servito, egli sosteneva, sulla base di una menzogna. Come esponente anti-sergianista di spicco, noto in tutta la Russia, Florenskij doveva essere ridotto al silenzio.  

9. Esilio e martirio

Nel 1933, Florenskij fu condannato a dieci anni di servitù in un campo di concentramento. dei suoi rimanenti anni, ben poco si sa. Evidentemente fu prima mandato in un campo in Siberia, da dove, poiché rifiutava ancora di rinnegare la sua Fede, fu inviato in un campo ancora peggiore sull'isola di Solovki. Prima della Rivoluzione, questo campo era stato un attivo monastero: lo stesso monastero di Solovki al quale Florenskij aveva desiderato da giovane di compiere un pellegrinaggio. Ora, come prigioniero, dovette aver pensato alle sue aspirazioni giovanili al monachesimo, che ora realizzava in un modo differente, tagliato fuori dal mondo e soffrendo per Cristo in un monastero divenuto campo di concentramento.

Nel suo libro L'Arcipelago Gulag, Alexander Solzhenitsyn lamenta l'imprigionamento, la persecuzione e la morte di Florenskij nei campi, dichiarando che Florenskij era "uno dei più notevoli uomini in assoluto tra quelli divorati dall'Arcipelago." Secondo Solzhenitsyn, Florenskij fu probabilmente inviato in un campo della regione di Kolyma, dove "studiava la flora e i minerali (oltre a lavorare di piccone)." (25)

Che cosa permise a Padre Paolo di perseverare per tutti quei lunghi anni di esilio e di intense fatiche? La risposta può venire soltanto dalle sue parole: "Attraverso Cristo possiamo ottenere la realizzazione, su di lui possiamo costruire, con lui possiamo diventare completi, per mezzo di lui possiamo vivere..." (26)

Secondo le informazioni ufficiali, Florenskij morì in esilio il 15 Dicembre del 1943. Non si può fare a meno di notare che la sua scarcerazione era prevista per quello stesso anno. Possiamo soltanto chiederci se fu ucciso deliberatamente o se morì nelle condizioni disumane dei campi.

Essendo morto per sostenere la propria Fede, Florenskij fu elencato tra i Nuovi Martiri e Confessori russi che furono canonizzati nel 1982. Il suo nome si trova sull'icona dei Nuovi Martiri che fu usata nel servizio di glorificazione.

Così, per tutti i cristiani ortodossi che, come lo stesso Padre Paolo, sono liberi di fronte a Dio e non sono ostacolati da paure politiche, egli è SAN PAOLO FLORENSKIJ.  

 


Note

(1) Note autobiografiche del 1 gennaio 1921.

(2) N. O. Lossky, History of Russian Philosophy, London: George Allen & Unwin, Ltd., 1952, 182.

(3) Lettera di Florenskij a sua madre dal campo di concentramento di Solovki, 1937.

(4) "Iz Vstrech s P. A. Florenskim" ("Dagli incontri con P. A. Florenskij"), Vestnik no. 142 (1984), p. 76.

(5) Ibid., p.72.

(6) Ibid., p.74.

(7) Questo è un riferimento a un famoso poema russo (senza titolo) di Fedor Ivanovich Tutchev (1803-1864), che finisce così:

Cara terra natia! Portando la Croce

E sforzandosi di proseguire,

Con aspetto di schiavo il Re dei Cieli

Ti attraversò, benedicendoti.

(8) "Iz Vstrech s P. A. Florenskim", p. 74.

(9) Ibid., p. 71.

(10) P. A. Florenskij, Stopl i Utverzhdenie Istiny (Colonna e fondamento della Verità), Mosca, 1914, 128-129.

(11) Schima-Abate Herman, Zaveti o Delanie Molitvennom (Testamento sull'attività della preghiera), Platina, California, St. Herman Press, 1984.

(12) Florenskij menziona lo Schima-Abate Herman, chiamandolo "santo anziano," nel suo libro, Sale della terra.

(13) Nicholas Berdyaev, Self-Awareness, Paris: YMCA Press, 1983, 214-215.

(14) Cfr. The Orthodox Word, Platina, California, no. 132 (1987).

(15) Otets Aleksei Mechiev, Paris: YMCA Press, 1970.

(16) P. A. Florenskij, op. cit., p. 129.

(17) Robert Slesinski, Pavel Florenski: A Metaphysics of Love, New York: St. Vladimir's Seminary Press, 1984, p. 12.

(18) Dai ricordi personali di Padre Victor Ilienko (n. 1892), che fu studente di Florenskij all'Accademia Teologica di Mosca.

(19) Lettera dal campo di concentramento di Solovki, 21 Febbraio 1937.

(20) "Iz Vstrech s P. A. Florenskim", p. 73

(21) Lossky, op. cit., p.186.

(22) P. A. Florenskij, "Christianity and culture," in Journal of the Moscow Patriarchate, 1983, no. 4.

(23) Cfr. The Orthodox Word, no. 111 (1983).

(24) Cfr. Ibid. no. 129 (1986).

(25) Alexander Solzhenitsyn, L'Arcipelago Gulag Due, New York: Harper & Row, 1975, 670-671.

(26) P. A. Florenskij, "Lo spiritismo come anticristianesimo" in Novie Put, 1904, no. 3, p. 155.

 
L'impulsività, la dipendenza e le passioni

Lo ieromonaco Alexis (Trader) dal Monte Athos discute gli impulsi e la dipendenza in termini patristici, e mostra i parallelismi patristici nel programma dei dodici passi.

Non dovrebbe essere una sorpresa per chi ha familiarità con le persone alle prese con la dipendenza che l'impulsività è una questione fondamentale. In termini tecnici, c'è una certa correlazione fondamentale tra la dipendenza e l'impulsività. Le persone impulsive sono più vulnerabili a sviluppare comportamenti di dipendenza, perché danno poco riguardo alle conseguenze negative (Impulse Control Disorders and Co-Occurring Disorders, Potenza, pag. 51) o per essere più precisi, essi preferiscono i rafforzamenti immediati a quelli in ritardo, la gratificazione immediata rispetto alla soddisfazione a lungo termine. Essere impulsivi significa agire senza premeditazione. E anche se quelli che lottano per essere liberi di una dipendenza sanno bene che non agire d'impulso è alla lunga più vantaggioso rispetto a cedere, quando si presenta la tentazione, la previdenza e la motivazione diventano un compito quasi impossibile e l'impulsività prende il sopravvento, impulsività che nella sua forma patologica può essere definita come "un fallimento nel regolare, monitorare, o controllare il comportamento e l'espressione emotiva" (Impulsivity in Neurobehavioral Disorders, Holmes, Johnson, Roedel, pag. 309).

Il primo passo in tutti i numerosi gruppi dei 12 passi inizia con "abbiamo ammesso di essere impotenti di fronte a _______ e che le nostre vite erano divenute incontrollabili". Questo è certamente in accordo con la definizione sopra citata dell'impulsività patologica e chiaramente esprime il forte legame tra dipendenza e impulsività. E la vita impulsiva può certamente diventare ingestibile. Di fatto, se lasciato incontrollato, il comportamento impulsivo finirà per assumere le caratteristiche di un comportamento infantile, senza l'innocenza dell'infanzia (Gratifying Impulses, Toch e Adams, p. 145) diventando sempre più distruttivo e anche potenzialmente violento. Toch e Adams fanno notare il pericolo del gratificare gli impulsi: "Gratificare gli impulsi è, per definizione, un'impresa distruttiva, perché altre persone diventano oggetti di soddisfazione dei bisogni. I casi meno ovvi, la gratificazione degli impulsi può essere autodistruttiva, perché le reazioni richieste dalla persona aggravano i suoi problemi e possono sfociare in brutte situazioni senza uscita".

Nella letteratura ascetica, le nozioni più vicine a quella degli impulsi sono le provocazioni (προσβολή) e i disturbi momentanei (παραρριπισμός). Questi pensieri particolari o λογισμοί assalgono gli esseri umani dall'esterno e richiedono, se non pretendono, una risposta. Sono le tentazioni, che se vi si cede ripetutamente, diventano passioni che dirigono automaticamente anime sventurate lungo sentieri tortuosi che si allontanano da Dio. Le lotte ascetiche dei Padri della Chiesa erano dirette a riconoscere e sradicare le passioni in tutte le loro manifestazioni. E anche se le provocazioni o gli impulsi arrivano ancora, l'anima resta ferma nell'aderire a Dio e a compiere la sua santa volontà. Sia che il problema sia la dipendenza, l'impulsività, le passioni o una combinazione di questi tre fattori, il punto di partenza per la guarigione è sempre l'onestà rigorosa, "un inventario morale senza paura". Così, San Marco l'Asceta scrive: "Non dire: ' Io non lo voglio, ma succede'. Infatti, anche se puoi non volere la cosa in sé, dai il benvenuto a ciò che la provoca" (Sulla legge spirituale, 142). Cedere agli impulsi è il vero problema che deve essere affrontato.

Sia che il problema sia costituito dagli impulsi, dalla dipendenza o dalle passioni, il vero cambiamento richiede un nuovo modo di vivere, un nuovo modo di impegnarsi nel mondo, di relazionarsi con gli altri, e di affidarsi a Dio. I Padri, nelle loro opere ascetiche, descrivono in dettaglio questa vita in cui uno non deve essere in balia degli impulsi. All'inizio della sua Scala del Paradiso, san Giovanni Climaco scrive: "Metti alle porte del tuo cuore severe guardie insonni. Frena le azioni e movimenti dei tuoi arti, pratica noetica l'immobilità (intellettuale). E, cosa più paradossale di tutte, in mezzo alla confusione, sii impassibile nell'anima. Frena la lingua impaziente a saltare in mezzo alle argomentazioni (4:37)". Le guardie sono consapevoli del fatto che i ladri potrebbero tentare di entrare e sanno esattamente cosa fare se appaiono. Questo tipo di consapevolezza, allora, è il primo trattamento per l'impulsività. Il secondo è prestare la massima attenzione alle mani e alle gambe e non permettere loro di muoversi secondo i dettami degli impulsi. Sebbene sia difficile è certamente possibile. Se questa battaglia è vinta, si può trovare quiete rivolgendosi più e più volte a Cristo. Infine, ciò che vale per gli arti può valere anche per la propria lingua. San Giovanni Climaco continua, "la quiete del corpo è la conoscenza e la compostezza delle abitudini e dei sentimenti. E la quiete dell'anima è la conoscenza dei propri pensieri e una mente inviolabile. (27:2); mostra il bastone della pazienza, e i cani fermeranno presto la loro insolenza" (27:70). Anche in questo caso la vigilanza su ciò che si fa e si prova, così come la vigilanza sui pensieri, con la pazienza, può renderci meno impulsivi.

Nella lotta contro la manifestazione dell'impulsività in un particolare comportamento o passione distruttiva, come i padri la chiamano, i santi padri hanno una strategia specifica per combattere ogni comportamento / passione. Per esempio, san Giovanni Climaco dà consigli a coloro che hanno un problema con la rabbia iniziando a descriverla, "Una persona arrabbiata è un epilettico volontario, che a causa di una tendenza involontaria continua ad avere convulsioni e cadere" (8,11) e quindi offre una strategia di guarigione, "L'inizio di libertà dalla rabbia è il silenzio delle labbra quando il cuore si agita; il momento di mezzo è il silenzio dei pensieri quando vi è un mero turbamento dell'anima; e la fine è una calma impassibile sotto il soffio dei venti impuri" (8:4). La descrizione è destinata a risvegliare il lettore alla realtà delle conseguenze negative della passione. La strategia di guarigione ha lo scopo di offrire strumenti che possono essere utilizzati al momento della lotta.

Piuttosto che concentrarsi sulla passione, i padri consigliano spesso i loro figli spirituali di concentrarsi sulla virtù corrispondente alla passione che li assale. Nel caso della rabbia, san Giovanni consiglia la coltivazione della mitezza, mantenendo la lingua silenziosa, la mente indisturbata (non focalizzandosi sull'oggetto della rabbia), e, infine, mantenendo la calma nonostante le circostanze. Naturalmente, nessuna virtù è realizzata con i propri mezzi, ma solo attraverso la sinergia con la grazia di Dio, che è qualcosa che riconoscono anche i gruppi dei 12 passi che lottano per il recupero dalla dipendenza, quando dicono "rivolgiamo la nostra volontà e le nostre vite alla sollecitudine di Dio. "Con l'aiuto di Dio, con sapiente vigilanza, con il controllo sulle nostre membra, e con molta pazienza, il dipendente, l'impulsivo, e l'appassionato possono tutti sperare di dire, come ha fatto una volta san Paolo: "Io posso ogni cosa in colui che mi dà la forza" (Filippesi 4:13).

 
Il Santo Martire Alessandro di Centocelle

Icona di sant'Alessandro dipinta nel novembre 2012 da Iurie Braşoveanu

 

Alessandro era un ufficiale dell'esercito romano, e serviva nella Legione dei Tiberiani. Nel testo greco della sua Passione era definito 'episkopos', e questo lo ha fatto a lungo confondere con omonimi vescovi martiri. Ma la parola 'episkopos' (lett. sorvegliante, soprintendente), nel suo caso, significava semplicemente ufficiale dell'esercito. Di stanza con la sua legione a Centocelle (l'odierna Civitavecchia)

fu una delle vittime della persecuzione, breve ma violenta, che l'imperatore romano Massimiano Augusto (286-305) inflisse ai cristiani. Alessandro, che data l'età non più giovane doveva avere nell'esercito una posizione di prestigio, fu tra i colpiti della persecuzione di Massimiano. Processato, non desistette dalla sua fede e fu condannato a morte. Durante il percorso verso il luogo del supplizio compì miracoli, mentre la sua madre, Santa Pimenia, lo incitava a resistere fino all'ultimo nella professione della fede ed a non cedere nonostante le ripetute percosse e flagellazioni che riceveva. I colpi dovettero essere molti: le sue reliquie testimoniano l'irrorazione di sangue nelle grandi ossa e nei seni paranasali sfracellati prima della morte. All'ultimo Alessandro perdonò i suoi carnefici e, come il protomartire Stefano, ebbe il privilegio di vedere i cieli aperti e Cristo assiso nella gloria del Padre.

Le sue reliquie, a lungo dimenticate, sono tornate alla venerazione pubblica nel Monastero di san Serafino di Sarov a Pistoia, e da lì alcune particole sono state dstribuite in diverse chiese ortodosse in Italia. Le ossa del martire sono state coinvolte dal fenomeno detto in greco "mirovlia", cioè esalazione di profumo (myron), ben noto nella Tradizione ortodossa come testimonianza miracolosa della resurrezione dei corpi, e rimasto nell'immaginario della lingua italiana nell'espressione "profumo di santità".

Tropario (Tono 4°) - Sulla tua fronte hai ricevuto un diadema regale, in premio alle sofferenze sopportate, o Alessandro, martire glorioso. Alla destra del Padre vedesti Cristo assiso, pregalo che siano fatte salve le nostre anime!

Contacio (Tono 2°) - Il Figlio unigenito del Padre, il Verbo nostro Dio, ha reso forte la tua testimonianza, o santo martire Alessandro: di te ha fatto il nostro celeste protettore e colui che ascolta le nostre voci nelle afflizioni e rende salda la nostra speranza.

 
Dialog liturgic la Mănăstirea Simonos Petras

Stenograma dialogului liturgic dintre părintele Petru Pruteanu (în continuare PP) şi părintele Macarie Simonopetritul (în continuare MS), care a avut loc în luna iulie 2018 la Mănăstirea Simonos Petras din Muntele Athos.  

PP: Ştim că în istoria Bisericii, dar şi acum în unele Biserici Locale, există un tipic mănăstiresc şi altul parohial. O astfel de diferențiere exista şi în Bizanţ, cel puţin până în sec. XIII, unde fiecare mănăstire putea să aibă propriul Tipic, la fel şi parohiile în diferite regiuni sau eparhii. Această practică a dispărut şi s-a reluat parţial în sec. XIX prin tipicurile lui Konstantinos (Patriarhia Constantinopolului) şi Violakis (Biserica Elladei). În scurt timp această variantă nouă de Tipic parohial a fost preluată şi de Biserica Ortodoxă Română şi de alte Biserici, unde, în parohii nu se citesc niciodată Ceasurile, nu se prea pun Catisme şi nici Canoane la Utrenie. Şi în Biserica Rusă s-a dorit o astfel de reformă tipiconală, dar ea nu a reuşit din cauza Revoluţiei din 1917. Astfel, la modul oficial, la ruşi nu pot exista diferenţe între tipicul mănăstiresc şi cel parohial, deşi în practică sunt şi acolo destule diferenţe. De cele mai multe ori, în Biserica Rusă, nu se cântă nici o stihiră la Vecernie sau Utrenie, ci toate se citesc, dar se respectă cu multă acrivie structura generală a Laudelor şi nu se omit nici Ceasurile. În ce măsură este îndreptăţită această diferenţiere şi cum o vedeţi Sfinţia Voastră? 

MS: Este vrednică de laudă această acrivie pentru slujbele Bisericii, dar nu este aplicabilă în practică, pentru că oamenii din lume pur şi simplu nu mai vin la astfel de slujbe. Ceea ce a făcut Patriarhia Ecumenică şi Biserica Elladei în sec. XIX a fost bun ca intenţie, dar nu s-a făcut tocmai corect. Au luat elemente din diferite tradiţii vechi şi noi, care nu totdeauna au putut fi bine armonizate. De aceea, în multe parohii şi catedrale din Grecia slujbele se fac mai scurte, dar nu în baza tipicului lui Violakis (cu Evanghelia abia la sfârşitul Utreniei ş.a.), ci adaptând în diferite forme Tipicul neo-savait, devenit tradiţional pentru Biserica Ortodoxă.

Bineînţeles, acele tipicuri din sec. XIX nu au fost inventate de mintea unor oameni neavizaţi; cu toate acestea, rânduiala acelor slujbe nu este general acceptată şi nici nu este foarte logică. De exemplu, nu se mai cântă Canoanele, ci doar Catavasiile, care de multe ori nu au legătură cu sărbătoarea din acea zi. De exemplu, la Schimbarea la Faţă a Domnului auzim în parohii Catavasiile Crucii (care sunt rânduite în această perioadă), dar nu auzim nimic din Canonul acestui Praznic. De aceea, consider că este foarte greu de găsit o soluţie general valabilă pentru slujbele parohiale, deşi înţelegem că ele nu pot fi ca cele din mănăstiri.

Sinteza tipiconală neo-savaită din sec. XIV, care a abolit „slujba cântării” de la Constantinopol şi a dat prioritate tipicului monahal, a fost de fapt o lucrare providenţială a lui Dumnezeu, care a ajutat la păstrarea unităţii ortodoxe, mai ales că, imediat după aceasta, a avut loc o perioadă lungă de turcocrație, când slujbele nu mai puteau avea fastul de altă dată din Constantinopol, ci au urmat rânduiala şi duhul slujbelor monahale. Şi cred că această tradiţie neo-savaită trebuie să fie păstrată, dar pentru fiecare loc şi timp trebuie găsite modalităţi pastorale de implimentare şi adaptare la realităţile concrete în care trăieşte o anumită comunitate, atât monahală, cât mai ales din lume. Există mai multe posibilităţi de adaptare şi scurtare a Tipicului, şi chiar marele liturgist grec Ioannis Foundoulis îndemna mai degrabă spre o variantă adaptată a tipicului monahal, decât spre elaborarea de rânduieli cu totul diferite pentru parohii. Trebuie să ştim să folosim cu discernământ această diversitate liturgică a Bisericii Ortodoxe, iar preoţii care nu înţeleg necesitatea pastorală de adaptare a Tipicului şi vor să citească totul ca la mănăstire, vor rămâne singuri, pentru că nu va mai merge nimeni la slujbele lor.

PP: Îmi amintesc, de exemplu, că Tipicul Sf. Teodor Studitul anula citirea Ceasurilor în duminici, la marile sărbători şi în toata perioada Penticostarului. Şi aceasta nu era o inovaţie parohială, ci o regulă mănăstirească, însă puţini sunt cei care ştiu despre aceasta, ca să poată avea un suport istoric în necesitatea de adaptare a rânduielilor actuale.

MS: Vechile rânduieli liturgice erau destul de flexibile şi, dacă vom cerceta cu atenţie manuscrisele, vom observa o diversitate foarte mare de rânduieli şi texte imnografice, care s-au uniformizat abia prin ediţiile tipărite ale cărţilor de cult. Deja şi credincioşii s-au obişnuit cu aceste rânduieli uniformizate, încât este greu să se mai schimbe ceva în esenţă. Pot exista însă diferite modele de adaptare a slujbelor monahale pentru parohii, aşa încât ele să fie mai scurte şi mai înţelese, iar cei care vor slujbe mai lungi, le pot avea la mănăstire, unde tipicul trebuie păstrat cu mai multă acrivie. Dar nici în parohii şi nici în mănăstiri nu trebuie să se exagereze, iar preoţii care vor să adapteze tipicul la realităţile parohiilor lor, trebuie să ştie bine istoria slujbelor, pentru a nu scurta sau înlătura elemente esenţiale de dragul celor secundare.

PP: Observăm, de exemplu, în Biserica Rusă, că majoritatea preoților încearcă să respecte tipicul privind citirea Psaltirii la Utrenie şi, de fiecare dată, citesc Catismele 2 şi 3 (nu totdeauna integral), aşa cum Tipicul prevede pentru ziua de duminică. Însă această rânduială este pentru mănăstiri, unde se slujeşte în fiecare zi şi se citeşte întreaga Psaltire. N-ar putea să existe măcar în această privinţă o mai multă flexibilitate şi o redistribuire a Catismelor?

MS: Sunt multe posibilităţi de a face slujbele mai vii şi mai dinamice. Dar episcopii şi preoţii trebuie să ţină cont şi de conştiinţa poporului, pentru că există locuri unde orice schimbare trebuie făcută cu multă precauţie. Iar acolo unde preotul învaţă poporul şi îi explică sensul slujbelor, cred că este foarte bine să se citească pe rând întreaga Psaltire: dacă o Catismă pare prea mult, se poate citi doar o „Slavă” sau anumiţi Psalmi mai relevanți, dar este important să existe această varietate care îmbogăţeşte şi dă viaţă slujbelor.

S-ar putea ca şi această recomandare simplă să nu fie acceptată de toţi, de aceea, Biserica Ortodoxă evită să consemneze în scris toate aceste recomandări, lăsând pe fiecare preot să hotărască când şi cum poate dinamiza slujbele în comunitatea sa. Este adevărat că cei mai mulţi nu ştiu să aprecieze ce este important şi ce este secundar în slujbe şi, de aceea, în loc să-i înveţe pe oameni Cuvântul lui Dumnezeu, ei scot catapeteasma din faţa altarului, fac Proscomidia în mijlocul bisericii şi multe alte inovaţii de genul acesta care, în cel mai bun caz, aduc un fel de entuziasm de moment, iar de multe ori smintesc şi traumează conştiinţa religioasă a credincioşilor. Astfel de experimente se pot observa în mai multe parohii din Occident, iar mai nou şi în Răsărit – şi toate sunt rezultatul aşa numitei „eclesiologii euharistice” şi a teoriilor lui Schmemann şi Zizioulas. De aceea, subliniez încă o dată faptul că preoţii trebuie să fie foarte bine ancoraţi în istoricul slujbelor şi să le înţeleagă duhul, ca atunci când vor face o schimbare, aceea să fie spre zidirea comunităţii, nu de dragul modernismului sau a comodităţii. Şi, uneori e bine să păstrăm unele lucruri care poate nu sunt foarte corecte, decât să smintim lumea, care este foarte sensibilă la detaliile ce ţin de slujbe. Totul depinde şi de nivelul de catehizare al comunității…

PP: În prelungirea acestei idei vreau să vă întreb ce părere aveţi despre structura actuală a Lecţionarului biblic? Uneori citim aceleași pericope evanghelice de mai multe ori pe an, dar lăsăm necitite multe alte pericope care sunt la fel de importante. Ar putea preotul să înlocuiască pericopa evanghelică de duminică cu alta din timpul săptămânii, pentru a diversifica şi predicile?

MS: După cum ştiţi, Lecţionarul este cea mai veche carte de cult a Bisericii. A apărut încă prin sec. IV şi a rămas aproape neschimbată de prin sec. XI încoace. Acest lucru nu poate fi neglijat, chiar dacă mulţi teologi, deja de multă vreme, au observat că sistemul este bun doar pentru mănăstiri, unde se slujeşte în fiecare zi, dar nu este deloc potrivit pentru parohii, unde se slujeşte doar în duminici şi sărbători.

Îmi dau seama că această întrebare provine dintr-o preocupare pastorală foarte corectă, numai că ea se referă la detalii foarte sensibile pentru cultul ortodox. De aceea, eu cred că nu trebuie să modificăm Lecţionarul, dar putem să adăugăm la Evanghelia de rând a duminicii o a doua pericopă, la alegerea preotului, pe care ar putea-o explica şi la predică.

Analizând experienţa nefericită a schimbărilor pe care le-au făcut romano-catolicii după Conciliul II Vatican, vedem că o modificare importantă în cult atrage după sine multe alte modificări care devin incontrolabile şi periculoase. E ca şi cum ai deschide puţin poarta unui baraj, dar după aceea nu mai poţi opri nicicum viitura.  

PP: Dar cum vedeţi sistemul lecturilor biblice la romano-catolici, unde au împărţite toate pericopele pe durata a trei ani (anii A, B şi C), aşa încât credincioşii care participă în fiecare duminică la slujbe, au ocazia să audă textele şi comentariile la întreg Noul Testament?

MS: Ceea ce au făcut romano-catolicii este foarte corect. La elaborarea acestui sistem au lucrat teologi foarte bine pregătiţi, care au reuşit să facă o reformă foarte bine gândită din punct de vedere teologic. Dar modalitatea prin care au implementat acest sistem, împreună cu alte reforme liturgice mai puţin reuşite, a fost una modernă şi lumească. Din punct de vedere teoretic, soluţiile propuse de teologii apuseni erau destul de bune, numai că, în această lume căzută, este foarte greu să limitezi schimbările doar până la un punct, apoi să spui că mai departe nu-i voie. De obicei se creează o avalanșă care nu mai poate fi oprită, pentru că omul modern a pierdut duhul ascetic al slujbelor Bisericii şi foloseşte astfel de reforme conform propriilor slăbiciuni. La prima vedere, se creează impresia unei dinamizări a slujbelor şi o deschidere a clerului către popor, dar în final, se produce o desacralizare şi o secularizare totală a slujbelor şi a întregii vieţi a Bisericii. Apusenii nu recunosc aceasta, dar reformele liturgice ale Conciliului II Vatican au generat cea mai mare criză din istoria Bisericii Romano-Catolice…

De aceea, după părerea mea, dacă şi ortodocşii vor modifica substanțial sistemul lecturilor biblice, se va produce o adevărată revoluţie cu urmări imprevizibile, pentru că o astfel de modificare ar atrage după sine şi alte modificări, precum ar fi scoaterea catepetesmei sau scurtarea drastică a slujbelor ş.a. Pentru a rezolva problemele pastorale şi misionare ale comunităţilor ortodoxe, nu trebuie să facem reforme liturgice substanţiale, ci să îmbunătăţim lucrarea pastorală şi catehetică în parohii, pentru a găsi soluţii particulare de rezolvare a fiecărei probleme în parte. Însă formele tradiţionale ale slujbelor şi structura Tipicului bisericesc nu trebuie modificate prin hotărâri oficiale, care să fie impuse tuturor.

PP: De exemplu, în parohia în care slujesc acum în Portugalia, Canoanele Utreniei le punem la Pavecerniţa Mică, pe care o citim seara după Vecernie, ca Utrenia cu Liturghia de duminică să aibă împreună o durată rezonabilă. Totodată, la Vecernie, chiar dacă nu avem rânduite Paremii, deseori citim câte o pericopă din Vechiul Testament, pe care o şi tâlcuim, iar la Utrenie citim integral câte o Catismă din Psaltire. Am observat că şi alte parohii au început să implimenteze aceeaşi rânduială, fără să se confrunte cu careva împotriviri sau probleme din partea credincioşilor, ba chiar sunt mulțumiți şi participă într-un număr mai mare la slujbe, atât dimineaţa, cât şi seara. Credeți că este acceptabilă o astfel de adaptare a Tipicului?

MS: În primul rând constat că toate adaptările pe care le-aţi făcut se înscriu perfect în tradiţia liturgică a Bisericii şi nu reprezintă modificări de esenţă ale cultului. Se vede că cunoaşteţi istoria slujbelor şi sensul fiecărui element în parte, aşa încât aţi făcut o dinamizare destul de bună a slujbelor. Pavecerniţa Mică, chiar dacă e o slujbă monahală, face parte din Laudele Bisericii şi are un moment special prevăzut pentru citirea Canoanelor. Faptul că aţi mutat Canoanele Utreniei la Pavecerniţă nu este deloc greşit, pentru că acestea nu sunt legate strict de slujba de dimineaţă, aşa cum sunt alte elemente ale Utreniei (cei Şase Psalmi, cele 12 rugăciuni ale preotului, Luminânda, Doxologia ş.a.), care nu pot fi puse decât dimineaţa. De asemenea, citirea unui fragment din Vechiul Testament la Vecernie şi tâlcuirea lui este o veche rânduială a Bisericii, care trebuie recuperată şi dezvoltată; iar necesitatea de a scurta timpul Utreniei, de asemenea este justificată, mai ales în diaspora, unde mulţi credincioşi vin de la distanţe foarte mari. Cu toate acestea, deşi aceste adaptări par foarte bune şi cu temeiuri clare în istoria şi tradiţia liturgică, nu cred că un astfel de tipic poate fi impus peste tot. Uneori, pentru a ajunge la o astfel de adaptare a slujbelor, este nevoie de mulţi ani de catehizare şi educaţie duhovnicească a credincioşilor, care s-ar putea să nu înţeleagă detaliile acelor adaptări, dar să simtă în duh dacă ele corespund sau nu Tradiţiei Bisericii.

PP: Ce părere aveţi despre rânduiala liturgică a Mănăstirii Essex din Anglia, unde Vecernia şi Utrenia sunt înlocuite cu rostirea în comun a rugăciuni „Doamne, Iisuse Hristoase, Fiul lui Dumnezeu, miluieşte-ne”? Din câte ştiu, iniţial, această rânduială a fost condiţionată de faptul că nu aveau traduse în engleză toate cărţile de cult, iar „rugăciunea lui Iisus” ar fi fost singura modalitate de a se putea ruga împreună monahii şi monahiile de diferite naţionalităţi. Această rânduială însă continuă şi acum, când există deja traduse cărţile de cult, iar diferite mănăstiri şi chiar parohii din lumea ortodoxă încearcă să împrumute şi să implimenteze aceeaşi practică. Cum vedeţi acest lucru?

MS: Această rânduială este proprie Mănăstirii Essex şi părintelui Sofronie, şi nu este legată doar de lipsa cărţilor de cult, ci şi de specificul gândirii şi trăirii acestui stareţ. În primul rând trebuie să precizăm că părintele Sofronie nu a vrut să facă o mănăstire. El însuşi spunea că are un grup de ucenici cu care vrea să se roage împreună. Abia mai târziu tinerii din jurul Sfinţiei Sale au început să devină monahi şi să fie organizaţi după modelul unei mănăstiri mai mult sau mai puţin chinovitice. Dacă analizăm gândirea şi duhul părintelui Sofronie, ne dăm seama că el, încă pe când era la Russikon, avea o dificultate faţă de slujbele foarte lungi, care i se păreau rigide şi obositoare. De aceea, imediat ce stareţul său Siluan a trecut la Domnul, părintele Sofronie a ales calea pustiei, unde a practicat doar rugăciunea inimii. Aici în Muntele Athos, în special la colibe şi chilii, se practică înlocuirea Laudelor cu un anumit număr de komboskini (şirag de metanii) numai că, fiecare monah face această pravilă în particular. Aici e marea diferenţă! Biserica nu cunoaşte tradiţia ca rugăciunea lui Iisus să se spună în comun în locul Laudelor. Vorbeam o dată cu papa Efrem Katunakiotul şi-mi spunea că atunci când este singur, în locul Laudelor spune rugăciunea inimii, dar dacă are un ucenic sau un vizitator, slujeşte Laudele tradiţionale (chiar dacă într-o formă mai simplă). Monahul nu poate trăi fără slujba Laudelor („psalmodie” – cum o mai numesc Părinţii) şi, dacă nu are condiţii pentru a le săvârşi, le poate înlocui cu „rugăciunea lui Iisus”, dar dacă sunt mai mulţi fraţi, e bine să fie săvârşite Laudele tradiţionale care, prin textele şi duhul lor, ne încadrează în Trupul comun al Bisericii. Deci, în tradiţia athonită Laudele sunt slujbe comune, iar „rugăciunea lui Iisus” este o rugăciune particulară; ele se completează reciproc, dar nu se substituie una alteia.

În concluzie, ceea ce a rânduit părintele Sofronie pentru Essex poate să fie valabil doar la Essex, dar nu mi se pare corect să fie preluat şi de alte mănăstiri, pentru că aceasta, deşi pare interesant din punct de vedere duhovnicesc, are şi implicaţii eclesiologice foarte profunde, care nu trebuie neglijate. Nu ne îndoim de sfinţenia şi autoritatea părintelui Sofronie, dar acea rânduială de slujbe trebuie să rămână o particularitate doar pentru acel loc, care are şi o istorie aparte.

PP: În comunitatea în care slujesc, în special când credincioşii stau în rând la împărtăşire sau la miruit, din cauza spaţiului mic şi a multor copii, se face multă gălăgie. Am încercat diferite metode pentru a depăşi această problemă, iar cea care mi s-a părut mai eficientă este chiar „rugăciunea lui Iisus”. Adică, în timp ce preotul împărtăşeşte credincioşii, toată lumea, inclusiv copiii, rostesc împreună „Doamne, Iisuse Hristoase, miluieşte-mă” – şi astfel se face linişte, iar cei care stau în rând continuă să se pregătească şi să păstreze trezvia necesară pentru împărtăşire. Ce părere aveţi de această abordare?

MS: Mi se pare o soluţie bună. Până la urmă este o metodă pastorală ce ţine de o problemă concretă a unei comunităţi. Dacă aceasta ajută la păstrarea liniştii şi crează o atmosferă mai potrivită pentru acel moment al slujbei, este foarte bine. Întrebarea precedentă însă era despre înlocuirea slujbelor tradiţionale, în special Vecernia şi Utrenia, cu „rugăciunea lui Iisus”, ceea ce e cu totul altceva.

PP: Există mănăstiri, dar şi preoţi de mir, care în Postul Mare slujesc Liturghia Darurilor Înaintesfinţite în fiecare zi (de luni până vineri). Tot mai mulţi preoţi slujesc această Liturghie seara, pe la orele 17:00 sau chiar 19:00, când credincioşii termină munca, iar preoţii le cer să postească întreaga zi pentru a se împărtăşi. Cum vedeţi Sfinţia Voastră aceste lucruri?

MS: Există şi în Sfântul Munte mănăstiri care slujesc Liturghia Darurilor Înaintesfinţite în fiecare zi, dar acest lucru nu este corect. Postul Mare presupune abstinenţă inclusiv de la împărtăşirea euharistică. Tocmai de aceea Biserica interzice săvârşirea Liturghiei obişnuite în zilele de rând, şi numai de două ori pe săptămână (miercurea şi vinerea) ne împărtășim spre întărire din Darurile Înaintesfinţite. Deci, logica Postului Mare este să trezim prin post dorul după Hristos, ca după Paşti să ne împărtăşim în deplină bucurie duhovnicească. Noi însă am schimbat această logică a Bisericii cu o logică omenească şi ne împărtăşim mai des în Postul Mare, iar după Paşti, cei mai mulţi, nu se împărtăşesc deloc. Acest lucru este greşit şi mi se pare deplasată practica unor preoţi de mir care se cred mai tradiționaliști decât călugării, sfidând de fapt Tradiţia Bisericii.

Iar în ce priveşte ajunarea pe parcursul întregii zile, desigur este un lucru lăudabil, dar nu poate fi impus sau considerat ca normă. De obicei, chiar şi în pustie, monahii posteau până la ceasul IX din zi, adică aproximativ orele 15:00. Acolo unde se săvârşeşte Liturghia Darurilor Înaintesfinţite la această oră, se poate pretinde ajunarea totală până la împărtăşire. Dar în lume, unde oamenii muncesc din greu toată ziua şi termină serviciul abia pe la 17-18, nu se poate pretinde o astfel de ajunare totală. Deci, este corect să se slujească Liturghia Înaintesfinţitelor seara, căci numai aşa i se înţelege sensul şi se respectă ciclul zilelor liturgice, dar în acest caz mirenii pot mânca mâncare de post în partea de dimineaţă a zilei, apoi să ajuneze cel puţin şase ore până la împărtăşire. Chiar dacă, la prima vedere, nu se ajunează suficient, totuşi mi se pare această practică mai corectă decât slujirea Liturghiei Înaintesfinţitelor dimineaţa.

PP: Vă mulţumesc foarte mult pentru această discuţie. Sunt sigur că multora le va fi de folos...

 
Perché non sono consentiti i rapporti prematrimoniali?
  • Perché non sono consentiti i rapporti prematrimoniali?

Guarda, figlio mio, tutte le cose hanno un uso buono, quindi non posso usarle nel modo in cui voglio, giusto? Tutto ha un uso buono. Quindi, usiamo il nostro corpo nel modo che Dio permette. Semplice, no?

Nessuno può essere unito a un altro senza la grazia di Dio. Che cos'abbiamo detto? Qual è la tragedia dell'umanesimo? Una società senza Dio!

Come può la gente essere unita? Ebbene, prendete due oggetti, per esempio... Come può questo microfono essere unito a questo orologio, se non li tengo tutti e due nelle mie mani? Così pure due persone. Come possono essere uniti l'una all'altra, se Dio non le unisce? Solo volendosi l'una l'altra? Volere non basta... questo è umanesimo: io ti voglio, tu mi vuoi, ma chi ci unirà insieme?

È estremamente facile per loro finire per separarsi; di aver creduto di essere uniti e poi separarsi... Beh, questo è esattamente il motivo per cui si separano!

Sto solo raccontandoti in termini semplici la società; anche se... per me, questo non è un grosso problema... voglio dire, come mi unisco? Con chi? L'altra persona è un corpo E un anima! Dove sarai unito con l'altro? Solo perché avete unito i vostri corpi, nel corso di una cosa zoppa chiamata "sesso"? Proprio così – senza l'amore di Dio e senza l'unione di due anime, il sesso è solo una cosa zoppa... priva di alcun significato... non porta da nessuna parte!

Come si può avere un'unione senza la grazia di Dio? Come pensi che funzionerà? Anche il testo della Scrittura dice così. Osservalo... è il secondo capitolo della Genesi. È lì che Dio inizia. E cosa dice circa l'uomo? "...e la costola che aveva preso da Adamo, il Signore Dio la plasmò in una donna e la condusse ad Adamo. E l'uomo disse, adesso questa è ossa delle mie ossa e carne della mia carne; sarà chiamata donna, perché è stata presa da suo marito. Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne". (Genesi 2:22-24)

Hai sentito quello che dice? Dice: "si unirà a" e "diventerà una sola carne". Ebbene, "unito a" si riferisce alla loro anima, poi segue l'unione della loro carne. L'uomo è composto da due cose: il corpo e l'anima. Vedi? Che testo sintetico! In primo luogo, l'uomo è "unito a" nell'anima, poi i due "diventano una sola carne". Come può la loro carne "diventare una", senza l'esistenza dell'amore, dell'unione delle loro anime?

Un attaccamento l'uno all'altro? Beh, ​​di per sé è evidente: da lì in poi, è solo una questione di usare l'altra persona fisicamente... usi l'altra persona fisicamente, al fine di soddisfare le tue esigenze ... Vuol dire che l'altra persona è solo un bene di consumo? Un kebab?

Qual è il significato di "prostituzione"? E l'uso inopportuno, illegittimo di un altro corpo. Lo si utilizza. Si considera la persona come mera carne, quindi anche tu sei solo carne. E quando tutto è solo carne, non c'è la grazia dello Spirito Santo, quindi tutto è inutile!

 

È proprio per questo che esiste il mistero del matrimonio. È dove tutta la persona si illumina e diventa destinataria della grazia dello Spirito Santo. Non è quindi una questione di essere uniti semplicemente per mezzo di sesso ordinario. Questo è il vero problema: guai se un matrimonio finisce per essere solo questo. Certo che il matrimonio comprende anche il sesso, ma c'è anche un altro tipo di unione – un'unione molto profonda – in cui (se la si intraprende correttamente) tutti quei presunti "problemi coniugali" e quegli pseudo "problemi sessuali" non ci saranno più, se la tua base è quel punto profondo in cui l'altro è visto come un corpo e un'anima, e dove tutto è riunito per la grazia dello Spirito Santo. Tutte le altre questioni sono solo un modo egoista di incapricciarsi dell'altro. Cioè, vedere l'altro solo come carne – solo come un oggetto. Tieni a mente queste cose!

Gli anziani sono asceti, ma si preoccupano comunque per queste cose. Anche loro sono stati sottoposti a tentazioni carnali. Tieni a mente anche questo!

La nostra epoca sta vivendo la tragedia di relazioni sessuali ed erotiche... cioè, il culmine della tragedia dell'umanesimo – ecco quel che è! Dice all'uomo "fai quello che vuoi!" Ma l'uomo non è limitato a "fare quello che vuole"; L'uomo ha un corpo e un'anima. Come dovrebbero funzionare entrambi? E hanno offuscato le menti dei nostri figli... letteralmente, con il tema delle relazioni erotiche! Ed essi ne sono ignari! I giovani non riescono a pensare correttamente! Non riescono a vedere niente altro! I modelli di riferimento sono del tutto sbagliati! Ed è veramente indispensabile che ci rivolgiamo a un'altra comprensione delle cose – per quanto solo umana – che l'altra persona non è un oggetto. Punto e basta! L'altra persona non è un oggetto! Non può essere altrimenti! Dovrebbe esserlo solo perché ho la possibilità di sfruttarla?

Così sto dicendo le cose molto semplicemente. Non sono solo le parole della Scrittura; si tratta di mostrare rispetto all'altra persona!

Così tante ragazze vengono da me e mi dicono... lo dico sinceramente – è un tema centrale durante la confessione – Ha incontrato un giovane, e mi dice che lui vuole fare sesso con lei. (Lo dico senza mezzi termini):

Quindi le chiedo: "Ti ama?"

Lei risponde "Sì, mi ama".

Quindi io dico: "Solo perché lo ha detto? Sembra che sia bravo a farsi pubblicità. Se è vero, deve dimostrarlo. "

Allora chiede: "Come può dimostrarlo?"

"Ti spiegherò tutti i trucchi", rispondo; "Ne conosco tanti".

"Mi dica, padre, qual è il trucco?", risponde.

"Guarda, il trucco è assolutamente sicuro," le dico. "L'ho provato per ben trentadue anni. E per coloro che lo hanno provato, ha dato un successo del 100 per cento. "

Poi dice: "Beh, me lo dica! Non sto nella pelle!"

"È abbastanza semplice", le dico. "Aspetta e vedrai. È molto semplice. Ha detto che ti ama? 'Amare' qualcuno significa fare qualcosa per lui senza aspettarsi alcun pagamento in cambio. Voglio dire, se amo una persona povera, non le dico 'ora dammi dieci euro'. Perché pagare? Così ora, dì al tuo ragazzo 'mi ami?' Se risponde di sì, digli che va tutto bene! In tal caso, dovrebbe amarti gratuitamente. Che cosa significa? Significa che dovrebbe amarti gratis, senza ottenere nulla in cambio da te. Se comincia a dire 'ma questo... ma quello... ma perché... ma sai... io sono un uomo e ho dei bisogni, ecc.', allora è proprio un caso di consumismo, giusto? Pertanto, deve amarti senza chiederti qualcosa in cambio. "

"Ma in questo modo io lo perdo" risponde lei.

"E con questo? A cosa ti serve? È un mercante. Ti lascerà non appena ti avrà utilizzata. Come mangiare un kebab: basta buttare via la confezione e metterti il cuore in pace, giusto? E tu finisci per essere spazzatura. Mi sbaglio? Beh, questo metodo – che è il metodo della Chiesa – è così semplice! Provato da me, per trentadue anni! Con un tasso di successo del cento per cento! E tutti quegli ometti se ne vanno, perché non possono fare a meno del consumismo. Giusto?"

"Così," le dico, "in questo modo, non finirai nei guai, eh? Perché più tardi li lascerà! Perciò stai attenta! Se si ama, sarà lui a rimanere. Dopo di che, vedremo come andranno le cose. Prenderemo la cosa in considerazione; ne discuteremo poi. Sarà una grande discussione in seguito. Davvero una grande discussione! "

 
Lista de nume preoților parohi ale comunităților persecutate din Biserica Ortodoxă Ucraineană

(pentru pomenirea de rugăciune la slujbe și în privat)

pravlife.org

Arhimandritul Longhin

Protoiereul Vasile

Protoiereul Oleg

Protoiereul Vitalie

Protoiereul Vitalie

Protoiereul Victor

Protoiereul Victor

Protoiereul Ilie

Protoiereul Vasile

Protoiereul Sergiu

Protoiereul Sergiu

Protoiereul Vasile

Protoiereul Alexandru

Protoiereul Victor

Protoiereul Alexandru

Protoiereul Grigorie

Protoiereul Ilie

Protoiereul Victor

Protoiereul Vladimir

Protoiereul Igor

Protoiereul Alexandru

Protoiereul Andrei

Protoiereul Sergiu

Protoiereul Vasile

Protoiereul Bogdan

Protoiereul Alexandru

Protoiereul Vasile

Protoiereul Alexandru

Protoiereul Andrei

Protoiereul Vladimir

Protoiereul Vladimir

Protoiereul Andrei

Protoiereul Nicolae

Protoiereul Veaceslav

Protoiereul Rostislav

Protoiereul Mihail

Protoiereul Vasile

Protoiereul Alexandru

Protoiereul Vladimir

Protoiereul Petru

Protoiereul Nicolae

Protoiereul Dimitrie

Protoiereul Sergiu

Protoiereul Vasile

Protoiereul Alexie

Protoiereul Mihail

Protoiereul Ștefan

Protoiereul Vladimir

Protoiereul Gheorghe

Protoiereul Vasile

Protoiereul Alexandru

Protoiereul Ioan

Protoiereul Ștefan

Protoiereul Serafim

Protoiereul Iaroslav

Protoiereul Alexandru

Protoiereul Vasile

Protoiereul Vasile

Protoiereul Anatolie

Protoiereul Nicolae

Protoiereul Alexandru

Protoiereul Nicolae

Protoiereul Vladimir

Protoiereul Sergiu

Protoiereul Ioan

Protoiereul Tarasie

Protoiereul Ioan

Protoiereul Mihail

Protoiereul Leonid

Protoiereul Ioan

Preotul Anatolie

Preotul Bogdan

Preotul Vitalie

Preotul Taras

Preotul Vladimir

Preotul Alexandru

Preotul Roman

Preotul Sergiu

Preotul Ioan

Preotul Nazarie

Preotul Sergiu

Preotul Rostislav

Preotul Petru

Preotul Victor

Preotul Pavel

Preotul Sergiu

Preotul Vitalie

Preotul Constantin

Prieotul Vasile

 
Suor Vassa Larina e padre Sergej Sveshnikov: un confonto sull’impurità rituale

La questione dell’impurità rituale (in gran parte centrata sulla partecipazione delle donne alle funzioni e ai sacramenti nei giorni del ciclo mestruale) crea molti problemi nelle chiese ortodosse di oggi. Di fronte alla facile strumentalizzazione di regole nelle quali sembra regnare un’assoluta ignoranza, è davvero provvidenziale vedere due contributi seri, documentati e, anche se non del tutto concordi, sicuramente complementari per una presa di coscienza del tema. Presentiamo dunque nella sezione “Ortoprassi” dei documenti la nostra traduzione italiana dei saggi di suor Vassa Larina e di padre Sergej Sveshnikov sulla purezza rituale, apparsi in inglese nel 2009 su Pravmir.com.

 
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Padre Seraphim Rose (1934-1982)

Nella Foto: Icona di Padre Seraphim Rose. 

Questa icona è stata dipinta a Torino nel 1996 dall'iconografo romeno padre Irineu (Toader), monaco rassoforo dell'eremo di Crasna. Attualmente l'icona si trova nel Monastero di Visoki Decani, nel Kosovo.

Uno strano "segno dei tempi" ha visto sorgere in un territorio apparentemente inconsueto (la California) e in un ambiente culturale dei più impensabili (la Beat generation) una delle voci più profetiche dell'Ortodossia del ventesimo secolo. Un umile convertito americano, vissuto per gran parte della sua vita in uno stretto isolamento, e morto (per i criteri di questo mondo) nel fiore dei suoi anni, è oggi a livello internazionale una delle figure più conosciute del monachesimo ortodosso.

Eugene Rose nasce nel 1934 a San Diego, sulla costa meridionale della California, da una famiglia che incarnava il tipico "sogno americano" (laboriosità, benessere economico, una vaga religiosità vissuta all'interno di "rispettabili" comunità protestanti, valori morali perseguiti in modo onesto ma superficiale). La sua educazione è il prodotto tipico dell'America del dopoguerra, e di tutte le sue inquietudini e contraddizioni. Avvertendo un vuoto di fondo alla base di questa visione del mondo, lo spirito intelligente e analitico di Eugene lo porta negli anni universitari a immergersi nel mondo della contro-cultura californiana degli anni '60.

Come molti suoi contemporanei, Eugene inizia un cammino di conoscenza delle religioni e filosofie dell'estremo Oriente, ma rimane presto insoddisfatto della gerarchia di valori "alternativi" proposti dall'incontro tra queste millenarie tradizioni e la mentalità moderna dell'Occidente. La debolezza e il relativismo delle risposte della contro-cultura stimolano in lui un cammino di scoperta di una verità più profonda.

In un periodo di ricerca di un nucleo di verità comuni alle grandi tradizioni religiose, viene in contatto con la Chiesa ortodossa, e inizia a frequentare la cattedrale della Chiesa Russa all'Estero a San Francisco. Questo incontro è il seme di una trasformazione interiore che, in capo a un paio di anni, gli fa acquisire una visione rinnovata.

A contatto con l'Ortodossia, la fede cristiana dei suoi anni di infanzia gli si ripresenta nella pienezza di una verità trasformante, fattasi persona (un tratto di netta distinzione con le filosofie spiritualiste allora in crescita), ed espressa in una continuità ininterrotta di fede e di dottrina. Trovando finalmente un'autentica alternativa agli approcci parziali e accomodanti del cristianesimo occidentale, e alle soluzioni altrettanto ristrette della contro-cultura, Eugene entra a far parte della Chiesa ortodossa nel Febbraio 1962.

Con la nuova prospettiva fornitagli dalla visione ecclesiale ortodossa, Eugene può sviluppare un'analisi critica del mondo moderno: inizia a dedicarsi alla stesura di un libro che passa in rassegna le tappe della progressiva scristianizzazione degli ultimi secoli, e mostra come il graduale allontanamento dall'ordine tradizionale apre la strada a un futuro ben più inquietante di quanto si creda. Quest'opera, il cui titolo avrebbe dovuto essere Il regno dell'uomo e il Regno di Dio, è rimasta incompleta: Il testo pubblicato anche in italiano, Nichilismo. Le radici della rivoluzione nell'età moderna (Schio: Interlogos 1998), non ne copre che un singolo capitolo.

Tra i numerosi incontri che arricchiscono la vita ecclesiale di Eugene, è decisivo quello con Gleb Podmoshensky, un seminarista di famiglia russo-lettone, che è al suo fianco nel cammino di approfondimento della fede ortodossa, e che in seguito condividerà con lui la vocazione eremitica e monastica e il sacerdozio.

Nel Novembre 1962, viene insediato a San Francisco uno dei più straordinari vescovi ortodossi del ventesimo secolo, che avrebbe lasciato una decisiva impronta su Eugene e sul suo cammino: si tratta del santo Arcivescovo John Maximovich (la cui canonizzazione ha avuto luogo a San Francisco nel 1994, a opera delle gerarchie della Chiesa Russa all'Estero e del Patriarcato di Serbia).

L'Arcivescovo John giunge in California dopo una vita di infaticabile opera missionaria in Asia (era stato consacrato in origine come Vescovo di Shanghai), Africa, e in vari paesi d'Europa. La sua fama di asceta e taumaturgo lo ha preceduto da tutti questi luoghi, così come i frutti della sua visione apostolica,  non sempre compresa dalle stesse gerarchie ortodosse.

L'ideale perseguito dall'Arcivescovo John è la costituzione di un'Ortodossia occidentale, non tramite la fondazione di "filiali" delle Chiese orientali storiche, ma attraverso la rigenerazione, compiuta all'interno della vita ecclesiale ortodossa, delle radici cristiane ortodosse dell'Occidente contemporaneo. Questo compito davvero arduo ha ricondotto molti francesi all'Ortodossia, e ha aiutato a creare in altri paesi (tra cui i Paesi Bassi e la stessa Italia) un clima favorevole alla costituzione di una Chiesa ortodossa genuinamente locale.

Ispirati dall'Arcivescovo John, Eugene e Gleb, assieme ad alcuni amici, si costituiscono in una fraternità, posta sotto il patronato di uno dei primi evangelizzatori ortodossi in America: il beato Herman dell'Alaska. Tra gli scopi della fraternità, oltre a un esperimento di vita comune tra giovani attivisti della Chiesa, vi è la diffusione degli insegnamenti patristici e ascetici dell'Ortodossia: un campo per il quale l'Occidente inizia in questi anni a mostrare i primi, timidi segni di interessamento.

I fratelli preferiscono operare attraverso modalità non necessariamente vincolate alle strutture parrocchiali esistenti, e decidono di aprire un negozio di libri e icone a San Francisco: in questo modo sono in grado di estendere una testimonianza di fede ortodossa a molte persone per diverse ragioni estranee agli ambienti ecclesiali, per ignoranza, distanza culturale o per un esplicito rigetto delle tradizioni.

Molte sono le persone che scoprono l'Ortodossia attraverso la libreria gestita dalla fraternità, e diversi iniziano qui un cammino di fede che li porta in seno alla Chiesa.

Con la benedizione dell'Arcivescovo John, la fraternità inizia nel 1964 la pubblicazione della rivista The Orthodox Word (La parola ortodossa), che per oltre un trentennio ha continuato a fornire traduzioni di testi patristici (molti dei quali apparsi per la prima volta in una lingua occidentale), scritti spirituali, vite di santi e testimonianze dell'Ortodossia sofferente.

Un compito particolarmente sentito dai fratelli, attraverso le pagine della rivista e l'impegno di testimonianza personale, è quello di suonare una nota di cautela nei confronti del gusto di compromesso con il mondo che sta inizando a intaccare, in quegli anni, alcuni ambienti delle giurisdizioni ortodosse più propense al dialogo ecumenico e ai confronti con la civiltà contemporanea.

Dopo la morte (nell'estate del 1966) dell'Arcivescovo John, il timore di coinvolgimento dell'attività missionaria ortodossa in una politica di rivalità ecclesiastiche, a livello parrocchiale e diocesano, è la molla che spinse Eugene e Gleb ad abbandonare San Francisco e a ritirarsi in solitudine, fondando uno skit (eremo).

Nel 1967, dopo avere trovato un terreno boschivo a Platina, nella California settentrionale, Eugene e Gleb abbandonano il mondo e vi si trasferiscono, combinando la loro missione di traduzione, stampa e diffusione di testi patristici con una vita di stile monastico nella frontiera occidentale americana.

La vita di fratellanza nel deserto, iniziata tra mille difficoltà pratiche, è però sostenuta dalla sapiente esperienza di secoli di monachesimo ortodosso: i fratelli sono in grado di applicarne gli insegnamenti in un modo più efficiente (e senza dubbio più vissuto) di quanto avevano potuto fare nel loro periodo di apostolato urbano.

Nel 1970 ha luogo la canonizzazione del Beato Herman dell'Alaska, il patrono delle attività missionarie della piccola fraternità: pochi mesi dopo, anche i due fratelli accettano di essere tonsurati monaci, Eugene con il nome di Seraphim, e Gleb con quello di Herman.

La tonsura monastica, che era sembrata ai due fratelli il naturale coronamento della loro scelta di vita eremitica, dà luogo a vari problemi con l'Arcivescovo locale; il desiderio di quest'ultimo di assegnare Padre Seraphim e Padre Herman come parroci in chiese prive di pastore rischia di distruggere le attività missionarie e la loro esperienza di monachesimo del deserto.

Con il tempo, tuttavia, cresce l'affluenza di pellegrini e fedeli, che cercavano attraverso i due padri una luce spirituale per orientare la propria vita cristiana; arrivano anche novizi, e all'eremo di Platina si istituisce un percorso di studi religiosi monastici. L'esperienza missionaria della fraternità aveva preparato i padri Herman e Seraphim ad affrontare i casi più diversi, e talvolta più disperati, di necessità spirituali.

Nella sua opera di trasmissione dell'esperienza monastica, Padre Seraphim si adopera con incredibile energia per far comprendere la validità del monachesimo ortodosso anche in un mondo pieno di alternative religiose: dalle sue lezioni ai novizi, si sviluppa un vero e proprio "corso di sopravvivenza ortodossa", che spazia su ogni campo dello scibile umano.

L'isolamento dell'eremo di Platina, lungi dall'attenuare la sensibilità ecclesiale dei padri, permette loro di valutare con un maggiore distacco alcuni temi delicati della vita ortodossa americana, tra cui lo stesso zelo per la tradizione, che aveva portato in altri contesti a un certo intransigentismo. Sono interessanti alcuni tentativi, compiuti da Padre Seraphim nei suoi ultimi anni, di contrastare con un approccio di moderazione gli eccessi di "rinnovamento" all'interno dell'Ortodossia, sia in senso modernista che conservatore.

Solo alla fine del 1976 Padre Herman e Padre Seraphim accettano di essere ordinati sacerdoti, quasi a malincuore, sicuri che le necessità del ministero avrebbero sottratto tempo prezioso all'attività di traduzione e diffusione di testi patristici.

L'attività sacerdotale dei due padri è comunque fondata sulla roccia degli insegnamenti spirituali che essi avevano fatti propri e cercato di vivere da oltre un decennio, e, a quel punto, lo sforzo missionario della piccola fraternità non tarda a far vedere i suoi primi importanti frutti. Nel corso di pochi anni, i padri accolgono centinaia di nuovi membri nella Chiesa ortodossa; attraverso un'opera iniziata in piccole missioni domestiche, si aprono numerose chiese nella California settentrionale e negli stati confinanti.

Un ulteriore numero di novizi e monaci viene a stabilirsi nell'eremo, non lontano dal quale si fonda anche un eremo femminile dedicato a Santa Xenia. Platina diviene il centro di un movimento che coinvolge un numero crescente di ortodossi negli Stati Uniti, e che dopo la morte di Padre Seraphim riuscirà ad aprire un monastero in Alaska, nelle terre originariamente evangelizzate dal Santo Herman.

Padre Seraphim muore il 20 Agosto/2 Settembre 1982, dopo una breve ma intensa agonia, per i postumi di una malattia giovanile che già avrebbe potuto stroncarlo negli anni in cui era divenuto ortodosso. Egli aveva anzi vissuto tutti gli anni della sua missione nella certezza che questi fossero un "tempo regalato", un dono fattogli al solo scopo di diffondere la conoscenza dell'Ortodossia in Occidente.

Dopo la sua morte (come già era accaduto per l'Arcivescovo John Maximovich) ha luogo una serie di guarigioni e di conversioni in seguito a preghiere a lui rivolte; forse l'episodio più significativo è la conversione all'Ortodossia, tramite ispirazione alla sua figura, di centinaia di membri di un gruppo monastico indipendente, l'Ordine di MANS, partito da posizioni sincretiste comuni all'ambiente New Age, ed evolutosi in una attiva fraternità ortodossa.

Oltre a questi numerosi eventi (per nulla insoliti per coloro che credono), ci resta di Padre Seraphim un gran numero di scritti di notevole valore, e un esempio di come, anche in questa civiltà sempre più aliena dal cristianesimo, sia possibile vivere una vita del tutto simile a quella degli antichi Padri e santi asceti.

Per le persone che sperimentano maggiore inquietudine nella ricerca della verità, soprattutto i più giovani, e coloro che si sono rivolti a religioni e spiritualità orientali non cristiane, Padre Seraphim è il punto di riferimento ideale nel mondo ortodosso, in grado di comprendere le tappe dei più diversi pellegrinaggi verso la fede cristiana.

L'approccio di Padre Seraphim ai problemi dell'Ortodossia contemporanea, pur muovendosi in una totale fedeltà alla Tradizione, è caratterizzato dalla mancanza di qualsiasi polemica a livello giurisdizionale: egli è rimasto leale per tutta la vita, scontrandosi spesso con l'ostilità della propria gerarchia, alla Chiesa Russa all'Estero, che lo aveva accolto come convertito; tuttavia, non ha voluto cadere negli eccessi di zelo e di rivalità che talora dividono le giurisdizioni ortodosse, adoperandosi anzi per promuovere uno spirito di mutua comprensione: ne è una testimonianza il suo spirito di profonda comunione con i confessori dell'Ortodossia nel Patriarcato di Mosca, come Padre Dimitri Dudko.

A fianco del suo prezioso impegno di traduzione e diffusione di letteratura patristica, Padre Seraphim ci ha lasciato anche contributi letterari di notevole chiarezza, che tentano di offrire una risposta ortodossa ad alcuni grandi problemi contemporanei.

Affrontando nel 1978 il tema dei nuovi movimenti religiosi nell'opera Orthodoxy and the Religion of the Future (L'Ortodossia e la religione del futuro), ci mostra quanto la tradizione patristica ortodossa abbia da dirci in proposito alle tendenze della religiosità contemporanea (inclusi alcuni nuovi movimenti orientali, il fenomeno degli UFO, i movimenti carismatici e certe tendenze dell'ecumenismo e del dialogo interreligioso).

Altri scritti provano a rivalutare una posizione cristiana di fronte a ideologie costruite su dati presi per scontati (come l'intero mondo dell'evoluzionismo contemporaneo).

Di fronte a casi di incapacità pastorale di rispondere alle domande sulla vita oltre la morte (una incapacità manifestata purtroppo anche all'interno di strutture ecclesiali ortodosse), Padre Seraphim ha voluto presentare l'escatologia ortodossa, le esperienze dei santi e la dottrina dei Padri della Chiesa a fianco delle esperienze extracorporee e di "pre-morte", e delle loro spiegazioni provenienti da antiche tradizioni pre-cristiane o da moderne ipotesi occultiste o parapsicologiche. Quest'opera, intitolata The Soul After Death (L'anima dopo la morte), è probabilmente il più diffuso tra i libri di Padre Seraphim, e le sue traduzioni in varie lingue sono diffuse in tutto il mondo ortodosso. La traduzione italiana è del 1999 (L'anima dopo la morte, Schio: Interlogos).

Una delle opere patristiche di Padre Seraphim ha un valore particolare per la riscoperta dell'Ortodossia nei paesi dell'Europa occidentale. Traducendo una raccolta di vite di santi dell'antico Occidente cristiano, la Vita Patrum di San Gregorio di Tours, Padre Seraphim l'ha corredata di uno studio sull'antica Gallia cristiana: da questo, e dalle esperienze dei santi monaci narrate da San Gregorio, vengono alla luce impensabili paralleli tra i primi secoli dell'Occidente cristiano e la realtà attuale della Chiesa ortodossa. Uno sforzo simile, attuato anche per il nostro paese, potrebbe aprirci gli occhi sulle radici ortodosse del nostro passato.

Di tutta la notevole produzione letteraria di Padre Seraphim, solo un paio di opere sono oggi disponibili in lingua italiana (tuttavia, all'interno della comunità torinese del Patriarcato di Mosca, abbiamo anche tradotto alcuni capitoli della sua biografia). Ci auguriamo una maggiore diffusione delle opere che furono oggetto della missione di approfondimento e di trasmissione spirituale di uno dei più straordinari testimoni della Fede ortodossa dei nostri tempi.

 
L'altare: un cammino pericoloso

 

"Io posso", - ha detto Pasha, e si è calato la mitra sugli occhi. "A mio parere, va bene come copricapo" - sorrideva, guardando dall'alto in basso gli intorpiditi servitori d'altare e il diacono. Pasha li guardava davvero dall'alto in basso - era alto quasi due metri. Ed era anche devoto, a quanto pare: non è così facile metterti la mitra episcopale sulla testolina. Allora c'è bisogno di umiltà. In quantità. E, naturalmente, ce n'è stata, come ha mostrato in seguito il parroco, pallido per l'indignazione, ai servitori d'altare: "Ragazzi, non toccatelo. È il nipote di un VIP. È così buono. E si comporta sempre bene. Beh, quasi sempre. In breve, non toglietegli la mitra: può picchiarvi. O denunciarvi".

Anche senza fare la spia Pasha faceva arrabbiare i servitori d'altare - vecchi e giovani, con quella semplicità che non permette nemmeno un cenno di opposizione, con cui passeggiava per l'altare in mitra vescovile. "Ma così non si può!" - Tutti sospiravano. E Pasha sorrideva umilmente e continuava a fare giri nell'altare. E poi si è tolto la mitra: non l'ha nemmeno sollevata, se l'è strappata via quando ha sentito i passi e il rumore del bastone dello zio. E prima di tutti si è inchinato in una profonda riverenza, ed è accorso per primo a mani giunte a chiedere una benedizione.

Presto se ne è andato, sparito da qualche parte, lasciando un ricordo molto grato, e il soprannome di "Pasha Obnorskij" [dal nome di Pavel Obnorskij, benefattore ecclesiastico del XIII secolo, ndt] - a quanto pare datogli per la sua speciale devozione. Beh, se n'è ​​andato. Forse ora è da qualche parte. Con la mitra. È accaduto tanto tempo fa. E forse non è avvenuto - è stato tutto un incubo.

Pasha se n'è andato, ma i problemi rimangono. Indichiamoli più precisamente.

I parrocchiani esprimono spesso lamentele contro le vecchiette che stanno presso le famigerate "scatole" delle offerte in chiesa: dicono che possono essere maleducate, guardarti in modo scortese, inventarsi ogni tipo ogni eresia e così via. Ma si manifesta un problema dall'altra parte, quella orientale della chiesa - l'altare. Più precisamente, i chierichetti. Ancor più precisamente, il loro comportamento. Va tutto così bene, è tutto a posto? Ecco qualcosa su questo problema, di cui parliamo con l'arciprete Aleksij Sorokin, rettore della chiesa di san Lazzaro a Vologda.

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Arciprete Aleksij Sorokin

Padre Aleksij, che ci sia bisogno di chierichetti, nessuno lo contesta. È chiaro che sono essenziali. Un'altra cosa sono i pericoli a cui sono sottoposti i chierichetti, essendo nella parte più importante del tempio...

In realtà, a questo pericolo - la dipendenza dal santuario - siamo tutti esposti: i sacerdoti, i chierichetti, i coristi, quelli che fanno le pulizie ... A mio parere, tutti coloro che lavorano nella chiesa rischiano di perdere il senso della sacralità, delle cose sante - rischiano di cominciare a vedere il tempio come posto di servizio, e come posto di lavoro, o di ritrovo amichevole, o di pettegolezzo - e chissà cos'altro! E tra l'altro, a proposito della parte più importante del tempio, non è forse vero che ogni centimetro del tempio è importante? Ricordate, il pubblicano pentito non era nel Santo dei Santi, e neppure nel portico...

Ora, parliamo dei chierichetti. Sì, sono necessari. Ne abbiamo bisogno prima di tutto per aiutare i sacerdoti, "perché non conviene che tralasciamo la parola di Dio per servire alle mense" (At 6,2). Anche se queste parole della Scrittura riguardano per la maggior parte i diaconi, la sostanza è la stessa: l'attività principale del sacerdote è la preghiera. È chiaro che la preghiera non sarà rafforzata se il sacerdote dovrà fare a meno dell'aiuto dei servitori d'altare: è necessario ravvivare il turibolo, riscaldare l'acqua per tempo, e perché tutto si mantenga costantemente in ordine. Quindi, a mio parere, il compito principale dei chierichetti dovrebbe essere considerato il loro contributo alle preghiere del sacerdote, e, di conseguenza, quelle dei parrocchiani, di tutta la comunità. Naturalmente, questa attività implica un sacrificio. E attenzione: dopo tutto, aiutando all'altare, per così dire, fisicamente, in modo corporeo, i chierichetti non dovrebbero dimenticare il lato spirituale. Cioè, dovrebbero pregare nel modo migliore possibile - altrimenti non ci sarà grande utilità nella loro permanenza nel santuario. Piuttosto ne verrà un danno - in primo luogo alla loro anima.

Se ne parla molto bene nell'introduzione al meraviglioso libro "Нам оставлено покаяние" (il pentimento a noi concesso) dell'igumeno Nikon (Vorob'ev). Ricordiamone le parole: "Batjushka amava molto servire e serviva in modo raccolto, concentrato, con tutto il cuore, e tutti lo percepivano. Compiva le funzioni in modo semplice, sobrio, naturale. Non aveva alcuna pretenziosità artistica nel compiere il culto, la lettura, il canto e non faceva commenti "artistici"...

Egli proibiva a chiunque di entrare nel santuario, tanto meno di sostarvi, senza un particolare bisogno. Il padre non diceva mai nulla quando era all'altare , se non il minimo necessario, e gli altri non erano autorizzati a farlo. Non confessava mai durante la Liturgia: ascoltava le confessioni o fino all'inizio della liturgia, o alla Veglia la sera prima (durante la Quaresima). Diceva che la gente dovrebbe pregare durante la Liturgia, e non aspettare in fila per confessarsi. "

Mi sembra che un tale atteggiamento rigoroso e reverenziale dell'igumeno Nikon nel servizio della chiesa - e nelle preghiere all'altare in particolare - merita molta attenzione e dovrebbe essere seguito da parte nostra. In effetti, le conversazioni, l'inattività, la pigrizia nel santuario, e in tutta la Chiesa, non possono essere tollerate - sono una profanazione del cristianesimo.

Ma negli altari delle nostre chiese ci sono abbastanza giovani, e anche bambini. Non pensa che sia passato da molto il tempo in cui qualsiasi persona di sesso maschile che entrava nel tempio era vista automaticamente come un potenziale sacerdote o ecclesiastico, ed era quindi facilmente introdotto nel santo dei santi?

Credo di sì. Pertanto, invitiamo i giovani servitori d'altare a imparare la pietà. A causa della loro età, anche l'istruzione non si compie senza difficoltà: a volte ci sono anche conflitti abbastanza inutili, stupidi, ahimè, e violazioni del silenzio riverente. Così a volte bisogna essere severi. Ma, oltre alla severità è necessaria - vorrei richiamare l'attenzione su questo - anche l'istruzione. Quindi, l'educazione può e deve coinvolgere l'intera comunità, non solo il prete. Se il servizio si svolge nel tempio in riverente silenzio, anche i giovani all'altare devono aderire a rigide regole. Se se durante le funzioni si bisbiglia, si discute del più e del meno, ci si danno spintoni o si litiga, se il banco delle candele si trasforma in un luogo di ritrovo per una coda pignola (questo di solito si verifica prima dell'uscita del calice, durante le preghiere per la comunione - in un momento cruciale del culto!), questo, purtroppo, provoca i giovani a comportamenti scorretti. Poi c'è questa ipocrisia disgustosa: uscire con un'aria di importanza dell'altare, superando i parrocchiani, camminare attraverso il tempio per tornare all'altare, chiudere la porta e considerare l'altare come "la propria stanza", continuando a fare scherzi o cose del genere.

Inoltre, è importante dare assistenza anche ai servitori d'altare più anziani. Una persona matura, veramente credente che serve nel santuario, ne sono sempre convinto, è un segno di grande responsabilità e riverenza. Per il sacerdote infatti è più facile pregare quando è aiutato da queste persone. Così i giovane dovrebbero imparare dagli anziani.

Ma, i sacerdoti, penso, dovrebbero essere più vicini a quei ragazzi e giovani che si offrono di aiutare all'altare. Non vale la pena, a mio parere, di far entrare nel sancta sanctorum ogni ragazzo che abbia messo gli occhi in chiesa. È pericoloso - sia per l'ordine del servizio, e soprattutto per il ragazzo in futuro.

Ma ci sono esempi di ministranti, dei quali è contento?

Certo, ce ne sono. Francamente, sono rimasto più colpito non tanto dagli uomini, quanto dalle donne che servono all'altare: le donne anziane, che una volta aiutavano nella Cattedrale di Vologda. Dalla riverenza con cui trattavano il loro servizio, sono sicuro, potrebbero imparare in molti - e pure molti sacerdoti. Questo è davvero un esempio di servizio a Cristo con il cuore!

Che consiglio darebbe ai giovani che assistono all'altare?

Non io, ma l'apostolo Paolo dà il consiglio: "Vigilate dunque attentamente sulla vostra condotta, comportandovi non da stolti, ma da uomini saggi..." (Ef 5, 15).

 
Fragmente din viaţa Sfântului Ioan de Kronștadt

 

Sfântul Ioan Serghiev din Kronştadt s-a născut la 19 oc­tombrie 1829 în sătucul Sura din îndepărtata gubernie nor­dică a Imperiului ţarilor de la Marea Albă, Arhanghelsk, ca fiu al sărmanului paracliser Ilia Mihailovici Serghiev şi al Fiodorei Vasilievna. La Botez a primit, după frumoasa datină creştinească păstrată în poporul rus, numele sfân­tului în a cărui zi de pomenire se născuse, respectiv cel al Cuviosului ascet Ioan din Rila (Bulgaria, secolul XI), faţă de care va avea ulterior mare evlavie. în familie va primi educaţia religioasă ortodoxă de mare simplitate, profun­zime şi sensibilitate, tradiţională în satul rus.

Tatăl, care descindea dintr-o familie de preoţi din tată în fiu de peste 350 de ani, era mereu bolnav, decedând în 1851 în vârstă de 48 de ani. Iernile însă, el obişnuia să citească mereu întregii familii din Scriptură şi din Vieţile Sfinţilor. Mama era un exemplu de devotament şi rugăciune fierbinte şi statornică. Ea va trăi până la adânci bătrâneţi fiind marto­ra celebrităţii fiului ei, care o vizita şi consulta mereu cu respect şi veneraţie.

Tânărul copil va creşte sub dubla fascinaţie a slujbelor dumnezeieşti din biserica parohială a satului şi a maies­tuoasei naturi a nordului Rusiei pe care o va îndrăgi până la sfârşitul vieţii. Din pricina unei sănătăţi fragile, copilul a început să înveţe acasă abecedarul cu mari dificultăţi – învăţătura era pentru el un adevărat chin. Cu lacrimi în ochi mama sa se ruga la icoane pentru sănătatea copilului; îmboldit de pilda rugăciunii mamei, copilul a început să se roage şi el lui Dumnezeu să i se dezlege înţelegerea. Şi rugăciunea sa de copil i-a fost ascultată. În curând a putut să citească fără nici un fel de dificultate. Micuţul Vania face deci la o vârstă fragedă experienţa fundamentală şi care îi va marca întreaga sa existenţă, a puterii rugăciunii fierbinţi în credinţă şi simplitate. îşi înţelege şi vocaţia vieţii sale – aceea de a fi om al rugăciunii prin excelenţă, preot.

Ioan ajunge ultimul elev

La nouă ani este trimis la şcoala parohială din Arhanghelsk unde dificultăţile au reînceput. Separat de părinţi, ironizat de colegi pentru stângăciile sale ţărăneşti, singur, Ioan ajunge ultimul elev. Deznădăjduit, cade în genunchi şi recurge din nou la rugăciune, iar efectele ei nu întârzie să se facă simţite. Notele încep să crească, iar în 1851 absolvă şi seminarul din Arhanghelsk ca şef de promoţie.

Pe baza notelor bune primite este trimis cu o bursă la Academia duhovnicească (teologică) din Sankt Peterburg pe care o va absolvi în 1855 cu titlul de magistru (licenţiat), ca al 35-lea din 39 de candidaţi. Performanţele mai degra­bă mediocre ale studentului Ioan Serghiev în studiul aca­demic se explică în mare parte prin orientarea dominant scolastică a studiilor teologice în academiile Rusiei epocii, în ciuda eforturilor de reaşezare neopatristică întreprinse de mitropolitul Moscovei, Filaret Drozdov (1789-1867).

Taciturn, se ruga mult şi citea intens nu atât cursurile, manualele şi bibliografia academică aridă, cât Vieţile Sfin­ţilor şiComentariile la Evanghelii ale Sfântului Ioan Hrisostom, precum şi inspiratele predici teologice ale mitro­politului Filaret. în discuţii vorbea mult, mai ales despre smerenie şi iubirea atoateiertătoare. însă, în ciuda firii sale interiorizate, viaţa monahală nu-1 atrage. îl înflăcă­rează în schimb zelul misionar, dorind să plece misionar în Siberia, China sau America.

Curând înţelege că impera­tivele misionare sunt deopotrivă de valabile pentru socie­tatea Rusiei vremii sale. în 1851, murind tatăl său şi ră­mânând singurul sprijin al familiei, se angajează copist la Academie pentru a putea trimite întreg salariul acasă. Du­pă o scurtă criză spirituală însoţită de depresie şi deznă­dejde, biruite tot prin rugăciune, se hotărăşte să se facă preot. într-un vis se vede preot slujind într-o biserică ne­cunoscută. La o serbare după absolvirea Academiei o cu­noaşte întâmplător pe fiica protoiereului Nesviţki din Kronştadt, Elisaveta Konstantinovna, cu care se va şi căsători la scurt timp.

La 12 noiembrie 1855 este hirotonit preot pe seama parohiei Sfântul Andrei din Kronştadt – portul militar al Sankt Peterburgului – în locul socrului său, de eâtre episcopul Hristofor, rectorul Academiei duhovniceşti. Păşind pragul bisericii în care avea să slujească vreme de 53 de ani, şi-a dat seama uimit că era tocmai biserica ce i se arătase în vis prin pronia lui Dumnezeu ca răspuns la neliniştile şi mâhnirile sale anterioare.

În fiecare zi se scula la patru dimineaţa pentru a pleca la biserică

Om simplu şi fire ţărănească dintr-o bucată, părintele Ioan nu era pentru jumătăţile de măsură. De aceea, el şi-a extrem de în serios vocaţia şi slujirea sacerdotală. Axată fundamental în jurul rugăciunii către Dumnezeu şi pentru oameni, aceasta lua forma slujirii active şi concrete a lui Dumnezeu şi a semenilor. Liturghia zilnică, predarea religiei în şcoala primară şi gimnaziu, predica, păstorirea sufletelor credincioşilor, milostenia şi caritatea activă faţă de cei săraci vor ocupa de acum neobosit, zi şi noapte, pentru peste o jumătate de secol, viaţa parohului din Kronştadt.

Îşi fixează regulile simple ale unei spiritualităţi sacerdotale exemplare, de la care nu se va mai abate. Hră­nită din citirea şi meditaţia asiduă a Sfintelor Scripturi împletite însă strâns cu adâncirea în săvârşirea zilnică a slujbelor dumnezeieşti, încununate de Sfânta Liturghie şi însoţite de o aprofundare a sensurilor teologice ale căr­ţilor de cult, şi, respectiv, cu intensificarea rugăciunii şi meditaţiei personale, a veghii interioare prin invocarea neîncetată a Numelui lui Iisus şi ţinerea unui „jurnal” – această spiritualitate simplă şi la îndemâna tuturor cre­dincioşilor, fără eforturi şi cu obiective ascetice extraordi­nare, trebuia să susţină lucrarea istovitoare a împlinirii practice cu maximă conştiinciozitate a multiplelor îndato­riri şi responsabilităţi pastorale şi caritative.

În fiecare zi se scula la patru dimineaţa pentru a pleca la biserică întorcându-se acasă din vizitele pe la bolnavi şi săraci abia după ora zece seara. Curând a descoperit că numai cele­brarea zilnică a Sfintei Liturghii şi împărtăşirea regulată cu Sfintele Taine îi pot da energia duhovnicească necesară pentru susţinerea unei activităţi literalmente crucifiante (în ultimii 35 de ani, cu excepţia zilelor când era bolnav sau călătorea, a slujit zilnic Sfânta Liturghie).

După o scurtă ezitare, preoteasa Elisaveta a înţeles să accepte regimul de înfrânare impus de celebrarea zilnică a Sfintei Liturghii – soţii vor trăi toată viaţa ca frate şi soră -, precum şi retra­gerea discretă şi iubitoare în umbra celui care i-a adus aminte faptul ascetic elementar că, întrucât este preot, nu-şi mai aparţine luişi sau familiei, ci este prin excelenţă un „om pentru ceilalţi”.

Părintele Ioan îşi începe slujirea preoţească într-un moment extrem de defavorabil pentru Biserică. Viaţa reli­gioasă a Rusiei la mijlocul şi în a doua jumătate a secolului XIX era profund marcată de consecinţele reformelor petrine menite să aducă Rusia pe calea modernizării. Practi­când cultul statului şi al naţiunii, regimul ţarist impusese o viziune reducţionistă, formalistă şi utilitarista despre religie şi Biserică, apreciate exclusiv din perspectiva con­tribuţiei lor la menţinerea moralităţii sociale şi susţinerea Imperiului. Educaţia religioasă şi practica liturgică erau dominate de formalism şi ritualism.

Cultul divin ortodox devenise un simplu decor ritualist

Spovedania o dată pe an (în Postul Mare) era obligatorie pentru toţi cetăţenii ortodocşi, iar preoţii trebuiau să raporteze la poliţie achi­tarea acestei obligaţii „civice” (aşa-numita govenie). îm­părtăşania era recomandată doar o dată pe an (de Paşti) chiar şi de Catehismul mitropolitului Filaret. Credincioşii trăiau practic izolaţi de viaţa sacramentală şi harică a unei Biserici oficiale degradate la rangul unui simplu sector în cadru departamentului afacerilor interne al statului (ală­turi de poliţie şi jandarmerie).

Nu e nici o mirare că în aceste condiţii cultul divin ortodox devenise un simplu de­cor ritualist ce masca la oraşe materialismul cel mai cras şi indiferentismul spiritual al aristocraţiei şi elitelor, iar la sate obscurantismul şi superstiţiile de tot felul. Situaţia era, evident, agravată de decalajele economice şi sociale consi­derabile, şi de radicalizarea „intelighenţiei”, câştigată tot mai mult de ideile materialiste, socialiste şi revoluţionare

Pe acest fond de insatisfacţie generată de formalismul şi etatismul religiozităţii publice, dar în acord cu linia ge­nerală a reducţiei utilitariste şi ideologice a creştinismului la moralisme, pietisme, gnoze sau utopii secularizate, se înscrie şi deriva unei părţi însemnate a aristocraţiei peterburgheze ca şi a unor întinse pături rurale spre sectaris­mul de tip neoprotestant. Anii 1860-1870 vor marca ast­fel ascensiunea „ştundismului” în satele din sudul Rusiei, iar în capitala Imperiului de pe malurile Nevei a „schismei din înalta societate” (cum o va numi scriitorul N. Leskov).

E vorba de epidemia de „conversiuni” de tip „revivalist” protestant produsă în nobilimea capitalei de predicile lor­dului G.V. Redstock (1843-1913) din anii 1874,1875-1876 şi 1878. în 1876 adepţii lui Redstock au întemeiat „Socie­tatea pentru promovarea gândirii religioase şi morale” con­dusă de un bogat filantropist din Sankt Peterburg, colo­nelul Vasili A. Paşkov, care şi-a pus palatul la dispoziţia organizaţiei şi a reuniunilor ei. Cenzura şi poliţia secretă ţaristă însă nu vor tolera activismul predicatorial şi filan­tropic al „paşkovismului”, suprimând reuniunile şi deter­minând în 1884 exilarea din Rusia a liderilor mişcării.

Secularizat, acest pietism individualist, moralist şi ni­hilist, îşi va găsi expresia doctrinară şi literară în „tolstoism”. Contemporan al părintelui Ioan, Lev Tolstoi (1828-1910) îşi va alcătui între 1880-1896 propriul „creştinism” şi propria sa „Evanghelie”, formulată în polemică deschisă cu statul ţarist şi Biserica Ortodoxă. Premiza fundamentală este cea a contradicţiei pretins ireconciliabile dintre Evan­ghelie şi Biserică, dintre Evanghelie şi civilizaţie (stat, cul­tură, tehnică, ştiinţă). Toate acestea ar bloca accesul la „creştinismul” autentic. Vinovate în primul rând de falsifi­carea Evangheliei prin „absurdităţile” dogmelor şi „super­stiţiile” riturilor ar fi Bisericile. Ele ar „hipnotiza” masele prin seducţia estetică a cultului şi le-ar „idiotiza” prin vio­lenţa ascetică a rugăciunii, posturilor şi supunerii oarbe faţă de autorităţi.

Tot efortul lui Tolstoi se va concentra în direcţia unei recreări a „creştinismului” ca religie morală şi umanitară, antistatală şi antiintelectuală. Ritualurile tre­buie excluse, dogmele eliminate, Vechiul Testament desfi­inţat, iar Noul Testament şi Evangheliile sever epurate de teologia („kabalistică”) paulină şi de miracole (naştere vir­ginală, înviere). întreg „creştinismul” s-ar reduce la „mo­rala” Predicii de pe Munte, concentrată şi ea în cinci pres­cripţii (afirmate sentenţios de prinţul Nehlindov în finalul romanului învierea, 1899) culminând în „neîmpotrivirea la rău”. în ultimă instanţă „sectarismul” educat al tolstoismului ducea la o versiune nihilistă, gnostică, secularizată», a „creştinismului” constituit printr-un refuz nonviolent, dar nu mai puţin radical şi anarhic, al istoriei, Bisericii, statului, proprietăţii, serviciului militar şi culturii, dublat de o „trezire” morală de tip individualist şi întoarcerea la viaţa „simplă” şi nefalsificată a unui „popor” idealizat.

În criză în societatea Rusiei secolului XIX se afla deci însăşi înţelegerea naturii ecleziale a experienţei creştine, Biserica în specificul identităţii ei spirituale şi practica ei concretă, liturgic-sacramentală şi socială, mistică şi istori­că. O revigorare a conştiinţei ecleziologice axată pe ideea „sobornicităţii” o declanşaseră, ca reacţie, gânditorii reli­gioşi ruşi slavofili (mai cu seamă A. Homiakov). însă pro­iectul lor ecleziologic era unul tipic romantic, naţionalist, pur speculativ şi grevat de tendinţe utopice şi ideologice, fiind orientat în principal în direcţia unei demarcări criti­ce faţă de creştinismul occidental individualist (decăzut), căruia îi contrapunea imaginea idealizată a unui creştinism comunitar, autentic, păstrat de „poporul” rus (Bise­rică şi popor se identificau periculos în viziunea slavofilă, în experienţa misticei şi integratoarei „sobornicităţi”, deghizament religios al noţiunii „atotunităţii” din idealismul german).

Îşi împărţea banii şi hainele săracilor şi cerşetorilor, cerceta zilnic pe bolnavi şi familiile nevoiaşe pline de copii flămânzi, degeraţi, bolnavi…

Pe acest fond al unei Biserici contestate şi falsificate, denigrate sau inadecvat exaltate, trebuie înţeleasă semnificaţia profund teologică şi profetică a activităţii şi gândirii părintelui loan Serghiev din Kronştadt. Cu un remarcabil simţ al concretului, el a reuşit să reimpună în conştiinţa contemporanilor însăşi realitatea „pragmatică”, liturgică şi sacramentală, personală şi comunitară, mistică şi socială a Bisericii. în faţa reducţiei simplificatoare a creştinismului la morală, la etica şi pietatea individuală, Biserica reapare din nou ca realitate divino-umană întrupată în cult şi caritate, ca o comuniune vie („familie”) a oamenilor în Hristos şi Duhul Sfânt, cu Dumnezeu, cu sfinţii şi cu îngerii, ca loc al Adevărului şi Libertăţii autentice.

Doar Liturghia şi Tai­nele Bisericii aduc oamenilor eliberarea din sub sclavia torturantă a păcatului şi, astfel, adevărata pace şi bucurie în har şi libertate. Iar un rol hotărâtor în realizarea Bisericii ca realitate mistică şi socială îi revine preotului: om al rugăciunii arzătoare, al Duhului Sfânt şi al iubirii, el este înger în trup, profet şi slujitor al lui Dumnezeu în cultul divin şi păstor al credincioşilor în societate, deschis spre toate nevoile lor, pe calea împărăţiei lui Dumnezeu, al cărei pronaos e Biserica şi Liturghia ei.

Este greu de imaginat un contrast mai puternic ca acela existent iniţial între mentalitatea şi zelul eclezial şi liturgic al părintelui loan şi indiferenţa generalizată faţă de viaţa liturgică a Bisericii din Rusia epocii sale în general, din parohia sa în special. Kronştadtul ducea viaţa deloc virtuoasă, plină de patimi şi mizerii morale şi sociale a unui port militar şi loc tradiţional de exil intern pentru declasaţii capitalei Imperiului. Plin de marinari, militari şi lucrători portuari, de cârciumi, vagabonzi şi prostituate, de cerşetori şi oameni sărmani, el era departe de a fi o cetate a pietăţii. Dimpotrivă. Mizeria făcea casă bună cu viciul. La început tânărul preot a încercat să întoarcă „oile pierdute” prin discuţii şi predici moralizatoare.

Nu numai că n-a avut nici un succes, dar s-a expus deriziunii şi umilinţelor de tot felul. A câştigat mai mult prin exemplul personal, respectiv prin abnegaţia cu care-şi împărţea banii şi hainele săracilor şi cerşetorilor, şi prin cercetarea zi de zi a bolnavilor şi familiilor nevoiaşe pline de copii flămânzi, degeraţi, bolnavi, împreună cu care se ruga şi cărora le aducea şi ajutoare materiale. A ajuns foarte iubit de copii şi cerşetori („regimentul părintelui loan”, cum li se spunea). Coborându-se în cocioabele sărmanilor, nu ocolea nici sufletele celorlalte categorii sociale. Pe toţi îi compătimea, sfătuia, ajuta.

Trăia pe atunci în Kronştadt o văduvă evlavioasă, Paraskovia Ioanovna Kovrighina, care se mutase în Kronştadt cu binecuvântarea duhovnicului ei. părintele Ilarion. Ucenic al Sfântului Serafim din Sarov (t 1833), acesta a îndemnat-o înainte de a muri, în chip profetic, să meargă la Kronştadt pentru că acolo este un mare luminător al lui Hristos pe care să-1 ajute şi să-1 slujească. Aceasta a început să-i ceară părintelui loan – pe atunci încă necunoscut – să mijlocească în rugăciune pentru oamenii nevoiaşi pe care-i ştia.

Rugăciunea sa a început să lucreze minuni, mai cu seamă vindecări

La început părintele loan n-a îndrăznit, pretextând nevrednicia sa personală. însă în cele din urmă şi nu de bunăvoie, s-a lăsat convins. Credinţa copilului în puterea rugăciunii a reînviat, şi acum preotul matur, cu studii academice, a început din nou să se roage cu aceeaşi încredere şi la fel de fierbinte pentru oameni, ca şi băieţelul de şase ani care se ruga pentru ca să înţeleagă semnele din abecedarul său.

Şi tot ca odinioară, rugăciunea sa din faţa sfântului altar sau din casele oamenilor a fost ascultată şi a început să lucreze minuni, mai cu seamă vindecări. Esenţial în ce priveşte minunile părintelui loan – care era departe de a fi un taumaturg specializat sau şaman improvizat – e faptul că aceste vindecări erau numai şi numai efectul rugăciunii. Trebuia să se roage împreună nu numai preotul, dar şi rudele celui bolnav şi toţi cei prezenţi, pentru iertarea păcatelor, mântuirea sufletului şi întoarcerea tuturor la Dumnezeu. Părintele loan ştia foarte bine – o arată „Jurnalul” său – că nu el, ci Dumnezeu lucrează minuni tot celui ce se roagă cu credinţă în făgăduinţa Domnului: „Toate câte veţi cere rugându-vă cu credinţă, veţi primi” (Matei 21, 22).

Fapt elocvent şi demn de remarcat e că părintele loan nu refuza să se roage nici chiar pentru cei de alte credinţe şi străini. Deşi era ortodox, convins de Adevărul dumnezeiesc păstrat în întregimea lui în Biserica Ortodoxă, nu privea „de sus” la cei de alte credinţe şi nu făcea nici o deosebire în mijlocirile sale între ortodocşi şi neortodocşi.

Când slujea Sfânta Liturghie se auzeau mereu nume străine ce aparţineau evident unor oameni de alte credinţe. I se adresau pentru rugăciune nu numai creştini de alte confesiuni, catolici sau protestanţi, dar şi necreştini, musulmani, evrei, tătari. Părintele loan se ruga pentru toţi cei ce credeau sincer în Dumnezeu. într-o zi a venit la biserică o tătară. „Crezi în Dumnezeu?”, a întrebat-o părintele loan. „Da”, a răspuns ea. „Bine, îngenunchează şi roagă-te Dumnezeului tău şi eu mă voi ruga Dumnezeului meu.” Şi Dumnezeu a împlinit rugăciunea femeii.

între anii 1870-1880 vestea despre neobişnuitul preot din Kronştadt, despre viaţa sa sfântă, despre rugăciunile şi vindecările sale a început să se răspândească în Rusia. O declaraţie de mulţumire publicată la 20 decembrie 1883 într-un ziar de mare tiraj avea să-1 facă cunoscut întregului Imperiu, de la Baltica şi până în Siberia orientală.

Mii de pelerini vor începe să vină la Kronştadt pentru mărturisire şi împărtăşire, sute (uneori mii) de telegrame de mulţumire şi de cerere pentru rugăciune soseau zilnic şi mai cu seamă în Postul Mare.

Centrul vieţii părintelui loan era însă săvârşirea slujbelor dumnezeieşti şi mai cu seamă a Sfintei Liturghii. Prin exemplul şi prin predica sa el arăta concret centralitatea definitivă şi de neînlocuit a vieţii sacramentale şi liturgice a Bisericii în viaţa creştină autentică, pentru fiecare credincios în parte. Există câteva impresionante mărturii care ne descriu în detaliu felul unic în care părintele loan celebra cultul divin şi Dumnezeiasca Liturghie în biserica Sfântul Andrei din Kronştadt, în faţa a mii de credincioşi veniţi din întreaga Rusie (până la 7000-8000 în Postul Mare).

Era aşteptat de zeci de oameni săraci care-i cereau milostenie

Sculat la ora 4 dimineaţa, îşi spunea rugăciunile de pregătire ale preotului pentru slujirea Sfintei Liturghii, plimbându-se prin grădina casei parohiale. La ieşirea din casă în drum spre biserică era aşteptat de zeci şi zeci de oameni săraci care cereau milostenie. După împărţirea milosteniei, însoţit de mulţime, părintele loan intra în biserică pe uşa laterală a altarului, căci nu era posibil să se pătrundă în biserică pe uşa mare. Deşi era înghiontit din toate părţile de popor, nu-şi pierdea sub nici un chip blândeţea şi seninătatea feţei. Se îmbrăca în veşminte roşii (culoarea sa preferată) şi săvârşea el însuşi slujba utreniei. Nu se lăsa afară nici o stihiră, nici un canon, se cânta şi se citea tot. Fire iute, nu-i plăcea slujirea întinsă, lungă. Ce­rea explicit cântăreţilor şi diaconilor să cânte şi să citească vioi şi în acelaşi timp lămurit şi, mai ales, cu inimă, să lo­vească nu aerul ci inimile cu glasul lor. Canoanele de la utrenie le citea la strană el însuşi.

Nu citea, ci vestea cu înţeles, ca într-o convorbire directă cu Mântuitorul, cu Maica Domnului şi cu toţi sfinţii. Pentru ectenii intra în sfântul altar căzând în genunchi în faţa jertfelnicului, rezemându-şi capul de mâinile încrucişate sub care se aflau hârtiuţele cu numele viilor şi morţilor ce trebuiau pomeniţi. In timp ce la strană se citeau ceasurile, începea pregătirea pentru Dumnezeiasca Liturghie. Dădea o im­portanţă deosebită săvârşirii proscomidiei, la care se aduceau în coşuri mari până la 5000 de prescuri. în timpul celebrării exclama către preoţii coliturghisitori: „Ce bune sunt toate la noi, părinte! Mare lucru este această proscomidie! O întreagă lume e pe sfântul disc! Dar la alţii [creştini] nu e nimic asemănător. Ei n-au proscomidie!” „Priviţi, părinţilor! Iată-l pe Hristos! E aici între noi, şi noi lângă El ca Apostolii!”

Sfânta Liturghie părintele Ioan o celebra într-un ritm alert, interiorizat, cu cutremur mare, cu rugăciuni şi la­crimi, dar în acelaşi timp sobru şi plin de măreţie. Departe de orice pietism şi sentimentalism lacrimogen, încerca să sensibilizeze în toţi participanţii conştiinţa prezenţei mis­terului liturgic, ca dar neasemănat către oameni al iubirii lui Dumnezeu, şi intrare reală a credincioşilor la ospăţul împărăţiei Sale. „Liturghierul” aproape că nu-1 mai des­chidea, fiindcă ştia pe de rost toate rugăciunile. Rugăciu­nile le rostea cu jumătate de glas, concentrat, adăugând însă foarte mult de la sine, uneori în taină alteori în auz (rugăciunile acestea adăugate pot fi citite în volumul de faţă). Ecfonisele le rostea cu ochii închişi, adâncit în sine, trăind parcă pe altă lume. întâia parte a Liturghiei era pentru el partea rugătoare, de mijlocire a sa pentru oa­meni, pentru a căror izbăvire şi mântuire se ruga lui Dum­nezeu cu patos, stăruinţă şi îndrăznire.

Odată cu cântarea Heruvicului începea al doilea suiş al Sfintei Liturghii. Pă­rintele Ioan se cufunda în meditaţie asupra adâncurilor tainei mântuirii noastre în Hristos, retrăind parcă aievea odată cu Vohodul Mare patimile Domnului Hristos: Gheţi-manii, pretoriul, Goîgota, punerea în mormânt. Adeseori îşi scotea batista pentru a-şi şterge lacrimile ce i se scur­geau tăcut pe faţă din adâncul străpungerii inimii în faţa prezenţei reale, vii şi lucrătoare, în misterul liturgic a în­suşi Domnului Iisus. înălţând inimile tuturor spre cer lao­laltă cu îngerii, se ridica odată cu ridicarea Sfintelor Da­ruri spre bucuria învierii şi venirii Lui pe sfântul altar sub chipul Pâinii şi Vinului prefăcute prin Duhul Sfânt în Tru­pul şi Sângele Domnului.

Toţi cei din biserică trebuiau să se roage împreună cu preotul chemând pe Duhul Sfânt şi rostind alături de el troparul „Doamne, Cel ce pe Preas­fântul Tău Duh…”. îndată după minunea prefacerii euha-ristice îi plăcea să rostească cu glas tare: „Dumnezeu S-a arătat în trup! Cuvântul trup S-a făcut!” Apropiindu-şi apoi faţa când de Sfântul Disc, când de Sfântul Potir, ros­tea, ca un prunc gângurind spre maica sa, marea rugăciu­ne de mijlocire a preotului pentru întreaga Biserică şi pen­tru toată lumea. în momentul împărtăşirii cu Sfintele Tai­ne, părintele Ioan devenea tot flacără şi se umplea până la lacrimi de o intensă bucurie duhovnicească pe care căuta zadarnic să şi-o ascundă de coliturghisitorii săi.

(va continua)

 
I rapporti prima del matrimonio: la proibizione non ha senso, ma il permesso è impossibile

Come si dovrebbe far capire a un adolescente che le relazioni intime prima del matrimonio sono proibite?

La proibizione funziona molto male. Molti adulti e bambini già considerano il cristianesimo come una religione di proibizioni. Gli adolescenti vedono una religione di proibizioni in un modo abbastanza negativo: prendono ogni divieto come una sfida o una tentazione, che dovrebbe essere abolita, superata, o violata. Se non si capisce il motivo per cui una cosa è necessaria, l'effetto sarà esattamente l'opposto.

Pertanto, direi di non insegnare proibizioni, ma responsabilità. Per quanto riguarda gli adolescenti, questo inizia principalmente dal rispetto per se stessi, il proprio genere, e la propria natura.

Questo rispetto comprende anche il rispetto per tutte le parti del proprio corpo e per la propria fisiologia, che di per sé è espressione del proprio genere.

In altre parole, non sto parlando di un corpo astratto, ma di un corpo di uomo o di donna, da rispettare proprio come un "tempio dello Spirito Santo" (1 Cor 6:19) e come creazione di Dio. Ciò significa che tutte le capacità fisiologiche e sessuali sono state create dal Signore.

D'altra parte, vi è la promozione di un atteggiamento verso il matrimonio. La comprensione che il matrimonio è una condizione complessa in cui ci sono aspetti di famiglia e di parentela, così come aspetti di personalità, amore, amicizia, e così via. In particolare, vi è l'aspetto sessuale, che è una parte fondamentale ed essenziale del matrimonio.

Poi si pone di nuovo la questione della responsabilità. Fino a che punto un giovane, un adolescente, è responsabile di se stesso come persona, del suo corpo, delle cose che gli accadono, e della sua attrazione per il sesso opposto?

Inoltre, vi è la responsabilità di un uomo per il suo seme. Pertanto, non appena un ragazzo capisce che il suo seme è maturato, è responsabile per dove e come sarà "seminato" e che cosa gli accadrà.

Allo stesso modo, le ragazze che maturano presto possono assumersi la responsabilità per una potenziale gravidanza, fin dal loro primo periodo. È fondamentale che gli adolescenti capiscano questa responsabilità, che hanno già a che fare con la maturità delle loro funzioni sessuali.

Se un ragazzo ha un rapporto sessuale con una ragazza, entrambi sperimentano una splendida e irreversibile metamorfosi. Questo evento suscita forti emozioni che oscurano tutto il resto e cambiano tutto intorno a loro.

Questo cambia tutto così drasticamente, che la gente non può più tornare ai propri rapporti di prima. Questo significa che se non hanno costruito un rapporto di amicizia in cui si rispettano l'un l'altro come persone, sarà difficile per loro imparare qualcosa di nuovo questo senso e prendersi cura l'uno dell'altra: l'intimità sessuale oscura tutto con la sua "dolce nebbia." Quest'intimità inizia a dettare le regole di comportamento tra un uomo e una donna. Suscita temi di privacy e le preoccupazioni su un luogo di incontro, e sulle condizioni per il loro incontro. Non c'è più spazio per l'amicizia.

Spesso un rapporto sessuale prematuro è possibile quando i partner hanno reciproca indifferenza l'uno verso l'altro. I partner giovani possono non conoscersi l'un l'altro, e possono perfino non essere interessati a conoscersi.

Dal punto di vista psicologico, le relazioni sessuali ricoprono essenzialmente una famiglia naturale. Di fatto, la responsabilità è la stessa per entrambi i coniugi. Tuttavia, poiché i giovani non assumono questo ruolo, portano la responsabilità di quest'assenza con la loro auto-umiliazione.

Una personalità sperimenta un cambiamento globale e irreversibile dopo il rapporto sessuale. Tale cambiamento include anche i legami familiari e di parentela. I rapporti sessuali sono relazioni che coinvolgono due sistemi familiari e due generazioni.

Pertanto, un uomo e una donna che entrano in tali rapporti coinvolgono entrambe le loro famiglie e, di fatto, acquisiscono entrambi una coppia di suoceri. Se nascondono questo senso a se stessi, ne saranno amaramente delusi: dovranno pagare per questi errori. La verità è che non sono pronti per questo passo, e lo negano.

Ma anche se i giovani stanno già pianificando di sposarsi, la Chiesa considera comunque sbagliato che abbiano rapporti intimi prima dell'evento. Perché questo è inaccettabile anche se, diciamo, gli sposi saranno marito e moglie in una settimana?

Dal punto di vista di un sacerdote, la risposta è ovvia: prima di tutto, stiamo parlando di responsabilità morale. È responsabilità verso la legge e verso l'altro. Se siamo templi dello Spirito Santo, allora quando abbiamo un rapporto sessuale in violazione della legge, così facendo violiamo la nostra santità e la santità dell'altro.

Dal punto di vista di uno psicologo, la cosa è meno evidente. Gli psicologi avvertono le persone sui cambiamenti irreversibili che avranno luogo. Ma se i giovani si assumono in ogni caso la responsabilità di questa decisione, uno psicologo non vi vede alcun danno. Se vogliono sposarsi, alla fine lo faranno. Tuttavia, i rapporti sessuali prematrimoniali impediscono loro di stabilire legami di famiglia e rapporti con i parenti.

Che cosa significa "violare la legge"?

Le relazioni familiari sono, prima di tutto, relazioni tra due persone e due membri delle rispettive famiglie. Un marito, contraendo matrimonio, rappresenta i suoi genitori, i suoi nonni, e così via. Sta continuando la sua famiglia con una donna che è una rappresentante di un'altra famiglia. Quando contrae matrimonio, inizia apertamente l'intimità come rappresentante della sua famiglia con un'altra famiglia. Questo è come avviene la confluenza di due sistemi familiari, che in precedenza erano estranei tra loro.

Ma se due persone hanno rapporti intimi al di fuori della legge, al di fuori del matrimonio, in qualche modo abdicano alla responsabilità per le loro famiglie. Si incontrano come se fossero entrambi bambini. Qui ha luogo qualcosa di simile a un furto ingenuo. Si possono sentire strane risposte dagli adolescenti, quando si verifica una gravidanza precoce nelle loro famiglie: "Ma non sapevamo che sarebbe accaduto". È immaturità? Sì, ma è intenzionale.

Una violazione della legge è una doppia personalità. Vorrei sposare questa donna, ma non lo farò ancora, sarò solo un corpo ancora per un po'...

Si dice spesso che coloro che hanno avuto rapporti intimi prima del matrimonio portino infelicità nella vita delle loro famiglie. E, di conseguenza, avviene pure il contrario. Tuttavia, ci sono esempi di matrimoni di vergini che falliscono, e anche matrimoni tra coloro che "non hanno saputo aspettare" e che si rivelano felici. Cosa dovrebbe fare la gente e come si dovrebbe spiegare agli adolescenti che ci si aspetta che non abbiano tali rapporti?

In realtà, quando il rapporto sessuale avviene prima del matrimonio, è più difficile costruire relazioni all'interno del matrimonio. Il matrimonio è un lavoro duro: ci sono regole tanto complesse da sconvolgere la mente. È necessario capire che cosa sia una famiglia, quali siano le sue necessità e bisogni, e l'intimità prematrimoniale interferisce nella capacità di capirsi correttamente.

Tuttavia, è troppo tardi quando si devono spiegare queste cose agli adolescenti; lo si dovrebbe fare già a scuola, quando sono bambini. Dovrebbero essere allevati, soprattutto, con una comprensione dei valori delle relazioni familiari e parentali, i valori di quella creatura chiamata umanità, e del corpo e dell'anima dell'essere umano. Ma quando i giovani sono nell'età in cui sono in grado di avere rapporti sessuali, è difficile spiegare qualcosa, perché quel tempo è passato.

È difficile parlare di tutto questo quando il rapporto prematrimoniale è la norma anche nei buoni film sui valori della famiglia.

Sì, è difficile. Ma i valori religiosi sono sempre difficili da insegnare e comunicare. L'unica, e la più efficace, opportunità per un bambino e poi per un adolescente per capire tutto correttamente è all'interno della famiglia. Se una famiglia non dispone di questi valori, allora è molto difficile insegnarli ai giovani.

Può il rispetto per se stessi, la propria anima e il proprio corpo insegnato fin dall'infanzia garantire che un bambino, quando crescerà, riuscirà a far fronte alle paure di inadeguatezza dei giovani?

Non è appropriato parlare di garanzie; noi non abbiamo alcuna garanzia del genere. È sempre stato così tra i giovani, che temono di non essere conformi con gli altri. Molte tragedie adolescenziali si verificano a causa di questo timore, tra cui storie di droga e sesso precoce... Tuttavia, un giovane che ha imparato a rispettare se stesso di solito non cede a queste tentazioni.

 
Il santo ieromartire Alexander Hotovitzky

 

Il neomartire russo Alexander Hotovitzky nacque l'11 febbraio 1872 nella città di Kremenetz, nella pia famiglia dell'Arciprete Alexander, che fu rettore del seminario teologico della Volinia e in seguito sarebbe stato ricordato a lungo nei cuori degli abitanti ortodossi della Volinia come un buon pastore. Il giovane Alexander ricevette una buona educazione cristiana, dai suoi genitori, che gli instillarono l'amore per la Chiesa ortodossa e per il popolo di Dio.

Il futuro pastore studiò presso il seminario della Volinia e l'accademia teologica di San Pietroburgo, che terminò con un magistero nel 1895.

Dopo aver terminato l'accademia, fu inviato per servizio missionario nella Diocesi delle isole Aleutine e del Nord America, dove fu assegnato come lettore alla neo-costituita San Nicola Chiesa Ortodossa a New York City. Dopo il suo matrimonio con Maria Scherbuhina, laureata all'Istituto Pavlovsk di San Pietroburgo, lo ieromartire Alexander fu ordinato diacono, e poco dopo, il 25 febbraio 1896, al sacerdozio dal vescovo Nicholas (Ziorov) delle Aleutine, che Padre Alexander in seguito avrebbe sempre ricordato con gratitudine e amore.

L'ordinazione ebbe luogo presso la cattedrale diocesana a San Francisco. Nel suo discorso al neo-ordinato Padre Alexander, il vescovo Nicola spiegò la sua scelta del nuovo sacerdote per il ministero ordinato con queste parole: "Il tuo speciale senso del pudore, la tua buona educazione, il tuo nobile idealismo, e la tua sincera pietà mi ha fatto subito vederti di buon occhio e mi ha spinto a individuarti tra i giovani, con i quali eri solito vistarmi a San Pietroburgo... ho potuto vedere che hai avuto quella speciale scintilla da parte di Dio, che rende qualsiasi servizio un'azione fatta veramente fatto per amor di Dio, e senza la quale una vocazione diventa un lavoro senz'anima e morto... La tua prima esperienza nella predicazione ti ha mostrato la potenza di questo tipo di ispirazione: hai visto come il popolo si è radunato intorno a te e con quanta attenzione stavano ad ascoltare a lungo i tuoi discorsi... Perché questa gente ascolta te, piuttosto che andare a sentire altri predicatori? Chiaramente la scintilla che brucia dentro di te attrae i cuori di queste persone come un magnete."

Una settimana dopo la sua ordinazione, il giovane sacerdote tornò a New York per assumere il servizio pastorale della parrocchia dove aveva prima lavorato come lettore. Dal 1898 al 1907, il neomartire Alessandro servì come pastore sotto l'omoforio del vescovo Tikhon. San Tikhon, che, nell'anno tragico del 1917, doveva essere elevato dalla Divina Provvidenza alla sede primaziale come Patriarca di Mosca, teneva in grande conto la sincera pietà  di padre Alessandro, il suo dono di amore pastorale, e la sua multiforme erudizione teologica. Lo spettro della sua attività negli Stati Uniti fu abbastanza ampio e molto fruttuoso. Ebbe successo nel servizio missionario, soprattutto tra gli uniati appena emigrati dalla Galizia e dalla Rus' Carpatica. Fu anche uno dei più stretti collaboratori degli arcipastori ortodossi in America e rappresentò la Chiesa ortodossa presso istituzioni religiose americane e in occasione di incontri.

L'opera missionaria di padre Alexander non era priva di molte tentazioni e dolori. L'Arcivescovo, in seguito Metropolita, Platon (Rozhdestvensky) espresse gratitudine per suoi lavori in America in un discorso tenuto durante la Divina Liturgia il 26 febbraio 1914. Dando l'addio a Padre Alexander, l'arcivescovo disse: "Una mattina, nel corso degli anni in cui abbiamo lavorato insieme, sei venuto nella mia stanza e, senza dire molto, hai sbottonato la camicia, rivelando una grande abrasione bluastra e sanguinante sul petto. Quella ferita fatta da un fanatico, che in un impeto di rabbia ti ha attaccato selvaggiamente con un bastone, ha seguito la riunione del popolo russo in cui avevi incoraggiato il tuo fratello etnico a rinunciare alla perniciosa Unia con Roma... Tutto il mio essere è stato scosso e mi sono profondamente commosso, perché davanti a me in quel momento c'era un vero esempio di testimonianza per Cristo".

Grazie agli sforzi di padre Alexander, furono stabilite parrocchie ortodosse a Philadelphia, Yonkers e Passaic, così come in altre città grandi e piccole in tutto il Nord America. I parrocchiani di queste chiese erano persone di famiglia ortodossa che il destino aveva portato nel Nuovo Mondo, così come carpato-russi convertiti dall'Unia ed ex protestanti convertiti alla Chiesa ortodossa.

Un importante contributo alla testimonianza della verità dell'Ortodossia di fronte alla società americana eterodossa fu dato dal Messaggero ortodosso americano, che fu pubblicato in inglese e in russo sotto la direzione di Padre Alexander. Articoli redazionali apparvero regolarmente sulla stessa rivista.

Il neomartire Alexander partecipò attivamente alla creazione di una società diocesana ortodossa di mutuo soccorso e in diversi momenti servì come tesoriere, primo segretario, e presidente di questa organizzazione. La società fornì aiuti materiali ai carpato-russi dell'Austria, agli slavi macedoni, alle truppe russe in Manciuria, e ai prigionieri di guerra russi nei campi giapponesi.

Padre Alexander prese su di sé anche l'onere ascetico di costruire l'architettonicamente notevole e maestosa Cattedrale di San Nicola a New York per sostituire la piccola chiesa parrocchiale. La cattedrale doveva diventare un ornamento della città. Egli visitò le comunità ortodosse in tutta l'America richiedendo fondi per la costruzione della Cattedrale. Nel 1901, fece anche un viaggio in patria, la Russia, per questo scopo. Negli annali della Chiesa di San Nicola, che nel 1903 divenne la Cattedrale della diocesi, è registrato che "Questa cattedrale è stata fondata e costruita nella città di New York in Nord America, sotto la supervisione e attraverso gli sforzi e le fatiche dell'onorevolissimo Arciprete Padre Alexander Hotovitzky nell'anno del Signore 1902."

Il 26 febbraio 1906, l'America ortodossa celebrò il decimo anniversario del servizio sacerdotale dell'Arciprete Alexander, uno dei suoi più notevoli pastori. Il Vescovo Tikhon salutò il festeggiato con queste parole: "Mentre ricordi la tua ordinazione sacerdotale in questo anniversario, stai senza dubbio involontariamente contemplando come hai utilizzato i talenti ricevuti da Dio, e chiedendoti se la grazia di Dio ti è stata concessa invano, e quanto sei avanzato sulla via della perfezione morale. Mentre ti giudichi in questo modo, sei al tempo stesso il giudice e l'imputato. Affinché un giudizio sia equo, la testimonianza di spettatori, i testimoni, deve essere ascoltata. Ora stanno parlando davanti a te - ascoltali. Diamo grazie al Signore! Abbiamo appena ascoltato la loro testimonianza eloquente e sentita che ti loda! Da me stesso come tuo superiore, posso testimoniare che ti sei dimostrato affidabile, e hai giustificato le aspettative che si erano riposte in te alla tua ordinazione. "

Il servizio pastorale sacrificale e dedicato del neomartire Alexander in America si concluse il 26 febbraio 1914, esattamente diciotto anni dopo la sua ordinazione sacerdotale. Nel suo discorso di commiato, padre Alexander disse: "Addio, Rus' ortodossa americana - la mia cara Madre, la santa Chiesa americana. Io, tuo figlio sempre grato, mi inchino filialmente a terra davanti a te. Tu mi hai messo al mondo spiritualmente, mi hai nutrito, dal profondo mi hai ispirato con la tua forza. Attraverso la luminosa testimonianza dei tuoi fondatori, attraverso gli illuminati insegnamenti apostolici dei tuoi predicatori, attraverso il fervore del tuo gregge fedele, mi hai dato la massima gioia possibile - quella di essere tuo figlio".

Dal 1914 al 1917, Padre Alexander servì come sacerdote a Helsinki, in Finlandia, dove la maggioranza della popolazione era protestante. Anche se la Finlandia era allora parte dell'impero russo, il clero ortodosso locale doveva fare grandi sforzi per proteggere i careliani ortodossi dal espansionismo proselitista dei luterani finlandesi. In Finlandia, il neomartire Alexander fu un leale, attivo e dedicato assistente del suo arcipastore - Sergio (Stragorodsky), futuro Patriarca.

Nel mese di agosto 1917, l'arciprete Alexander fu trasferito a Mosca e assegnato come vice parroco della Cattedrale di Cristo Salvatore. Qui era di nuovo sotto la guida diretta di San Tikhon, con il quale era già stato strettamente associato in America.

Il portatore di passione Alexander partecipò ai lavori del Concilio ecclesiastico del 1917-18. Quando il Concilio discusse l'elaborazione di un messaggio per il gregge ortodosso relativo alle elezioni al Consiglio di Stato, ha affermato che, siccome il destino della Russia era in gioco, la Chiesa e il Concilio, in particolare, non dovevano rifuggire dalla lotta per salvare la nazione. Parlando degli sforzi del Concilio per edificare la Chiesa, illustrò i suoi piani preliminari per l'ordine e la guarigione nella vita interna della Chiesa e dichiarò con una certa amarezza: "E' come se ci fossero costruttori che stanno a preparare furiosamente progetti, piani e così via per la costruzione di un edificio e allo stesso tempo stanno a osservare tranquillamente la distruzione di questo edificio mattone per mattone daparte dei nemici. "

Durante gli anni difficili della guerra civile, il neomartire Alexander collaborò a stretto contatto con San Tikhon nell'amministrazione della diocesi di Mosca. Nel 1918, sotto la guida spirituale del rettore, Padre Nicholas Arseniev, e il vice parroco, padre Alexander, fu stabilita una fratellanza affiliata alla Cattedrale di Cristo Salvatore. Come sua prima attività, la fratellanza lanciò un appello al gregge ortodosso, che padre Alexander contribuì a scrivere.

Il documento dichiarava: "Popolo della Russia! La Cattedrale di Cristo Salvatore, l'ornamento di Mosca, l'orgoglio della Russia, la gioia della Chiesa ortodossa è stata condannata a una lenta distruzione. A questo monumento glorioso per le grandi imprese dei guerrieri russi, che hanno dato la loro vita per la loro patria e la santa Fede ortodossa, è stato negato il sostegno statale ... Popolo della Russia! Vuoi davvero cedere questa splendida chiesa del Salvatore allo scherno? È proprio vero, come sostengono i persecutori della Santa Chiesa, che il popolo della Russia non ha più bisogno di cose sante - chiese, sacramenti, funzioni, perché tutto questo è vecchio e superstizioso? Rispondete, fedeli! Tutti voi, rispondete con una sola voce! Alzatevi a proteggere le vostre cose sante! Che le generose e ben intenzionate donazioni dei ricchi si aggiungano ai preziosi soldini  messi dai fedeli poveri. Mosca, sei il cuore della Russia! Conserva il tuo  santuario - la tua Chiesa del Salvatore dalle cupole dorate...!"

In risposta a questo appello, gli abitanti ortodossi di Mosca aderirono alla fratellanza della Cattedrale di Cristo Salvatore, e diedero le loro elemosine per sostenere la maestosa chiesa.

Il servizio pastorale in quel tempo era accompagnato da molto dolore e pericolo. Nel maggio 1920 e novembre 1921 Padre Alexander fu arrestato per brevi periodi. Fu accusato di violare i decreti relativi alla separazione della Chiesa dallo Stato, e la scuola dalla Chiesa, facendo scuola di chiesa per i bambini.

Nel 1922, la chiesa fu sottoposta a dure tribolazioni, quando, con il pretesto di aiutare gli affamati, tesori ecclesiastici tra cui vasi sacri, icone e altri ogetti sacri furono confiscati a forza dallo Stato. Rispondendo all'appello del suo santo primate, la Chiesa ortodossa fece generose donazioni per aiutare gli affamati. Tuttavia, quando San Tikhon rilasciò una dichiarazione al suo gregge in tutta la Russia che vietava la cooperazione del clero nel cedere i vasi sacri per un uso non ecclesiastico sulla base di diritto canonico, ebbe inizio sulla stampa una campagna diffamatoria contro la Chiesa, il suo primate fu arrestato, ed ebbe luogo in tutta la Russia un'ondata di casi giudiziari, in cui vari servitori dell'altare del Signore furono accusati di attività controrivoluzionaria. Nel corso di questi processi molti fedeli servitori della Chiesa di Cristo furono condannati a morte e versarono il loro sangue come ieromartiri e martiri.

In questo momento difficile per la Chiesa, Padre Alexander fu fermamente guidato dalle dichiarazioni del santo Patriarca per il suo gregge, e seguiva le sue direttive. Nella Cattedrale di Cristo Salvatore furono raccolti fondi per aiutare gli affamati. Allo stesso tempo, furono intraprese misure per proteggere gli oggetti sacri di questa chiesa. Riunioni del clero e dei parrocchiani della Cattedrale di Cristo Salvatore si svolgevano a casa di Padre Alexander, al fine di elaborare una deliberazione dell'assemblea parrocchiale generale riguardo al decreto di stato.

Una bozza della risoluzione, preparata da Padre Alexander, protestava contro la confisca violenta di oggetti di valore della chiesa. Un'assemblea generale di parrocchiani fu convocata il 23 marzo 1922 nella Cattedrale di Cristo Salvatore, e fu presieduta dall'Arciprete Nicola Arseniev. Padre Alexander era già stato arrestato. Questo incontro approvò il testo finale della risoluzione, che chiedeva garanzie da parte dello Stato che tutte le donazioni fossero utilizzati per salvare la vita degli affamati. I partecipanti alla riunione condannavano le pubblicazioni velenose contro la Chiesa, così come gli insulti contro la gerarchia. La stesura di questo documento fu ritenuta dalle autorità un'attività criminale controrivoluzionaria.

Dopo due cause contro la Chiesa, a Pietrogrado e Mosca, che portarono alle esecuzioni di ieromartiri e martiri, ebbe inizio a Mosca il 27 novembre 1922 un nuovo processo altamente visibile di clero e laici, durante il quale furono accusati di presunto "tentativo di conservare in proprio possesso oggetti di valore della chiesa e, attraverso la fame che ne risultò, rovesciare il regime sovietico".

Sotto processo in questo caso furono 105 chierici e laici. Tra gli imputati principali erano l'Arciprete Sergio Uspensky, decano del secondo distretto di quaranta chiese a Prechistenka, l'Arciprete Nicola Arseniev, decano della Cattedrale di Cristo Salvatore, l'arciprete Alexander Hotovitzky, vice parroco della Cattedrale, Ilya Gromoglasov, sacerdote della Cattedrale di Cristo Salvatore, Lev Evgenievich Anohin, sacrestano della Cattedrale, e l'Arciprete Simeone Golubev, rettore della chiesa di San Giovanni il Guerriero.

La parte più significativa del rinvio a giudizio sottoposto alla Corte riguarda l'attività del clero e dei laici della Cattedrale di Cristo Salvatore. L'accusa dichiarò: "I principali organizzatori e responsabili di questa attività criminale sono stati il sacerdote Hotovitzky, presidente del consiglio delle parrocchie in questo settore, il sacerdote Arseniev, rettore della Cattedrale, il sacerdote Zotikov, il sacerdote Gromoglasov, l'ex avvocato Kayutov, l'ex vice ministro Shchepkin, il mercante Golovkin e l'ingegnere Anohin. Quando è stato pubblicato il decreto del supremo Comitato esecutivo centrale, relativo alla confisca di oggetti di valore della chiesa, essi hanno iniziato la loro attività preliminari sotto la guida del sacerdote Hotovitzky, che in ripetute occasioni ha segretamente raccolto le persone summenzionate nel suo appartamento per pianificare con loro le misure che proponevano di mettere in atto per ottenere i loro scopi criminali".

Il caso fu in tribunale per due settimane. Dopo la lettura del dettagliato atto d'accusa, iniziò l'interrogatorio degli imputati ha cominciato. Padre Alexander rimase freddo e calmo durante l'interrogatorio, mentre cercava di proteggere gli altri imputati. Non ammise alcuna colpa, affermando: "ritengo che non sia controrivoluzionario chiedere una corrispondente quantità di metallo in cambio degli oggetti di valore della chiesa."

Dopo l'interrogatorio di tutti gli imputati e dei testimoni, alla sessione della Corte del 6 dicembre, il futuro infame e sinistro procuratore Vishinsky consegnò la dichiarazione conclusiva dell'accusa. Chiese al giudice una sentenza di pena capitale per tredici imputati tra cui gli arcipreti Alexander Hotovitzky, Nicola Arseniev, Sergio Uspenskij, il sacerdote Ilya Gromoglasov, la badessa Vera (Pobedinskaya) del Monastero femminile di Novodevichy e L.E. Anohin. Vishinski chiese per gli altri imputati condanne a pene detentive di varia lunghezza.

L'11 dicembre, gli imputati ebbero la possibilità di dire una parola finale alla Corte. Nelle sue osservazioni, Padre Alexander tentò, prima di tutto, di ottenere la clemenza della corte e la misericordia per i suoi confratelli, "Richiamo la vostra attenzione a coloro che erano alla riunione nel mio appartamento: alcuni di loro sono vecchi e gli altri sono molto giovani e colpevoli di nulla. Questo è stato un incontro del tutto ordinario, non era controrivoluzionario e non può in alcun modo essere qualificato come un losco complotto. "

I più lunghi commenti finali furono consegnati dal professore e sacerdote Ilya Gromoglasov. Il convenuto ha tentò di ottenere il favore della corte spiegando la sua precedente opposizione al Santo Sinodo. Per quanto riguardava le conclusioni del pubblico ministero, disse che "non sapeva nulla della organizzazione criminale guidata da Hotovitzky."

Il 13 dicembre, fu annunciato il verdetto del tribunale rivoluzionario. Era più mite rispetto ai verdetti assetati di sangue fatti dai precedenti processi tenutisi a Pietrogrado e a Mosca riguardo alla confisca di oggetti di valore della chiesa. Ciascuno dei principali imputati - la badessa Vera (Pobedinskaya), l'Arciprete Sergio Uspenskij e l'Arciprete Alexander Hotovitzky furono condannati a dieci anni di carcere, alla confisca dei loro beni personali e alla privazione dei diritti civili per cinque anni. Gli altri furono condannati a pene detentive minori. Gli appelli al perdono, da parte di coloro che erano stati condannati alle più lunghe pene detentive, tra cui l'Arciprete Alexander, furono respinti nella sessione del supremo Comitato Esecutivo Centrale il 16 febbraio 1923.

Dopo che il santo Patriarca Tikhon riprese la sua amministrazione della Chiesa e fece diverse dichiarazioni per quanto riguarda la fedeltà alle autorità governative, molti gerarchi, clero, leader religiosi e laici, che avevano precedentemente ricevuto sentenze della magistratura in relazione alla confisca di valori della chiesa, ricevettero l'amnistia. Padre Alexander fu tra quelli liberati nel mese di ottobre 1923. Dopo la sua liberazione non fu assegnato a una parrocchia, ma servì su invito in diverse chiese di Mosca.

Rimase libero solo per un breve periodo di tempo. Già il 4 settembre 1924, E. Tuchkov, capo della sezione 6 del Dipartimento di gestione dello stato politico, compilò una lista di tredici membri del clero e dirigenti della Chiesa di Mosca e raccomandò che fossero sottoposti a esilio amministrativo. Il neomartire Alexander, che era incluso nella lista, era caratterizzato come segue nel documento, "Sacerdote e predicatore con una istruzione post-universitaria, molto attivo, zelante e influente tra i tikhoniti. La sua visione è anti-sovietica."

Il 9 settembre 1924, il neomartire Alexander fu sottoposto a un interrogatorio. "Nelle mie convinzioni religiose", disse a quel tempo, "io mi considero un tikhonita. I miei rapporti con il Patriarca sono intimi e non solo strettamente amministrativi, ma negli ultimi tempi ho evitato l'incontro con il patriarca Tikhon,  sentendo che questo potrebbe procurargli dei guai a causa della mia condanna relativa alla confisca di oggetti di valore della chiesa. Non ho mai espresso un parere in merito al ripristino del precedente governo e un tale pensiero non mi è nemmeno passato per la mente. "

Per decisione di una riunione straordinaria dell'amministrazione del Dipartimento di gestione politica dello Stato, il neomartire Alessandro fu esiliato nella regione di Turuhan per un periodo di tre anni. La sua salute già cagionevole fu ulteriormente indebolita dal suo soggiorno nel lontano nord.

Dopo il suo ritorno dall'esilio, padre Alexander fu elevato al rango di protopresbitero e divenne uno dei più stretti collaboratori del vicario del locum tenens del Trono Patriarcale, il metropolita (poi Patriarca) Sergio, che lo conosceva bene fin dai tempi del suo servizio in Finlandia.

Nel 1930, il protopresbitero Alexander servì come rettore della Chiesa della Deposizione della Manto della Madre di Dio sulla Donskaya. Uno dei parrocchiani di questa chiesa ricorda: "Nel 1936, Padre Alessandro non predicava, gli era stato apparentemente proibito di farlo. Nel 1936-7, ero presente molte volte in cui Padre Alexander serviva. Era un prete alto, dai capelli grigi, con tratti del viso dolci, di aspetto estremamente intelligente. Grigio, con i capelli corti, una piccola barba, occhi grigi molto gentili, una voce da tenore acuta, forte... pronunciava le parole distintamente e in modo ispirato... Il suo aspetto mi ricordava tanti sacerdoti erano esuli dalle regioni occidentali ... Padre Alexander aveva molti parrocchiani che lo tenevano in grande venerazione... Ancora oggi, mi ricordo dei suoi occhi. Era come se il suo sguardo penetrasse il cuore e lo abbracciasse con affetto. Ho avuto la stessa sensazione quando ho visto il santo Patriarca Tikhon ... La stessa luce brillava anche negli occhi padre di Alexander, ed era la testimonianza della sua santità. "

Nell'autunno del 1937, il neomartire Alexander fu arrestato di nuovo. Le prove documentali su di lui a nostra disposizione si concludono con questo evento; tuttavia, la maggioranza dei rapporti orali testimonia la sua morte da martire. La Chiesa Ortodossa in America, nel cui territorio il protopresbitero Alexander servì come sacerdote fino al 1914, lo venera come un portatore di passione, la cui vita come confessore si è conclusa con sofferenze per Cristo. Il luogo della sua sepoltura è sconosciuto.

La Chiesa di Russia commemora il Santo Alexander anche il 7 agosto, insieme con gli Arcipreti Alexei Vorobiev, Mikhail Plishevsky, Ioann Voronets, i sacerdoti Dmitrij Milovidov e Petr Tokarev, il diacono Eliseo Sholder e l'igumeno Atanasio Egorov.

 

Тропарь, глас 6:

Кротость и смирение стяжавый, любовь Христову пастве своей показал еси в годину огненных искушений Церкви Российской и яко пастырь добрый душу свою за Него положил еси, молися о нас, священномучениче Александре, просвети души наша.

Кондак, глас 2:

Труды и болезни на рамо свое взял еси и, радуяся, путем тесным шествовал еси, страданьми за Христа Небесного Царства достигл еси, моли о нас Бога Спаса, священномучениче Александре, обрести нам милость в день судный.

Tropario, tono 6:

Fermo nella mitezza e nell'umiltà, hai mostrato l'amore di Cristo al tuo gregge nei tempi delle tentazioni infuocate della Chiesa russa, e come buon pastore hai deposto per esso la tua vita; intercedi per noi, o santo ieromartire Alexander, perché siano illuminate le nostre anime.

Contacio, tono 2:

Hai preso su di te fatiche e dolori e, con gioia, hai attraverso il sentiero stretto, tra le sofferenze hai raggiunto il Regno dei cieli di Cristo, intercedi per noi presso il Dio Salvatore, santo ieromartire Alexander, perché troviamo misericordia nel giorno del giudizio.

 

 
LITURGHIERUL MISIONAR – o abordare catehetică, pastorală şi misionară a slujbelor ortodoxe

Mânat de propriile căutări şi trăiri, precum şi de îndemnul şi încurajările mai multor preoţi şi prieteni, deja de peste 10 ani lucrez la un proiect misionar de redactare a textelor liturgice. Cu ajutorul lui Dumnezeu, acum a ieşit de sub tipar prima ediţie a unui Liturghier Misionar, care este menit să-i ajute în primul rând pe preoţi, dar şi pe studenţii la teologie şi pe simplii credincioşi să înţeleagă locul şi sensul fiecărui element liturgic din slujbele Vecerniei, Utreniei şi a Liturghiei. O asemenea abordare a slujbelor ortodoxe există deja de mai mult timp în diaspora ortodoxă şi aceasta nu este nici pe departe o inovaţie sau o trădare a Tradiţiei Bisericii, ci o înţelegere a priorităţii „duhului” faţă de „literă”, şi o ştergere a prafului sau a fumului (deja alergic) ce s-a depus peste textele liturgice. Conform hotărârilor Sinodului VII Ecumenic, dacă chipul unei icoane nu mai este clar şi nici nu poate fi restaurat, acea icoană trebuie scoasă din uzul liturgic, pentru că nu-şi mai împlineşte rostul iniţial; în cel mai bun caz ea devine piesă de muzeu. O abordare asemănătoare Biserica a avut-o şi faţă de slujbe şi textele liturgice, deşi, întotdeauna au existat oameni care consideră că şi icoanele, şi slujbele, chiar dacă nu mai sunt înţelese şi desluşibile, trebuie lăsate neatinse, deşi însăşi această neatingere nu înseamnă conservare, ci ignoranţă, care lasă să se adune şi mai mult praf sau fum… Deci eu nu am făcut altceva decât să şterg praful şi să restaurez chipul unor elemente liturgice devenite neclare sau lipsite de sensul lor primar.

Principiile de lucru la Liturghierul Misionar au fost enunţate şi în Introducerea acestei cărţi, pe care o redăm mai jos:

În „Concepţia misionară a Bisericii Ortodoxe Ruse” din 27 martie 2007, una din metodele misionare ale Bisericii este numită „liturghia/slujba misionară”, adică Liturghia şi Laudele la care rugăciunile preotului se citesc în voce, iar la nevoie, preotul face unele pauze în timpul slujbei, pentru a veni cu unele explicaţii catehetice. Cu mult înainte de această hotărâre sinodală, şi nu doar în Biserica Rusă, preoţii au simţit nevoia unei astfel de „Liturghii misionare”, dar în lipsa unei rânduieli oficiale, fiecare slujea cum credea că e mai bine. Asistând personal la unele din aceste slujbe, conştiinţa mea de preot şi „liturgist” a cunoscut stări şi de admiraţie, dar şi de dezamăgire. Cu greu însă m-am lăsat convins să elaborez o rânduială „avizată”, care să-i ajute şi pe cei mai puţin iniţiaţi.

Prin urmare, acest Liturghier reprezintă o versiune de probă a unui proiect de reeditare a textelor liturgice în conformitate cu vechile rânduieli şi practici ale Bisericii, adaptate la realităţile şi necesităţile misionare ale timpului şi locului în care trăim şi slujim, după o minuţioasă cercetare a istoriei şi textologiei rânduielilor liturgice. Fiecare element sau text liturgic menţionat aici, fie el şi cel mai neînsemnat sau necunoscut, are cel puţin o mărturie istorică în bogata Tradiţie a Bisericii – acesta fiind principalul criteriu după care am lucrat.

Rugăciunile preotului au fost plasate la sfârşitul ecteniilor, înainte de ecfonise, aşa cum au fost ele concepute, deşi unele au rămas să fie citite în taină (la Vecernie sau la Utrenie), întrucât rugăciunile provin din rânduiala Catedralei din Constantinopol, unde Vecernia şi Utrenia avea o cu totul altă rânduială şi nu corespunde numărului de ectenii şi cântări de acum.

Explicaţii detaliate privind unele modificări realizate, în special la Liturghie, se pot găsi, conform paginilor indicate, în cartea „Liturghia Ortodoxă, istorie şi actualitate” (abreviat: LOIA), ediţia a II, Sophia, Bucureşti 2013. Pentru cei care nu au studiat acest tratat istorico-liturgic le va fi mai greu să înţeleagă unele schimbări pe care le vor întâlni în rânduiala de faţă.

Acest Liturghier nu se vrea a fi un substitut sau o corectare a Liturghierului oficial, ci reprezintă doar o formă de redactare, care-i poate ajuta pe unii preoţi şi credincioşi să înţeleagă mai bine sensurile adânci ale cultului ortodox. Cu binecuvântarea chiriarhului, rânduiala propusă aici poate fi folosită în cult, iar elementele care aici lipsesc, vor fi preluate din Liturghierul oficial.

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Cuprinsul acestei cărţi este şi el interesant şi oarecum diferit faţă de Liturghierul clasic (oficial). Aici, pe lângă Liturghia Darurilor Înaintesfinţite unită cu Vecernia avem şi o Liturghie specială a Darurilor Înaintesfinţite unită cu Obedniţa, pentru a putea fi săvârşită în prima jumătate a zilei. De asemenea, am diortosit şi editat Rugăciunile [din spatele] Amvonului pentru principalele sărbători şi zile speciale ale anului liturgic. În Anexă am editat şi Antifoanele zilnice ale Liturghiei, uitate în tradiţia liturgică românească, precum şi unele comentarii mai extinse care justifică şi explică anumite modificări făcute în textul liturgic.

Cartea, tipărită cu binecuvântarea ÎPS Vladimir, mitropolitul Chişinăului şi al Moldovei, este adresată tuturor clericilor şi credincioşilor vorbitori de limbă română, şi sper din tot sufletul ca această ediţie, evident perfectibilă, să fie luată în seamă de editorii Liturghierului oficial al BOR sau, cel puţin, să genereze discuţii academice constructive privitoare la editarea noilor cărţi de cult.

În curând cartea se va vinde în mai multe librării bisericeşti din Republica Moldova şi România, dar vor putea fi comandate şi în străinătate. Precizăm că acest Liturghier are 300 de pagini în format A5, are coperţi groase, învelite în piele, este tipărit în două culori: negru şi roşu, şi are două semne de carte.

Pentru detalii privind achiziţionarea cărţilor în Moldova şi România vă puteţi adresa la adresa de email: shoping.cartereligioasa@gmail.com sau pe viber la numărul: 0037368202508.

Pentru a achiziţiona cartea în Europa Occidentală şi America, puteţi face comanda la adresa de email: ierompetru@gmail.com

 
Come rientrare nella Chiesa ortodossa - guida per scismatici

Ci siamo mai chiesti come fanno i cristiani sviati dalle “anti-chiese” scismatiche a rientrare in seno alla propria Chiesa madre? Devono rinunciare a tutto quello che sono e che hanno? Devono perdere la loro identità? Devono strisciare a farsi umiliare?

Niente di tutto questo.

Quello che si chiede, se ci sono fedeli che già si sentono ortodossi nella fede e nella dottrina, è solo riconoscere che lo scisma è una via sbagliata.

Chi ha voluto ricevere gli ordini sacri, sa che la politica normale della Chiesa è riceverlo come laico. Questo non è fatto solo per scoraggiare i cercatori di “ordinazioni facili”, ma anche per ricordare che le “anti-chiese” non hanno alcun fondamento di grazia, e pertanto le loro ordinazioni non sono “beni negoziabili”. Se l’ex-chierico offre comunque garanzie di una sincera vocazione e preparazione, nulla gli impedirà di ricevere in seguito un’ordinazione, questa volta autentica.

Nella sezione “Pastorale” dei documenti, pubblichiamo la documentazione completa in italiano e in russo (per la verità, parte dei documenti è in ucraino...) che ha portato due comunità parrocchiali al completo reintegro nella Chiesa Ortodossa Ucraina nel giugno del 2010. I passi sono semplici, chiari e pratici. Il risultato, nel caso in questione, è stato immediato.

 
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Padre Gregorio Cognetti

L'arciprete Gregorio Cognetti (che si è addormentato nel Signore il 14 Aprile - Martedì Santo - del 1998) ha guidato il Decanato d'Italia del Patriarcato di Mosca in tempi di grande difficoltà per i nostri fedeli. I testi che seguono (apparsi per la prima volta negli Stati Uniti) sono testimonianza della sua integrità di fede e dell'impegno nella riscoperta dell'Ortodossia in Italia.

Prima e dopo una Conversione

Da The Dawn, Gennaio 1993, p. 5-7

Sono un professore cinquantenne della facoltà di biologia all'Università di Palermo (Italia), ma soprattutto sono un sacerdote ortodosso.

Sono nato e cresciuto in una famiglia cattolica romana, devota e tradizionale. Nel passato, molti membri della mia famiglia sono stati preti, suore, e persino vescovi. Il mio padrino di battesimo era un cardinale! Fui educato in una scuola tenuta dai gesuiti. Tra le altre cose, studiai latino (8 anni), greco (5 anni) e filosofia (3 anni), e all'età di 17 anni avevo una buona conoscenza della dogmatica romana, e in particolare di Tommaso d'Aquino. All'università scelsi la facoltà di chimica, e quando ottenni la laurea ero diventato ateo: non potevo riconciliare la mia conoscenza scientifica con quell'approccio a Dio che mi era stato insegnato come l'unico esistente, e l'unico vero.

Dopo la laurea iniziai a lavorare come ricercatore in vari centri, sia negli Stati Uniti che in Italia. In questo periodo incontrai mia moglie e ci sposammo nel 1972. Nello stesso periodo divenni professore assistente all'università di Palermo. A Palermo c'è una chiesa di uniati italo-albanesi, e per puro caso vi andammo a partecipare alla Liturgia di San Giovanni Crisostomo, celebrata in greco. Fui subito affascinato: percepivo vagamente che dietro quella forma liturgica c'era qualcosa di immenso di cui non ero stato consapevole nei miei anni di frequentazione di chiese latine. Devo confessare, tuttavia, che il mio interesse iniziale era meramente culturale. Probabilmente, a causa della mia formazione scientifica, trovavo stimolante la scoperta di un (per me) nuovo campo di conoscenza. Avevo già esaminato le religioni non cristiane, ed ero convinto di conoscere praticamente tutto del cristianesimo. Il mio antico interesse per il mondo greco fu risvegliato, e mi sentii sfidato a saperne di più. Mi rivolsi a un sacerdote, chiedendogli informazioni, e poco dopo stavo leggendo libri di vari autori ortodossi contemporanei, come Evdokimov, Lossky, Meyendorff, Bloom e Ware. Fui profondamente impressionato dalla teologia di San Gregorio Palamas. Con stupore iniziai ad accorgermi che le critiche alla fede cristiana che mi avevano portato all'ateismo erano dirette soltanto alla scolastica, e non alla fede cristiana in sé! La distinzione tra essenza ed energie di Dio, l'approccio apofatico a Dio, non contraddicevano la mia conoscenza scientifica, ma ne costituivano il complemento in uno schema superiore di realtà! Così recuperai una fede ancora fragile: non più una fede romana, poiché avevo perso questa per sempre, ma una fede ortodossa. Anche mia moglie, che già conosceva alcune opere di Evdokimov, era con me. In breve tempo diventammo a pieno titolo membri della chiesa italo-albanese.

Nel 1975 eravamo a Houston, nel Texas. Io svolgevo ricerche presso il M.D. Anderson Tumor Center. Anche se eravamo comunicanti della locale chiesa ucraina, il rettore della chiesa ortodossa greca fu tanto gentile da permettermi di frequentare la biblioteca della chiesa. Lessi quante più opere possibile. La storia della chiesa e la teologia mistica ortodossa erano gli argomenti che più mi interessavano. Prestai una particolare attenzione ai sette Concili Ecumenici e agli pseudo-concili di Lione e di Firenze. Mia moglie era sempre al mio fianco, e discutevamo e valutavamo costantemente la nuova conoscenza che stavamo acquisendo. Gradualmente divenimmo consci che la Chiesa Ortodossa è la vera Chiesa Santa, Cattolica e Apostolica. Un altro evento importante, in quel periodo, fu l'incontro con Padre George Sondergaard. Ricevemmo da lui la prima idea di una missione ortodossa, ed egli piantò i semi delle nostre future conversioni. Di ritorno in Italia, collaborammo con zelo ed energia con la Chiesa italo-albanese, tuttora credendo (o, piuttosto, volendo credere) che fosse possibile essere cattolici romani e ortodossi allo stesso tempo. In quel periodo iniziammo a leggere i Padri, poiché avevamo comprato negli stati Uniti l'intera collezione dei "Padri Ante-niceni" e dei "Padri Niceni e Post-niceni" pubblicate da Eerdmans Leggemmo anche tutto quanto potemmo trovare sull'Ortodossia, in italiano, inglese e francese.

Nel 1979 eravamo di nuovo negli Stati Uniti. Lavoravo al dipartimento di chimica della Duke University, Durham, N.C. La nostra crescita spirituale giunse finalmente a maturazione. Comprendemmo che è impossibile avere una fede ortodossa rimanendo ancora nella comunione romana, e al di fuori della vera Ortodossia. Così fummo cresimati nella chiesa greca di Raleigh, N.C., nel Sabato dei defunti di Pentecoste del 1979. Presi il nome di Gregorio da San Gregorio Palamas, come tributo di gratitudine al santo la cui dottrina mi aveva ricuperato alla fede cristiana e alla vera Chiesa.

Dopo la cresima, il desiderio di impegnarci sempre di più nella Chiesa crebbe costantemente in noi. Ci rendemmo conto delle enormi benedizioni che il Signore ci aveva dato, e che questi doni, e la conoscenza che Egli ci aveva fornito, avrebbero dovuto dare frutti.

Nella domenica dopo la Santa Croce del 1982 fui tonsurato lettore nella chiesa greca di Greensboro, N.C. La lettura del vangelo del giorno non avrebbe potuto essere più appropriata: stavamo prendendo la nostra croce, per seguire il Signore.

Sono molto indebitato a Padre Dimitri Cozby, che in quel periodo era rettore di una missione vicina alla nostra. Fu molto utile con consigli e sollecitudine. Fu lui a introdurci al mondo della Chiesa Ortodossa d'America, e questo fu molto importante per la nostra formazione spirituale. Su suo consiglio, viaggiammo diverse volte in altre parrocchie della Chiesa Ortodossa d'America, in particolare ad Atlanta e al monastero di Resaca (dove prendemmo anche parte a un pellegrinaggio), e scoprimmo lo spirito di un'Ortodossia missionaria. Rimanemmo profondamente impressionati dalla persona del Vescovo Dimitri e dalla sua mente missionaria. Il suo modello fu probabilmente il più importante punto di riferimento nella nostra vita futura. In quel periodo scrissi anche alcuni articoli per The Dawn. Rimanemmo membri della locale chiesa greca, per due ragioni: dapprima, perché la Chiesa è una, e la giurisdizione non è così importante; e poi perché il nostro pastore greco era un ottimo sacerdote; avevamo debiti di gratitudine verso di lui e verso altri sacerdoti greci della zona; non c'erano ragioni per un cambio di giurisdizione che di sicuro lo avrebbe addolorato.

Nel 1983 eravamo di nuovo in Italia, a Palermo. Ero un professore associato, conducevo un brillante gruppo di ricercatori, vivevo agiatamente, e avevo molte soddisfazioni professionali, ma dal punto di vista spirituale la nostra situazione era critica. In città non c'era una chiesa ortodossa, e le più vicine erano sul continente, a Roma, Napoli o Brindisi (da 600 a 800 chilometri di distanza, con il mare da attraversare). Viaggiavamo in una di queste chiese una volta al mese per ricevere i Santi Misteri, e perché non volevamo che nostro figlio crescesse senza l'esperienza di una chiesa.

La disinformazione sull'Ortodossia era (e invero è tuttora) enorme. La grande maggioranza credeva (e crede tuttora) che gli ortodossi siano una sorta di protestanti anteriori alla riforma, che si rifiutano di obbedire al papa. I cattolici romani lasciano che la gente pensi che l'Ortodossia non sia altro che qualcosa di esotico ("barbe, incenso e funzioni interminabili"), relativo ai greci o ai russi, benché riconoscano che "nonostante lo scisma" alcuni ortodossi abbiano un buon grado di spiritualità. Tutto tendeva, a ogni livello di informazione (giornali, riviste, TV, etc.), a far credere che gli ortodossi sarebbero presto tornati all'ovile (ora, invece, la tendenza è di incolpare gli ortodossi come ribelli impenitenti). C'era un immenso lavoro missionario da compiere, poiché tanti erano estremamente insoddisfatti della loro Chiesa romana. La proliferazione delle sette, al di dentro e al di fuori del cattolicesimo romano, aveva inizio in Italia precisamente in quel periodo. Iniziammo a parlare dell'Ortodossia intorno a noi, con reazioni opposte: alcuni erano molto interessati (ma come rivolgersi a loro?); altri, soprattutto nella nostra famiglia, presero una ferma attitudine di disprezzo e di condanna nei nostri confronti. Due dei nostri cognati hanno rifiutato di vederci da quel periodo in poi.

Come lettore nel Patriarcato di Costantinopoli, ero stato preceduto in Italia da una lettera di referenze al vescovo locale, Gennadios, a Napoli. (A quel tempo non sapevo - lo venni a sapere molti anni dopo - che anche un'altra lettera, questa volta dalla mia parrocchia uniate di un tempo, mi aveva preceduto). Il mio primo impulso fu di far visita al vescovo e dirgli che desideravo aiutare a organizzare una comunità a Palermo (a quel tempo c'erano duemila studenti greci all'università di Palermo, e circa cinquanta famiglie miste), dove un sacerdote potesse fare visite periodiche. Il mio entusiasmo ricevette una doccia fredda. "Noi non facciamo proseliti", dichiarò il vescovo, iniziando a parlarmi. Quindi aggiunse che era necessario evitare ogni occasione di scontentare la Chiesa romana, per non danneggiare le buone relazioni tra Roma e Costantinopoli. Non si sarebbe potuta organizzare una comunità a Palermo, perché gli uniati non l'avrebbero gradita. Gli chiesi il permesso, in qualità di lettore, di celebrare funzioni in casa mia, cosa che mi concesse, a patto che mantenessi la cosa completamente privata.

Mi sforzai duramente di seguire il calendario della Chiesa tutti i giorni con la mia famiglia (mia moglie, il mio figlio di tre anni, e la sorella di mia moglie, che era diventata anche lei ortodossa in America). Cantavo le Ore e la Compieta; i Vespri al sabato, e il Mattutino e i Typika alla domenica. Devo confessare di non essere stato del tutto obbediente al Vescovo Gennadios; permisi a un piccolo gruppo di amici intimi di unirsi a noi in segreto. Non eravamo una chiesa, non eravamo una comunità, non eravamo proprio nulla. E dedicammo questo nulla a San Marco di Efeso. Pensammo che egli sarebbe stato il patrono più appropriato, poiché conobbe molto bene la sensazione di essere in Italia, da solo, a combattere per la fede ortodossa, con l'opposizione sia dei cattolici romani che degli ortodossi che volevano l'unione! Una volta al mese continuavamo a recarci in una chiesa ortodossa sul continente.

Il ricordo delle missioni della Chiesa Ortodossa d'America bruciava in noi. La nostra situazione sembrava avere raggiunto un vicolo cieco. La Pasqua si avvicinava, e desideravamo seguire le funzioni della Grande Settimana. Avevamo progettato di andare a Roma, ma poiché avevamo dimenticato di prenotare in anticipo, gli alberghi vicini alla chiesa erano tutti al completo. Così all'ultimo momento cambiammo idea e decidemmo di andare a Brindisi. Là incontrammo un sacerdote ortodosso italiano, Padre Antonio Lotti, del Patriarcato di Mosca, che concelebrava nella chiesa greca.

Non mi ero rivolto alla giurisdizione di Mosca, poiché a quel tempo sapevo che in Italia c'erano solo due chiese, i cui sacerdoti avevano una cattiva reputazione. Padre Antonio mi spiegò che questi due preti erano stati recentemente sospesi, e che il Vescovo Serafim di Zurigo, responsabile per l'Italia, li aveva rimpiazzati ordinando giovani italiani con una buona istruzione, un lavoro e una famiglia, per ridare vitalità all'Ortodossia italiana. Egli si offrì anche di scrivere al Vescovo Serafim riguardo alla situazione di Palermo. Dopo avere ricevuto l'autorizzazione, il Padre Antonio venne a Palermo e in una domenica celebrò la Divina Liturgia nel nostro salotto, alla presenza di un piccolo numero di persone, e promise di ritornare con regolarità. Fu un grande giorno per noi!

Ma di nuovo, il Signore aveva deciso altrimenti: ricevetti l'offerta di una cattedra per sei mesi all'università di Zurigo! Partimmo per Zurigo il 10 Giugno del 1984. Avevo con me una lettera firmata dai pochi membri della nostra non-comunità e da me stesso, in cui chiedevamo al Vescovo Serafim di aprire una missione a Palermo.

L'incontro con il Vescovo Serafim fu drammaticamente diverso da quello con il Vescovo Gennadios. Raccontai tutta la storia, gli diedi la lettera, e lo rassicurai che se avesse inviato un sacerdote a Palermo ci saremmo dati da fare per accoglierlo nel miglior modo possibile. Egli ascoltò molto attentamente, mostrò solidarietà, ma per il momento non rispose. Invece, mi invitò a servire come lettore nella sua chiesa, raccomandandomi di imparare lo slavonico. Sentii però in lui un calore e una bontà che mi fecero una grande impressione. Così, dopo molti anni di greco, iniziammo a familiarizzarci con la lingua e gli usi slavi. Servii regolarmente come lettore, e un giorno il Vescovo Serafim mi disse di volermi parlare in privato. Quando fummo soli, mi disse di aver deciso di aprire una comunità a Palermo, ma di non avere nessuno da assegnarvi come sacerdote. Poi sorrise e aggiunse: "A meno che tu stesso non voglia essere quel prete..."

Come dicevo prima, dopo la cresima avevo desiderato un maggiore coinvolgimento nella chiesa, ma, francamente, non vedevo il sacerdozio come meta a breve termine. Pensavo piuttosto a un diaconato, e, magari, al sacerdozio in tarda età. Il Vescovo Serafim non voleva una risposta immediata, così ricordo di aver passato molto tempo a discutere con mia moglie. Giungemmo alla conclusione che se volevamo davvero una chiesa a Palermo, dovevamo accettare, poiché sarebbe stato molto difficile che ci venisse data una seconda opportunità. Così accettai, e fui in breve ordinato suddiacono e diacono, e, poco più tardi, sacerdote.

Desidero ricordare un episodio importante. Il giorno prima della partenza da Palermo per Zurigo, chiamai al telefono lo Ieromonaco Michele a Resaca. Gli raccontai i recenti sviluppi della nostra situazione, e chiesi le sue preghiere. Ricordo che rispose: "Pregherò che tu ritorni come sacerdote". Fui sconvolto da questa risposta inaspettata. Il giorno prima della mia ordinazione al sacerdozio lo richiamai, e mi fu detto che Padre Michele era stato ricoverato in ospedale dopo un grave attacco cardiaco. Morì il giorno della mia ordinazione, il 2 Settembre 1984. La mia prima funzione come sacerdote, dopo la Liturgia dell'ordinazione, fu una Panikhida per lui, e il suo nome è sul mio Disco fin da allora.

Al termine della mia permanenza a Zurigo feci ritorno a Palermo, dove divenni professore di ruolo. Ma ora ero un sacerdote ortodosso. Mia moglie, nel suo ruolo di contatto con i fedeli, e mia cognata come direttrice del coro, hanno avuto un enorme ruolo nella costruzione della comunità. La "Parrocchia ortodossa di San Marco di Efeso" era una realtà.

Lettera a un amico cattolico romano

Chapel Hill (U.S.), Marzo 1982

Caro B.  

Anche se non me lo hai mai chiesto direttamente, io sento dalle tue parole che ancora non comprendi perché ho lasciato la chiesa Romana per diventare Ortodosso. "Eri addirittura membro di una delle parrocchie bizantine meno latinizzate", sembra che tu mi dica, "perché, allora?...". Credo di doverti una spiegazione, perché, molto tempo fa, quando entrambi appartenevamo alla chiesa Latina, condividevamo gli stessi sentimenti. Furono proprio questi sentimenti a condurre entrambi in una parrocchia di rito bizantino, e me, in seguito, all'Ortodossia. Non puoi aver dimenticato le critiche che noi muovevamo ai Romani: la continua sostituzione di nuove "tradizioni" al posto di quelle antiche, la Scolastica, l'approccio legalistico alla vita spirituale, il dogma dell’infallibilità papale. Allo stesso tempo entrambi riconoscevamo la legittimità e la correttezza della Chiesa Ortodossa. Una parrocchia uniata sembrava la soluzione ottimale. Mi ricordo cosa dicevo in quel periodo: "Penso come un Ortodosso, credo come un Ortodosso, allora sono Ortodosso". Entrare ufficialmente nella Chiesa Ortodossa mi sembrava solo un'inutile formalità. Addirittura pensavo che restare in comunione con la chiesa Romana fosse un fatto positivo, in vista dell’obiettivo di una possibile riunificazione delle Chiese.

Bene, B., avevo torto. lo credevo di conoscere la Fede Ortodossa, ma era solo un'infarinatura, e molto superficiale per giunta. Altrimenti non mi sarebbe potuta sfuggire l’intrinseca contraddizione tra il sentirsi Ortodosso e il non essere riconosciuto tale proprio dalla Chiesa la cui fede dichiaravo di condividere. Solo un non-Ortodosso può concepire un'assurdità come essere Ortodosso fuori dall'Ortodossia. La salvezza individuale non riguarda solo la singola persona, come molti Occidentali credono, ma deve essere vista nel quadro più generale della Comunione dell'intera Chiesa. Ogni Cristiano Ortodosso è come una foglia di vite. Come può ricevere la linfa vitale se non è attaccata al tralcio (Gv 15:5)? L'Ortodossia è un'impostazione di vita, non un rito. La bellezza del rito deriva dalla realtà interna della Fede Ortodossa, e non da una ricerca di forme. La Divina Liturgia non è una maniera più pittoresca di dir messa: nasce, riaffermandola, da una realtà teologica che diventa vacua e inconsistente se enucleata dall'Ortodossia. Quando c'è lo spirito della Fede Ortodossa, la funzione più misera, in una stanzaccia, con due icone di carta appoggiate su due sedie per iconostasi, e un pugno di stonati a far da coro, è incomparabilmente superiore alle funzioni nella mia ex parrocchia uniate, in mezzo ai magnifici mosaici bizantini del XII secolo, e un coro ben istruito (quando c'era). L'osservanza quasi paranoica delle forme del rito è il vano tentativo di compensare la mancanza di un vero ethos Ortodosso. Io mi illudevo credendo di poter essere un Ortodosso nella comunione Romana. Mi illudevo perchè è impossibile. La continua interferenza di Roma nella vita ecclesiastica ti ricorda al momento opportuno chi è che comanda. Pretendere di ignorarlo è volersi ingannare da sé. Cercavo di evitare il problema, facendo finta di essere cieco e sordo, e ripetendomi che io appartenevo all’ideale "Chiesa Indivisa". La mia posizione era molto peccaminosa. Anzitutto perché la Chiesa Indivisa esiste ancora: è la Chiesa che non ha mai rotto col suo passato, e che è sempre identica a se stessa: in altri termini la Chiesa Ortodossa. In secondo luogo perchè quel sentimento di essere membro della "Chiesa Indivisa", che io consideravo così cristiano e così irenico era invece un grave peccato di superbia. In pratica io mi ponevo al di sopra di patriarchi e papi. Credevo di essere uno dei pochi che veramente capivano la "Verità", al di là di "vecchie e sterili polemiche". Mi sentivo in diritto di chiedere l'Eucaristia tanto ai Romani quanto agli Ortodossi, e mi sentivo ingiustamente bistrattato quando questi ultimi me la negavano. Ho un gran debito di riconoscenza verso un Sacerdote che, in quel periodo, rifiutò di darmi la Comunione. Anziché parlare dolcemente di "impedimenti canonici", come se la faccenda fosse un problema meramente burocratico, mi disse a muso duro: "Se è vero che ti consideri Ortodosso, perchè continui ad appartenere all'eresia?". Io rimasi profondamente scioccato da queste parole, e per molto tempo non ritornai più in quella chiesa. Ma aveva ragione lui. Che enorme peccato di superbia era il mio! Io avevo "capito" quello che per secoli Santi, Padri, Vescovi, Sacerdoti non avevano capito. Secondo me lo scisma tra Oriente ed Occidente era un tragico "malinteso" basato solo su motivi politici e sulle elucubrazioni dei teologi. E così accusavo indirettamente tante Sante persone di ristrettezza mentale, di calcolo, di superficialità e di bigottismo. E scambiavo tutto ciò per carità cristiana...

No, B. E' impossibile essere cattolici Romani e Ortodossi allo stesso tempo. Il rito non è poi così importante. In fin dei conti i Latini sono stati Ortodossi di rito occidentale per diversi secoli. Sono d'accordo con te che, nonostante la separazione, Romani e Ortodossi hanno ancora molto in comune, ma ciò non basta per considerarli oggi parte della stessa Chiesa. Al di là delle ben note differenze dottrinali c'è proprio l'approccio al Soprannaturale, la vita stessa nella Chiesa che rende impossibile vivere le due realtà religiose allo stesso tempo. Nel Credo noi dichiariamo: "e (credo) nell'Unica, Santa, Cattolica e Apostolica Chiesa". Finché non ci sarà unità di fede esse saranno due chiese. La teoria (affermata anche da Giovanni Paolo II) che Romani e Ortodossi sono ancora la stessa unica Chiesa (nonostante lo scisma, e in un modo misterioso) suona bene, ma non regge. Si basa solo su belle parole. Le differenze di fede, invece, esistono, e non sono una semplice questione di parole. Sì, lo so, che "il dialogo teologico" è stato avviato, ed è addirittura possibile (tutto è possibile al Signore) che alla fine si raggiunga l'unità. Ma attenzione! Molti buoni Romani credono che le differenze potranno essere risolte mediante una geniale formula che, per la sua genericità, risulti accettabile alle due parti. Raggiunto poi l'accordo su questa formula ognuno la interpreterebbe secondo il proprio intendimento, mantenendo di fatto le proprie opinioni. Ancora peggio, alcuni propongono che l'unità venga fatta nella diversità, senza un impegno formale di fede da alcuna parte, ma sotto l'universale coordinamento del papa di Roma. Ebbene, tutto ciò è impossibile. I Padri ci hanno insegnato che l'accordo sulla fede comune dev'essere univoco e inequivocabile. L'Ortodossia segue lo spirito della Legge, piuttosto che la lettera. E poichè è impensabile che la Chiesa Ortodossa introduca nuove dottrine, spetta ai Romani abbandonare un millennio di innovazioni e ritornare senza riserve alla fede della Chiesa Cattolica ed Apostolica. Questa è l'unica piattaforma possibile per un accordo. La storia ha già dimostrato la fallacia di unioni basate altrimenti. E ora lascia che ti ponga una domanda banale: B., il papa è infallibile ("di per se stesso e non per il consenso della Chiesa", come specifica il dogma del 1870), o no? Non può essere contemporaneamente fallibile e infallibile, come accadrebbe se le due chiese fossero ancora parte della stessa Chiesa. Una delle due deve sbagliare. "Ma il Vaticano Il ha permesso ora una gran libertà di opinioni...", potresti rispondermi. Questo è un sofisma. La vera Chiesa non può cadere in errore. Se tu credi che la tua chiesa abbia sbagliato, o che in atto sbagli, neghi che sia la vera Chiesa.

 Ti abbraccio con immutata amicizia e amore in Cristo.

Gregorio.

 

Due opere di padre Gregorio Cognetti si trovano nella nostra sezione dei confronti tra teologie cristiane:

L'Ortodossia e le vie a Dio - Scienza e fede nella prospettiva cristiana ortodossa e nelle teologie occidentali

Il pensiero di San Gregorio Magno sul primato - Il primato nelle parole di uno dei più grandi Papi di Roma

 

 
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